Lo Scettro di Fuoco

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CAPITOLO QUATTRO

Oliver cadde fuori dal portale. Hazel gli andò a sbattere contro la schiena. Un attimo dopo, arrivò anche Ralph, colpendoli entrambi.

“Ahi!” sussultarono tutti mentre si ammassavano uno sull’altro.

“State tutti bene?” chiese Oliver, preoccupato per i suoi amici.

Hazel annuì, strofinandosi il gomito con il quale aveva sbattuto contro Ralph. “Sì, ma dove siamo?”

Si guardò attorno. Ralph nel frattempo si stava massaggiando la pancia, il punto dove il gomito di Hazel l’aveva colpito

“Ehi!” disse sgranando gli occhi. “Siamo già stati qui!”

Confuso, Oliver si accigliò e si guardò attorno osservando gli edifici. Erano tutti di tre o quattro piani, ammassati uno all’altro, con facciate piatte e tetti di color terra d’ombra bruciata. C’era la cupola di una cattedrale che incombeva dietro ad essi, gettando la sua ombra su tutto e dominando con la sua presenza. Ralph aveva ragione. C’era qualcosa di familiare in quel posto.

Poi Oliver sussultò quando capì. “Siamo tornati a Firenze.”

Hazel sgranò gli occhi. “Firenze? Dev’essere un errore. Pensi che il professor Ametisto ci abbia mandato di nuovo per sbaglio fino al portale di Leonardo?”

Oliver scosse la testa. “Non penso. I portali di Da Vinci erano rossi. Quelli del professor Ametisto sono viola.”

“Beh, allora forse siamo qui perché Leonardo ci aiuterà di nuovo?” suggerì Ralph. “Magari sa dove si trovi lo Scettro di Fuoco? O può fermare il tempo di nuovo in modo che possiamo trovarlo?”

Ma mentre si guardava attorno, Oliver si rese conto di una cosa. “No. Ci sono molti più edifici di quando siamo venuti a trovare Leonardo. Potrà anche essere lo stesso posto, ma è un’epoca diversa. Non siamo qui per avere l’aiuto di Leonardo. Siamo qui per trovare qualcun altro.”

Per qualche motivo sembrava ancora più strano trovarsi in un posto dove già erano stati prima. Avevano percorso queste strade nella loro missione con Leonardo da Vinci solo poche ore prima. Ma ora si trovavano nelle stesse strade, solo che anni – se non decenni – più tardi. C’era qualcosa di davvero strabiliante e complicato in questo.

“Non può essere tanto dopo, però,” considerò Hazel, picchiettandosi il mento. “Ci sono più edifici, ma sono tutti dello stesso stile architettonico. Non penso che siamo arrivati tanto più in là di un centinaio di anni rispetto a quando siamo stati qui l’ultima volta. Quali altri strabilianti italiani ci ha inviato a trovare il professor Ametisto?”

“Beh, oltre a Da Vinci e Michelangelo,” iniziò Oliver, “c’è ovviamente…”

Ma non riuscì a finire la sua frase, perché in quel momento qualcuno arrivò di corsa da dietro l’angolo e gli andò a sbattere dritto addosso.

“Scusa!” gridò il giovane.

Oliver si rialzò e si lisciò i vestiti stropicciati. “Sto bene, non ti preoccupare.”

Hazel sussultò. “Oliver, stai parlando italiano!”

“Davvero?” chiese Oliver.

Prima che potesse avere una risposta di conferma, il giovane che gli era andato addosso continuò a parlare.

“Sono in ritardo per la mia lezione all’Accademia delle Arti del Disegno,” disse. “È la lezione del professor Galilei.” Poi corse via.

Oliver si voltò verso i suoi amici. “Quel tizio parlava italiano?”

Entrambi annuirono.

“Sì!” disse Ralph. “E anche tu!”

Oliver scosse la testa. “Ma non capisco. Come?”

Poi ricordò. Lucia Moretti, l’insegnante che avevano incontrato nella loro ultima avventura, aveva instillato alcuni dei suoi poteri nella mente di Oliver. Forse una delle cose che gli aveva donato era la lingua italiana?

