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Il Quadriregio

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CAPITOLO XIII

Come l'autore trova una ninfa chiamata Taura, la quale gli rende ragione di molti fenomeni.

 
        Appena eravamo iti un miglio e mezzo,
        ch'io vidi in una valle una donzella
        sotto una quercia, che si stava al rezzo.
 
 
        Io andai a lei e dissi: – O ninfa bella,
    5 di qual reame se'? O dolce dama,
        deh, fammi cortesia di tua favella,
 
 
        e dimmi il nome tuo come si chiama.
        Cosí soletta senza compagnia
        aspetti tu alcun, che forse t'ama? —
 
 
   10 Ella si volse e riverenzia pria
        fece alla dea; e poi cosí rispose
        alle parol della domanda mia.
 
 
        – Del van Cupido saette amorose
        giammai sentii; ed egli mi dispiace
   15 e suoi costumi e sue caduche cose.
 
 
        Dall'alto regno, che a Vulcan soggiace,
        son io venuta all'ombra a mio diletto,
        ché starsi al fresco alle sue ninfe piace.
 
 
        Se vuoi saper come il mio nome è detto,
   20 Taura son chiamata e qui dimoro
        a questo orezzo e nullo amante aspetto.
 
 
        E spesso l'altre ninfe del mio coro
        vengono qui e vanno quinci a spasso
        con vestimenti e con corone d'oro.
 
 
   25 Ma tu chi se' e dove movi il passo? —
        Ed io risposi: – L'amor m'ha condutto
        per questo loco faticoso e lasso.
 
 
        Chi sono e donde vengo a dirti il tutto
        sarebbe lungo: io gusto ora l'amaro,
   30 sperando di fatica dolce frutto.
 
 
        Se la dea assente, io prego, fammi chiaro:
        o ninfa bella, volentier domando,
        perché io so poco e domandando imparo.
 
 
        Però, mentr'io sto teco dimorando,
   35 dimmi del regno, che Vulcan nutríca
        sotto il suo freno e sotto il suo comando.
 
 
        Il tuo dolce parlare anche mi dica
        del loco ov'egli sta, s'egli ti done
        che piú dell'altre ninfe a lui sie amica.
 
 
   4 °Cupido giá del regno di Iunone
        assai mi disse con suo parlar breve,
        e della grandin disse la cagione
 
 
        e delle nubi e pioggia e della neve
        e delli tuoni, e disse del baleno,
   45 ch'anco a' giganti è timoroso e greve.
 
 
        Ma non mi disse ben espresso e appieno
        come si fa la sube e la cometa
        e la stella che corre e poi vien meno. —
 
 
        Allor la ninfa con la vista lieta
   50 rispose: – In pria conven che le parole,
        le qua' disse Cupido, io ti ripeta.
 
 
        Ciò, che non scalda il foco ovvero il sole,
        conven che da sé venga in gran freddezza,
        come natura e filosòfia vuole.
 
 
   55 Però nell'aer sopra a tanta altezza,
        dove non scalda il raggio che 'nsú riede,
        e ove il foco non scalda a piú bassezza,
 
 
        sta 'l regno freddo che Iunon possede:
        li duo vapori, acquatico e terrestro,
   60 lí si fan nube, sí come si vede.
 
 
        E 'l vapor terreo e secco è da sé presto
        ad accendersi ratto, purché senta
        l'umido intorno, a sé opposto e molesto.
 
 
        Sí come la calcina, che diventa
   65 focosa all'acqua e fuor manda il calore,
        che prima parea fredda e quasi spenta;
 
 
        cosí levato 'nsú il doppio vapore,
        l'acquatico si stringe e quindi piove,
        perché quivi è compresso dal freddore.
 
 
   70 Il terreo allor si aduna e si commove
        dentro alla nube, e quel moto l'accende:
        è la fiamma rinchiusa in stretto, dove
 
 
        con grave tuon la densa nube fende,
        e spesse volte la saetta scaccia
   75 col balenar, che subito risplende;
 
 
        il balenar vien subito alla faccia;
        ché presto l'occhio può veder la luce,
        se opaco o grande spazio non l'impaccia.
 
 
        Ma 'l tuon, che seco il balenar produce,
   80 l'orecchia dalla lunga nol può udire,
        se l'aer seco a lui non lo conduce.
 