“Aspettate,” disse Oliver improvvisamente. “Ha detto che stava andando a una lezione di Galileo.”

Hazel sgranò gli occhi. “Certo. Galileo è uno dei fiorentini che sono venuti dopo Da Vinci. Dobbiamo essere nell’Italia del sedicesimo secolo.”

“Dovremmo seguirlo,” disse Ralph.

Oliver annuì, d’accordo con lui, e tutti partirono di gran carriera dietro al giovane che era scappato di corsa.

CAPITOLO CINQUE

“Quindi ci troviamo nell’Antica Grecia,” disse Walter. “E adesso?”

Esther si guardò attorno, schermandosi gli occhi per il sole accecante. “Dovremmo andare verso la città,” disse.

I ragazzi furono d’accordo con lei e tutti insieme si diressero verso il punto da cui era arrivata la biga, seguendo i solchi che aveva lasciato nel terreno.

C’erano molte strutture interessanti in città. Templi fatti di enormi blocchi di pietra. Giganteschi teatri aperti dalla forma circolare con spettacoli drammatici in pieno svolgimento all’interno. Da un vicino stadio provenivano un sacco di rumore e grida. Videro un castello con enormi colonne e un grandissimo ponte levatoio che doveva essere alto almeno quindici metri. Passarono accanto a una grande struttura quadrata costituita da diverse colonne che sostenevano un tetto e che a Esther sembrava un palazzo. Del resto i Greci erano famosi per il loro stile architettonico, e vedere tutto di persona era quasi ipnotico.

Arrivarono a un piccolo ma trafficato mercato, pieno di bancarelle di legno che vendevano tanti tipi diversi di cibo, come arance fresche e bottiglie di olio d’oliva. Tra le bancarelle erano appese delle stoffe che fornivano l’ombra necessaria.

“È davvero notevole,” commentò Simon.

“Sarà anche notevole,” disse Walter. “Ma la gente del posto non sembra tanto amichevole.

Esther si guardò attorno. Walter aveva ragione. Le persone li guardavano con cautela e sospetto.

Esther rabbrividì, sentendosi pervadere da una sensazione di incombente pericolo.

“Dobbiamo trovare dei vestiti per mimetizzarci meglio,” disse, improvvisamente consapevole che aveva ancora indosso la camicia da notte dell’ospedale, e che avrebbe voluto veramente vedere com’era fatto il retro di quell’indumento.

“Come facciamo?” chiese Simon con tono canzonatorio mettendosi le mani sui fianchi. “Non abbiamo denaro per comprare dei vestiti.”

Esther si morse il labbro costernata. Non avevano soldi, aveva ragione. Ma di certo non potevano continuare ad andare in giro vestiti così. Walter aveva indosso una maglietta con un personaggio dei fumetti degli anni Ottanta sul davanti, disegnato con colori sgargianti, e un paio di scarpe da ginnastica bianche. Simon aveva un gilet di tweed marrone e un paio di pantaloni della stessa guisa. Ed Esther indossava la sua camicia da notte azzurrina dell’ospedale. Erano ben lungi dal non dare nell’occhio. Ma rubare era sbagliato e lei lo sapeva bene. Doveva esserci un altro sistema.

“Guardate, di qua,” disse, indicando un mucchio di spazzatura.

Si avvicinarono tutti. Sembravano esserci vasellame rotto, cibo marcio, piante morte, rami d’albero e altri tipi di vegetazione. Ma la cosa più importante per loro era che c’era anche una gamma di abiti stracciati, stoffe, toghe, sandali e cose simili. Anche se i vestiti erano evidentemente molto sporchi e lisi, era sempre molto meglio di ciò che avevano indosso ora.

“Tombola!” gridò Esther.

Simon sembrava disgustato. “Vi aspettate davvero che mi metta a rovistare in un mucchio di spazzatura?”

Esther incrociò le braccia. “Hai idee migliori?”

Simon parve abbacchiato. Arricciando il naso si avvicinò al cumulo di immondizie e iniziò a spostare cautamente gli oggetti di lato. Walter nel frattempo ci si buttò senza problemi e si trovò a tempo di record una toga e un paio di sandali. Indossò tutto e sorrise soddisfatto.

“Quanto fico vi sembro adesso?” disse, il sorriso in volto e le mani sui fianchi. “Lasciando perdere le macchie, ovviamente.”

Esther si mise su un’altra toga. “Cioè, è un po’ grande,” disse, guardando le fasce di stoffa che ora la avvolgevano. “E ad essere onesti assomiglia molto alla mia camicia dell’ospedale! Ma mi piace. Più o meno.”

Soprattutto, sapeva di stare molto meglio con quella toga che con il vecchio e puzzolente abito di ospedale, che così avrebbe dato meno nell’occhio e si sarebbe quindi meglio confusa con il resto.

In quel momento Simon emerse da dietro il mucchio. Aveva ancora un’espressione del tutto disgustata in volto. Era riuscito a trovare solo un piccolo pezzo di stoffa che si era avvolto attorno alla vita come un gonnellino. L’unica cosa che portava sul busto era una cintura fatta di corda, che si era messo attorno alla spalla destra e che gli attraversava diagonalmente il petto.

Walter scoppiò a ridere. Addirittura Esther, di solito così seria e contenuta, ridacchiò un poco.

Simon fece una smorfia. “Mi scotterò di sicuro con questo. Sarà meglio trovare dell’ombra. E velocemente.”

Ma Esther strinse i denti determinata. Non era dell’umore giusto per stare ad ascoltare le lamentele di Simon riguardo alle scottature da esposizione al sole.

“Ci troviamo in missione,” gli ricordò. “Una missione molto importante per salvare la Scuola degli Indovini. Così importante che il professor Ametisto ci ha divisi in due squadre.” Sentì un nodo che le si formava nella gola al pensiero di Oliver, al fatto che lui si trovava da qualche altra parte nell’universo, in un tempo e in uno spazio completamente diversi. “Quindi piantala di lamentarti.”

Simon sospirò. “Sì, mi sa che hai ragione. La missione è molto più importante di quanto stupido io sembri e del fatto che la mia pelle estremamente chiara si scotti facilmente facendomi assomigliare a un’aragosta. Un’aragosta nuda.”

“Grazie,” rispose Esther, scegliendo di ignorare il suo sarcasmo. “Ora la missione deve avere inizio. Troviamo lo Scettro di Fuoco e salviamo la Scuola degli Indovini.”

 

CAPITOLO SEI

Edmund stava sdraiato, piangente, nella piccola stanza buia. Niente era andato secondo i suoi piani. Aveva fatto del male a Esther, era stato usato da Madama Ossidiana, e ora non sarebbe mai più stato capace di tornare alla Scuola degli Indovini. Se il professor Ametisto avesse mai scoperto quello che aveva fatto, lo avrebbe di sicuro espulso.

Improvvisamente si sentì bussare alla porta. Edmund si mise a sedere, asciugandosi le lacrime. “Sì?”

La porta si aprì e una ragazza dai capelli rossi guardò all’interno. “Madama Ossidiana ha chiesto di te.”

Edmund si sentì stringere il petto. Non aveva nessun altro posto dove andare. Dopo il suo tradimento della scuola, di Esther, si era svegliato e aveva trovato l’intera struttura che tremava violentemente. Poi Madama Ossidiana gli era apparsa e gli aveva offerto un posto alla sua scuola. Non aveva avuto altra scelta che accettare.

Si alzò, tutto il corpo come piombo, e seguì la ragazza dai capelli rossi fuori dalla stanza.

“Comunque io sono Madeleine,” disse la ragazza mentre gli faceva strada lungo i bui corridoi.

Ma Edmund era talmente abbacchiato da non poter neanche rispondere.

“Ti abituerai a questo posto,” gli disse lei tentando di incoraggiarlo. “È una scuola fantastica.”

“Sicuro,” bofonchiò lui, ma sapeva che non sarebbe successo.