 
        E ben che 'l foco sia atto a salire,
        niente meno ingiú la nube spande,
        che 'l freddo denso insú non lassa ire.
 
 
   85 Or, se saper tu vuoi quel che domande,
        dirò pria della stella, che nel cielo
        permuta loco e par correndo ell'ande.
 
 
        Se 'l vapor terreo passa l'aer gielo,
        sottile e secco è ad ardere disposto
   90 piú che la stoppa a lume di candelo.
 
 
        Quand'egli vien lassú, dove sta posto
        il regno di Vulcan, l'accende il foco
        nel primo capo, e la fiamma tantosto
 
 
        per lui trascorre e non a poco a poco,
   95 ma ratto e presto; e la fiamma corrente
        pare una stella che tramuti loco.
 
 
        E fa un fregio sú chiaro e lucente
        per la via che trascorre, ed in un tratto
        poscia vien meno e non appar niente.
 
 
  100 E se 'l vapor è di materia fatto
        che sia grossa e viscosa e sulfuresca,
        non atta a consumarsi molto ratto,
 
 
        quando ha passata la contrada fresca,
        va su infin che l'aer caldo trova,
  105 e lá s'accende come a fiamma l'ésca.
 
 
        E pare un trave acceso che si mova:
        questo è la sube, e spesso ha la figura
        o di colonna o di altra cosa nova.
 
 
        E se 'l vapor, che 'l sol lieva in altura,
  110 è grosso e secco e molto denso e spesso
        e di materia a consumarsi dura,
 
 
        quando egli giunge sú al foco appresso,
        s'accende quella parte che 'n pria monta,
        e quella fiamma scende giú per esso
 
 
  115 in quella parte che non è ancor gionta,
        ma sta giú verso l'aere distesa
        lunga e nelle sue parti ben congionta.
 
 
        Allor la parte ch'è nel foco accesa,
        pare una stella, e l'altra la sua chioma,
  120 cioè la parte nell'aer distesa.
 
 
        E però questa «cometa» si noma,
        quasi «comata», e chi ben questo mira,
        dato fu a lei il suo proprio idioma.
 
 
        Se saper vuoi perché il sol non tira
  125 piú 'nsú 'l detto vapor, poiché è focoso,
        ma secondando il primo moto gira,
 
 
        sappi che ogni cosa ha 'l suo riposo
        nel proprio loco, come hai giá udito,
        e, se si parte quindi, va a ritroso.
 
 
  130 E però quel vapor, quando è ignito,
        sta dentro fermo presso a quella spera,
la quale è d'ogni lieve il proprio sito.
 
 
        E sappi ancor che tanto la lumiera
        dura della cometa e tanto è vista,
  135 quanto dura il vapor e sua matèra;
 
 
        ché mai la fiamma può veder la vista
        o la luce del foco per se sola,
        s'ella non è con altro corpo mista. —
 
 
        Tacette poscia dopo esta parola;
  140 ond'io a lei risposi: – Ammiro alquanto
        come s'accende il vapor che 'nsú vola.
 
 
        Ed anco ammiro come può esser tanto,
        che se ne faccia vento e pioggia ancora
        e l'altre cose dette nel tuo canto. —
 
 
  145 Sub brevitá questo rispose allora:
        – Pensa del cibo dentro al corpo umano,
        quando è indigesto e quando egli evapóra:
 
 
        il qual, quando è cacciato fuor dell'ano,
        s'infiammeria come trita vernice,
  150 se si scontrasse in acceso vulcano.
 
 
        Cosí il vapor, che sú 'l mio canto dice,
        s'infiamma giunto nell'aere acceso
        e d'ogni impressione è la radice. —
 
 
        Cupido, quando a questo io stava atteso,
  155 venía per l'aere quasi uccel veloce
        colle saette in mano e l'arco teso.
 
 
        – O Taura – chiamò ad alta voce, —
        tu proverai che piú 'l mio foco infiamma
        che quel del tuo Vulcano, e che piú coce.
 
 
  160 Ei l'ha provato, e sallo la mia mamma. —
        Cosí dicendo, un colpo tal gli porse
        col dardo acceso di sacrata fiamma,
 
 
        che trapassolla e insino a me trascorse;
        e tanto m'infiammò quella saetta,
  165 ch'io grida' aiuto, e l'Amor non soccorse.
 
 
        Taura bella, di dolor costretta,
        gridò al ciel: – Vulcano, ora m'aita,
        e del crudele Amor fammi vendetta. —
 
 
E, detto questo, cadé tramortita.
 

CAPITOLO XIV

Come Cupido fece battaglia con Vulcano e come a prego di Venere Giove discese dal cielo e pose pace fra loro.

 
        Parve che quella voce andasse al cielo,
        ché venne con un tuon un gran baleno
        a lei sopra la faccia e 'l petto anelo.
 
 
        E nel dir «miserere» ed anche in meno
    5 l'aere si turbò e féssi fosco,
        il quale pria era chiaro e sereno.
 
 
        E ben mille ciclopi fuor d'un bosco
        io vidi uscir e fuor delli gran monti,
        alti, che tanto abeti io non conosco.
 
 
   10 Questi hanno sol un occhio in le lor fronti,
        fabbri di Iove e duri nelle braccia,
        crudel, nelle battaglie arditi e pronti.
 
 
        Poi tra le nubi con irata faccia
        e con tempesta apparve il gran Vulcano
   15 co' tuon, co' quali a' giganti minaccia.
 
 
        E tre saette avea nella sua mano;
        cosí discese giú con sí gran grido,
        ch'egli facea tremar tutto quel piano.
 
 
        – Dov'è – dicea, – dov'è 'l crudel Cupido?
   20 Dove se' ito, traditor bugiardo?
        Vieni, ché alla battaglia io ti disfido.
 
 
        Ahi, gran prodezze mostrarsi gagliardo
        contra una ninfa, a cu' il petto hai ferito
        sí crudelmente col tuo crudo dardo!
 
 
   25 Ma, se tu se' sí grande e sí ardito,
        perché non vieni, o nato d'adultèro,
        in campo alla battaglia, ov'io t'invito? —
 
 
        Cupido, in questo, superbo ed altèro
        vidi venir volando, e mai uccello
   30 corse alla preda sí ratto e leggero.
 
 
        Ed a Vulcan: – Ritorna a Mongibello,
        sciancato, storto e dal ciel messo in bando:
        ritorna alla fucina ed al martello.
 
 
        Il dardo orato mio, il qual io mando,
   35 tu proverai; e, se ti giunge addosso,
        tu griderai a me: – Mercé domando. —
 
 
        Poi scoccò 'l dardo, ed arebbel percosso,
        se non ch'e' si gittò alla supina:
        per questo il colpo andò da lui rimosso.
 
 
   40 Su ratto si levò e con ruina
        il folgore gittò, il qual la spada
        corrode e nulla fa alla vagina,
 
 
        ch'ello è fiamma sottile e fa che vada
        dentro alli pori e ciò che non ha poro,
   45 cosí disfá, come il sol la rugiada.
 
 
        Questo di piombo le saette e d'oro
        fuse nella faretra, e smunse e róse
        ciò che v'avea di metallin lavoro.
 
 
        Quando Cupido le polse penose
   50 volle trar fuor per trarre un'altra volta,
        nulla trovò, mentre sú la man pose.
 
 
        Onde ei, scornato e con furia molta:
        – Io ho l'altr'arme – disse – e 'l foco sacro:
        quest'arme a me da te mai non fia tolta. —
 
 
   55 Cosí dicendo, furibondo ed acro
        corse in Vulcano e sí gl'incese il mento,
        che 'l volto d'ogni barba li fe' macro.
 
 
        E, di questa vendetta non contento,
        col foco s'avventò nelli ciclopi;
   60 e, poi che 'l capo incese a piú di cento:
 
 
        – Tornate alle caverne come topi
        – diceva a lor, – tornate, o turba inerte,
        o falsi e vili e neri quanto etiòpi. —
 
 
        Vulcano, in questo, sú a braccia aperte,
   65 fuggendo, salse al regno di Iunone,
        ove il vapore in saette converte.
 
 
        Ma dietro a lui, leggier come un falcone,
        andò Cupido, e mai corse sí ratto
        dall'arco suo scoccato verrettone.
 
 
   70 E disse a lui: – Vulcan, non verrá fatto
        l'avviso tuo: farò che le saette
        far non potrai per me a questo tratto. —
 
 
        Cosí dicendo, tutte nubi umette
        'sciuccòe col foco e tanto consumolle,
   75 che 'ntorno al caldo l'umido non stette;
 
 
        ché, quando è consumato l'umor molle,
        accendersi non può 'l secco vapore,
        sí che Vulcan non fece quel ch'e' volle.
 