La Scuola degli Indovini di Madama Ossidiana era un posto orribile. La sua vecchia scuola era stata luminosa e moderna, ma questo era come un antico e umido castello. Era freddo. Sapeva di muffa. Era qui solo da una notte e già lo odiava.

Madeleine si fermò vicino a una grande porta di legno e bussò.

“Avanti,” disse una voce dall’interno.

Edmund riconobbe subito la voce. Madama Ossidiana. La donna che lo aveva ingannato tradendo il suo amore, Esther.

Madeleine aprì la porta e fece cenno ad Edmund di seguirla all’interno.

Dentro c’era una stanza che assomigliava a un ufficio. C’era un grande tavolo con molti posti a sedere, ciascuno occupato da uno studente ossidiano. Su un grande trono sedeva Madama Ossidiana stessa.

Edmund osservò uno per uno gli studenti nella sala. C’era un ragazzo dall’aspetto molto strano, con i capelli neri e i lineamenti ossuti, la pelle così pallida che lo faceva assomigliare a un teschio con gli occhi. Gli occhi però erano di un blu molto intenso, una cosa mai vista. Accanto a lui sedeva una ragazza alta con il trucco scuro, le braccia incrociate in un modo che la faceva apparire davvero perfida. Accanto a lei c’era un ragazzo grassoccio con capelli scuri e occhi completamente neri che stavano fissi sul piano del tavolo. Era come se avesse appena vissuto un qualche terribile trauma.

Madeleine, la ragazza dai capelli rossi, si accomodò nell’unico posto libero accanto al ragazzo dall’aspetto equivoco, lasciando Edmund lì in piedi da solo.

“Questo è Edmund,” annunciò Madama Ossidiana, sorridendo in quel suo modo freddo. “Il mio informatore interno. La mia straordinaria spia.”

Edmund sentì lo stomaco che gli si aggrovigliava. Come osava fingere che lui fosse stato d’accordo con il suo piano. Come se non lo avesse ingannato inducendolo a lavorare per lei.

“Pensavo che sarebbe carino se tu spiegassi a tutti quello che è successo alla Scuola degli Indovini,” continuò la preside. “Dato che il tuo ruolo è stato così determinante per la missione.”

Edmund strinse i denti. Rabbrividì ricordando il modo in cui la scuola si era messa a tremare. A come le sue pareti avevano cominciato a crollare. A come i rami del kapoc si erano spezzati, facendo crollare le passerelle a terra. A come i suoi insegnanti e compagni di classe – e suoi amici – avevano dovuto fuggire attraverso il trasportatore di emergenza.

“È stata evacuata,” mormorò, tenendo la testa bassa per la vergogna.

“E perché è stata evacuata?” insistette Madama Ossidiana.

Chiaramente si stava divertendo. Edmund provò una fitta di odio nei suoi confronti, più forte dell’odio che aveva mai provato per il suo vecchio rivale d’amore, Oliver.

“Perché stava crollando,” annunciò, tutta l’amarezza provata che traspariva nel tono di voce.

Tutt’attorno alla stanza gli studenti ossidiani applaudirono. Sembravano emozionati mentre si scambiavano esclamazioni sussurrando l’uno con l’altro. L’intera faccenda lo faceva stare male e lo lasciava pieno di vergogna.

Madama Ossidiana, d’altro canto, sembrava completamente deliziata. “La Scuola degli Indovini di Ametisto sta affrontando la rovina,” annunciò con gioia. “Quindi adesso è il momento perfetto per mandare una squadra d’assalto.”

Edmund sussultò. “No. per favore, lasciatela stare! Cos’altro c’è da prendere dalla scuola? Non avete già ottenuto tutto quello che volevate?”

Madama Ossidiana fece un ghigno. “Edmund, Edmund, Edmund. Caro, stupido ragazzo. La Scuola degli Indovini contiene alcuni degli artefatti più importanti conosciuti da quelli come noi. Il professor Ametisto ha tenuto rinchiusi e protetti così tanti documenti e testi, così tanti archivi. Detiene tanta di quella conoscenza. Si reputa un guardiano, capisci. Crede che solo lui e un piccolo numero di indovini sparpagliati per la storia possano essere considerati affidabili nella conservazione dei segreti degli indovini. Ma io credo nella condivisione delle informazioni. Desidero liberare la conoscenza che lui ha preservato per se stesso per tutti questi secoli.”

Attorno al tavolo Edmund vide tutti gli studenti indovini che annuivano concordi. Quindi quella era la bugia che Madama Ossidiana aveva propinato loro, pensò. Laddove aveva usato l’amore che lui provava per Esther per convincerlo a seguire i suoi ordini, stava nel contempo intessendo un falso racconto anche per i suoi studenti. Tutti pensavano al professor Ametisto come a un uomo terribile che teneva per sé tutti i segreti degli indovini. Ma Edmund sapeva la verità. Sapeva che il professor Ametisto era il miglior indovino dell’universo. Che aveva accettato un grosso fardello sulle proprie spalle. Che il suo cuore era puro e che tutto ciò che voleva era insegnare ai suoi studenti le cose giuste, in modo che insieme potessero tenere l’universo al sicuro.

Edmund capì di aver tradito il miglior mentore che mai avesse avuto il privilegio di avere. Che la scuola che amava era spacciata. E che lui aveva la colpa di tutto. Si sentiva annientato. Senza speranze. Desolato.

Negli occhi di Madama Ossidiana lampeggiò una luce malefica. La donna batté le mani sonoramente. Improvvisamente apparve un vorticante portale dall’altra parte della stanza.

Il vento soffiò nella stanza. Edmund sussultò, sentendo l’aria che gli sferzava gli abiti e i capelli.

Madama Ossidiana si alzò lentamente dal suo trono e sorrise, le luci del portale che si riflettevano nei suoi occhi.

“Madeleine. Natasha. Malcom,” disse. La maligna ragazza con i capelli neri e il giovane con il viso da teschio scattarono in piedi al suo comando, come anche Madeleine. Madama Ossidiana guardò il ragazzo paffuto. “E Christopher.”

Anche lui si alzò in piedi. C’era qualcosa che non andava in lui, pensò Edmund. Qualcosa che non era del tutto umano. Sembrava perseguitato, come se avesse subito un terribile trauma. E sembrava cattivo, come se fosse alla ricerca di vendetta.

“Voi siete la mia squadra,” annunciò Madama Ossidiana. “I miei migliori e più brillanti studenti.”

Edmund guardò, lo stomaco strizzato dalla vergogna, mentre i quattro studenti ossidiani si dirigevano verso il portale per mettere fine una volta per tutte alla distruzione della Scuola degli Indovini, un processo che lui stesso aveva messo in moto nell’istante in cui aveva assecondato i desideri di Madama Ossidiana.

“È giunta l’ora,” gridò la donna con voce ruggente, agitando il pugno verso il cielo. “È ora di rivelare i segreti degli indovini una volta per tutte!”

I quattro ragazzi scomparvero attraverso il portale ed Edmund sentì le proprie spalle afflosciarsi. La Scuola degli Indovini era spacciata.

CAPITOLO SETTE

Oliver, Ralph, e Hazel corsero dietro al ragazzo, seguendolo tra le vie di Firenze. Oliver stentava a credere che fossero arrivati ai tempi di Galileo. Aveva incontrato talmente tanti dei suoi eroi viaggiando nel tempo, e non ci stava più dietro con la testa. Se qualcuno gli avesse detto, mentre leggeva un tempo il suo libro degli inventori, che un giorno avrebbe incontrato alcune delle persone di cui si parlava al suo interno, non ci avrebbe mai creduto!

Davanti a loro apparve una fila di edifici terrazzati di colore beige. Erano alti dai quattro ai sei piani, e ciascun livello era dotato di una serie di piccole finestre quadrate e ordinate. Il ragazzo che stavano seguendo entrò di corsa da un portone in legno intagliato che dava accesso a uno degli edifici di quattro piani. Quando furono più vicini, Oliver vide che accanto al grosso portone c’era una placca di pietra intagliata che riportava le parole Accademia delle Arti e del Disegno.