 
        Per questo cominciò con gran rumore
   80 a gridar forte, chiamando difese
        contra Cupido, stimol dell'amore.
 
 
        Allora Venus sue braccia distese
        al cielo e disse con parol divote
        al sommo Iove, tanto ch'e' la 'ntese:
 
 
   85 – Guarda il vecchio marito, che non puote
        piú difensarsi contro il mio figliuolo:
        vedi ch'e' l'ha percosso e che 'l percote.
 
 
        Tu sai che, quando il giganteo stuolo
        volle pigliar il cielo e discacciarte,
   90 piú che null'altro t'aiutò ei solo.
 
 
        E fece le saette con sua arte:
        con quelle, o Iove, tu gettasti a terra
        li gran giganti con le membra sparte. —
 
 
        In men che alcun non apre gli occhi o serra,
   95 vidi Iove discender giú 'n quel loco,
        ove Cupido a Vulcan facea guerra.
 
 
        – Cessa – disse al fanciullo – il sacro foco;
        Amor, se pensi quanto l'hai feruto,
        tu dirai ch'egli è troppo, e non è poco.
 
 
  100 E s'egli avesse a te ferir voluto,
        come potea, nella tua persona,
        nullo al suo colpo aver potevi aiuto. —
 
 
        A questa voce del signor che tona,
        cessò il foco Cupido e reverente
  105 disse al padrigno: – O padre, a me perdona. —
 
 
        Nulla cosa a sdegnarsi è piú fervente
        che 'l buon Amore, e nulla cosa ancora
        si placa e torna piú leggeramente.
 
 
        Posta la pace, si partí allora
  110 colle sue ninfe Iove e suoi satelli,
        de' quali il regno suo in ciel s'onora.
 
 
        Ma pria la vita a Taura, ed i capelli
        rendé a Vulcano, che parea un menno,
        ed a Cupido i dardi orati e snelli.
 
 
  115 Poiché i duo guerreggianti pace fenno,
        Vulcan disse all'Amor: – Perché sí rio
        ver' me se' stato e con sí poco senno?
 
 
        Se non che, quando a te saetta' io,
        trassi come a figliuol, non a figliastro:
  120 tu non scampavi mai dal colpo mio.
 
 
        E provato averesti ch'io so' il mastro
        di saettar e che non si può opporre
        a me mai scudo, unguento ovver impiastro.
 
 
        Io son che getto a terra le gran torre
  125 e li gran monti, e che soccorsi a Iove,
        quando i giganti vòlsonli 'l ciel tôrre.
 
 
        Della saetta mia, quando si move,
        i grandi effetti e le varie ferite,
        nulla è filosofia che le ritrove. —
 
 
  130 Rise Cupido alle parole udite
        e fe' come fa alcun, che par ch'assenta
        a quel che non è ver, per non far lite.
 
 
        E, come aquila fa, quando s'avventa
        alla sua preda rapace e feroce,
  135 ch'ali non batte, perché non si senta;
 
 
        cosí ciascuno ingiú venne veloce
        alla dea Venus. Benigna l'accolse
        e poi a Vulcan proferse questa voce:
 
 
        – Assai, marito mio, il cor mi dolse,
  140 quando tu fulminasti il dolce figlio
        e che guastasti le su' orate polse.
 
 
        Ma piú mi dolse che la barba e 'l ciglio
        egli arse a te e che con tanta asprezza
        nell'aer su ti pose a tal periglio.
 
 
  145 Or della doglia io sento gran dolcezza,
        da che tra voi è la concordia posta,
        la qual prego che duri con fermezza. —
 
 
        Vulcan non fece a lei altra risposta
        se non che con l'Amor volea la pace;
  150 ché la sua sposa, che gli stava a costa,
 
 
        piú 'l riscaldò che 'l foco, ov'egli giace,
        e, se non pel figliastro, facea forse
        cosa ch'è turpe e con beltá si tace.
 
 
        Per questo si partí e su ricorse
  155 al regno suo; e Taura sua partita
        fece una seco, onde gran duol mi morse.
 