“È molto più piccola di quanto mi aspettassi,” commentò Ralph.

Hazel accarezzò con le dita le lettere incavate, come a volere assorbire parte della loro storia. “Sapete che anche il nostro amico Michelangelo ha studiato qui?” commentò.

“Amico?” scherzò Ralph. “Non penso che incontrare una persona una volta la renda automaticamente un amico.”

“Ci ha aiutato a salvare la vita di Esther,” rispose Hazel corrugando la fronte. “Di certo questo non lo fa diventare un nostro avversario!”

“Ragazzi,” li interruppe Oliver. “Adesso non è il momento di mettersi a bisticciare. Su, entriamo.”

Spinse il grosso portone di legno che si aprì cigolando. Oliver si sentiva come se si stesse introducendo in qualche posto segreto. Era una sensazione che spesso provava quando gironzolava per il passato. Era difficile accettare sul serio che, in quanto indovino in missione, l’universo gli concedesse di trovarsi in un certo posto e tempo. Si aspettava sempre che qualche insegnante severo saltasse fuori e gli dicesse di andarsene.

L’Accademia delle Arti del Disegno era piuttosto fresca all’interno, grazie in parte al pavimento in marmo e alle piccole finestre che lasciavano entrare ben poco del calore del sole. Il contesto scuro era accentato anche dai pannelli in legno che ricoprivano le pareti per metà della loro altezza e da una serie di travi dello stesso colore che percorrevano la larghezza del soffitto sopra di loro. Lungo il corridoio si trovavano, disposte a intervalli regolari, delle imponenti statue di pietra che completavano così l’atmosfera di grandiosità e soggezione.

Quando entrarono, i loro passi riecheggiarono. Oliver guardò in fondo al corridoio, a sinistra e poi a destra.

“Eccolo lì!” gridò, vedendo il ragazzo scomparire attraverso una porta.

Lo seguirono di corsa ed entrarono anche loro.

Si ritrovarono in un’ampia aula che portò a Oliver il doloroso ricordo della classe della dottoressa Ziblatt. Aveva lo stesso ferro di cavallo fatto di panche e un palco al centro, ma invece di essere bianca, moderna e splendente, questa era in legno. E invece di un grande schermo per le proiezioni, c’era una lavagna sulla quale era riportata una scritta in gesso bianco che diceva: L’arte della prospettiva è di natura tale da rendere in rilievo ciò che è piatto e piatto ciò che è in rilievo.

Con trepidante entusiasmo, Oliver si rese conto di conoscere la citazione. Provò uno strano rimestio nella mente mentre gli ingranaggi si mettevano in moto. Poi riuscì a capire di chi fossero quelle parole. Le aveva dette Leonardo da Vinci. E Oliver non se ne ricordava per averle lette in un libro di testo o per averle sentite durante una conversazione, ma le aveva prese direttamente dalla propria mente. Quella sensazione era data dal suo cervello che accedeva alle conoscenze di Leonardo da Vinci, conoscenze che erano state impiantate nella sua mente durante la loro ultima missione in Italia.

Lo shock fu travolgente. Nel caos del salvataggio di Esther e del salto attraverso il portale, Oliver non aveva per niente dimenticato i ricordi di Leonardo che gli erano stati impiantati. Non solo possedeva gli immensi poteri da indovino della preside Moretti, insieme alla sua intelligenza, che stava ora silenziosa nella materia grigia della sua mente, ma possedeva anche nient’altro che quella di Leonardo da Vinci! E proprio come le doti linguistiche della Moretti erano improvvisamente apparse quando ne aveva avuto bisogno, allo stesso modo pareva che le conoscenze di Leonardo gli si stessero presentando ora. Si chiese quali altri doti potesse aver acquisito, le circostanze necessarie per accedervi e la situazione nella quale avrebbe potuto avere bisogno di utilizzarle. Parlare italiano avrebbe sicuramente dato loro un buon vantaggio per il resto del tempo che avessero trascorso in Italia.

 

Oliver riportò la sua attenzione al giovane Galileo, che si trovava sul palco davanti a lui. Sembrava avere una ventina d’anni. Allora di certo era prima che facesse tante delle sue grandi scoperte. Ripensando al capitolo del suo libro degli inventori, Oliver ricordò come Galileo avesse superato i quarant’anni quando aveva elaborato la legge della caduta dei corpi e le traiettorie paraboliche, studiato la meccanica, il moto, il pendolo e altre formule matematiche. Era oltre i cinquanta quando aveva fatto le sue grandiose scoperte astronomiche – montagne sulla Luna, le lune di Giove – sfidando la convinzione di lunga data che la Terra fosse il centro dell’universo, una dichiarazione che lo aveva fatto condannare dalla Chiesa.

Oliver perlustrò le proprie nozioni, cercando di ricordare cosa facesse il giovane Galileo a vent’anni. Doveva essere un periodo di negatività, quando aveva lasciato l’Università di Pisa senza laurearsi, dopo essere passato da medicina a matematica a filosofia. Si chiese perché il professor Ametisto li avesse mandati a incontrare Galileo a un punto della storia in cui non aveva ancora scoperto nulla di importante.

Oliver, Ralph e Hazel scivolarono nella fila posteriore. Quando Galileo iniziò la sua lezione, Ralph si piegò verso Oliver.

“Non capisco una sola parola di quello che dice.”

“È Italiano,” sussurrò Oliver in risposta.

Ralph incrociò le braccia. Hazel mise il broncio.

“Non è giusto,” disse. “Mi piacerebbe un sacco sapere cosa sta dicendo. Non puoi tradurre?”

Ma Oliver le disse di fare silenzio. “Non posso tradurre se non riesco a sentire quello che dice, no?”

Hazel si accigliò e si appoggiò allo schienale, adottando la stessa posa con le braccia incrociate che aveva Ralph. A Oliver spiaceva che dovessero passare un’ora di quella che doveva per forza essere una lezione affascinante, senza poterne capire una sola parola.

“Come possiamo vedere qui,” stava dicendo Galileo indicando un dipinto che raffigurava una donna con un abito blu e rosso che teneva in braccio una piccola creatura, “la figura è stata posizionata diagonalmente all’interno dello spazio, la testa ruotata verso la spalla sinistra, che è più vicina allo spettatore. Quindi la sua nuca e la spalla destra sono in ombra. Invece la mano destra, appoggiata sul fianco dell’ermellino, e per forza l’ermellino stesso, come anche il naso, il volto e la spalla sinistra di lei, sono stati illuminati. In questo modo l’artista ha dato l’impressione della luce che si diffonde. Questo ci fornisce una comprensione della distanza, della posizione in relazione alla luce.”

La Dama con l’ermellino, pensò Oliver, e il nome del dipinto si mostrò nella sua mente dal nulla.

Hazel si avvicinò a lui. “Quello è uno dei dipinti di Da Vinci,” disse.

Ovvio.

Di nuovo il ricordo arrivò da uno di quelli che Da Vinci aveva instillato nella sua mente. Ma questa volta era qualcosa di più viscerale, come se portasse con sé non solo informazioni, ma una sensazione. Una fitta di malinconia pulsò nel petto di Oliver mentre si rendeva conto che, in questa linea temporale, l’uomo di cui possedeva conoscenze, ricordi ed emozioni era morto. E anche se Oliver sapeva che tutto il tempo esisteva all’unisono, che non era lineare, si sentiva comunque triste pensando che in questo punto della storia il brillante Leonardo non c’era più. Che la sua mente meravigliosa viveva solo all’interno dei recessi di quella di Oliver.

Una mano posata sulla sua lo riportò al momento presente. Oliver si voltò e vide i sinceri occhi grigi di Hazel.

“Sei preoccupato per Esther?” gli sussurrò con tono gentile.

Oliver emise una risatina malinconica. “Adesso sì.”

“Ops, scusa,” rispose Hazel, rendendosi conto del proprio errore. Poi corrugò la fronte. “A cosa stavi pensando allora, se non a lei? Avevi uno sguardo così triste.”

Oliver arricciò le labbra. Non voleva dare nessun peso ad Hazel, ma sapeva anche che gli avrebbe fatto male, nel tempo, continuare a tenere per sé quel segreto.

“A Da Vinci,” sussurrò, tenendo la voce bassa in modo da non disturbare gli studenti concentrati che sedevano attorno a loro. “Lo posso percepire,” spiegò dandosi un colpetto alla testa. “Qua dentro.”

Hazel sgranò gli occhi. “Intendi dire le sue conoscenze?”

“Le sue conoscenze. I suoi ricordi.” Oliver spostò la mano posandosela sul cuore. “I suoi sentimenti.”

“Oddio,” rispose Hazel con espressione scioccata.

In quel momento Ralph si chinò verso di loro. “Di costa state confabulando?” chiese con voce ben più alta rispetto agli altri due.

Diversi studenti seduti sulla panca davanti alla loro si girarono guardandoli storto e portandosi il dito alle labbra: “Shh!”

Ralph arrossì per l’imbarazzo e sprofondò nel suo posto. Incrociò le braccia e mise il broncio per non essere stato reso partecipe del segreto.

I tre amici rimasero per l’intera lezione. Hazel passò tutto il tempo seduta con la schiena dritta e il volto raggiante. Ralph d’altro canto sembrava annoiato a morte. A un certo punto si appisolò quasi.

Ma Oliver si sentiva riempire di un misto di sensazioni. Ricordi e sentimenti che appartenevano a Leonardo venivano risvegliati in lui mentre Galileo discuteva le sue teorie sulla prospettiva nell’arte, spiegandole agli studenti. Era qualcosa di a dir poco particolare, e Oliver fu sollevato quando la lezione finalmente terminò.

Mentre gli studenti uscivano, i tre amici si diressero dalla parte opposta, scendendo i gradini e avvicinandosi a Galileo.

“Mi scusi,” disse Oliver, trovandosi senza sforzo a proprio agio parlando con naturalezza italiano. “Il signor Galilei?”

“Sei un po’ giovane per prendere parte alle mie lezioni, no?” disse Galileo squadrandolo dalla testa ai piedi.

“Non siamo studenti del suo corso,” gli disse Oliver. “Siamo indovini.”

Decise di mostrare direttamente tutte le carte in tavola. Il professor Ametisto li aveva mandati in quest’epoca e in quel luogo per un qualche motivo, e ogni grandioso inventore che avevano incontrato durante le missioni precedenti si era rivelato essere un indovino, o qualcuno che era in contatto con essi. Non aveva tanto senso stare a menare il can per l’aia.

Vide un lampo di comprensione negli occhi del giovane uomo, ma Galileo non assecondò il suo gioco.

“Non ho idea di cosa stiate parlando,” disse, raccogliendo le sue carte.

“Io penso di sì,” insistette Oliver. Siamo stati mandati a Firenze. Dal professor Ametisto. Forse lo conosce? Guida la Scuola degli Indovini. Siamo in missione per trovare lo Scettro di Fuoco. Ne ha sentito parlare, per caso?”

Dal modo in cui Galileo stava infilando nella borsa le sue carte, Oliver poteva dire che la risposta era affermativa. Di certo sapeva qualcosa. Qualcosa con cui, per motivi sconosciuti, non si sentiva a proprio gio.

“Non ne ho mai sentito parlare,” affermò, evitando di guardare Oliver negli occhi.

Oliver nutriva il forte sospetto che Galileo stesse mentendo, anche se non sapeva il perché. Forse non era un indovino. Ma di certo c’era qualcosa di insolito in lui.

Decise di fare il coraggioso. “Veniamo dal futuro,” disse.

“Oh, davvero?” disse Galileo. Smise di trafficare con la borsa. “Allora, per darmene la prova, ditemi qualcosa che non è ancora stato scoperto.”

Oliver esitò. Sapeva come tutto fosse equilibrato in maniera precisa e accurata. Sapeva che dovevano essere molto cauti per non sbilanciare le cose. Sapeva che un passo falso anche minimo poteva causare una reazione catastrofica.

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