 
        Però a Cupido: – Amore, ora m'aita:
        tu sai che 'l colpo insino a me pervenne,
        allor che Taura fu da te ferita. —
 
 
  160 Egli ridendo mosse le sue penne,
        e fuggí via l'Amor senza leanza
        ed alla piaga mia non mi sovvenne.
 
 
        Venus a me: – Assai piú bella 'manza,
        – disse – nel regno mio ti doneraggio. —
  165 Però, al conforto di tanta speranza,
 
 
la seguitai per l'aspero viaggio.
 

CAPITOLO XV

Come l'autore trova una ninfa di Cerere, chiamata Panfia, la quale gli conta il reame di Eolo, dio delli venti.

 
 
        L'amor con la speranza è sí soave,
        che fa parer altrui dolce e leggera
        la cosa faticosa e da sé grave;
 
 
        ché sempre mai, quando l'animo spera
    5 aver il premio della sua fatica,
        piglia l'impresa con la lieta ciera.
 
 
        Questa tra spine e tra pungente ortica
        menava lieto me per duro calle:
        tanto quella promessa a me fu amica;
 
 
   10 quando vidi una ninfa in una valle,
        che cogliea fiori, e suoi biondi capelli
        di color d'oro avea sparsi alle spalle.
 
 
        – A quella che lí coglie i fiori belli
        – diss'io a Venus – volentieri irei,
   15 se piace a te che alquanto gli favelli. —
 
 
        La dea consentí ai desii miei;
        ond'io andai, e, quando gli fui appresso,
        queste parole dirizzai a lei:
 
 
        – O ninfa bella, mentre a me è concesso
   20 ch'io parli teco, prego, a me rispondi:
        chi se' e questo loco a chi è commesso? —
 
 
        Allor, rispersa de' capelli biondi,
        inver' di me alzò la lieta testa,
        e poi rispose con gli occhi giocondi:
 
 
   25 25 – Eolo regna qui 'n questa foresta,
        che regge i venti ed halli tutti quanti
        sotto il suo freno e sotto sua potèsta;
 
 
        ché, quando contra il ciel funno i giganti,
        seguîro il padre, e le colpe paterne
   30 spesso tornano a' figli in duri pianti.
 
 
        Però gl'inchiuse Dio tra le caverne,
        ed Eolo diede a lor, che gli apre e serra
        e che sotto suo impero li governe.
 
 
        Se ciò non fosse, l'aere e la terra
   35 subbissarieno ed in ogni contrada
        farian grande ruina e grande guerra.
 
 
        Panfia ho nome, e la dea della biada
        alla figlia Proserpina mi manda;
        e spesse volte vuol che a lei io vada.
 
 
   40 E coglio questi fior, ch'una grillanda
        gli vo' portar, ché delli fior che colse
        gli sovvien anco, e però me 'n domanda,
 
 
        quando Cupido con sue fiere polse
        ferí 'l disamorato infernal Pluto,
   45 allor ch'a Ceres la figliola tolse.
 
 
        Ma tu chi se' e come se' venuto
        cosí soletto in questa valle alpestra?
        Vai vagabondo o hai 'l cammin perduto? —
 
 
        Ed io a lei: – Venus è mia maestra;
   50 seco mi guida al loco, ov'ella regna,
        e per darmi conforto ella mi addestra.
 
 
        Ed ha concesso a me ch'io a te vegna;
        o ninfa bella, prego mi contenti;
        e quel che ti domando, ora m'insegna.
 
 
   55 Dimmi ove stanno e donde son li venti,
        ché, quando scendi all'infernal regina,
        io credo che li veghi e che li senti. —
 
 
        Ed ella a me: – Perché ratta e festina
        Ceres mi manda, per fretta non posso
   60 appien de' venti darti la dottrina.
 
 
        Ma sappi che la terra dentro al dosso
        ha gran caverne, meati e gran grotte,
        ove li venti stanno in vapor grosso.
 
 
        Tra quei meati e quelle rupi rotte
   65 diventa quel vapor sottile e raro,
        quando di sopra al dí cresce la notte;
 
 
        ché, quando un loco a sé prende un contraro,
        l'altro contraro prende un loco opposto,
        e quanto posson tengon loco varo.
 
 
   70 E però, quando è ito il fin d'agosto,
        e che 'l dí manca e fassi qui il verno,
        allor che il sole in bassi segni è posto,
 
 
        nelle caverne, ch'Eolo ha 'n governo,
        s'inchiude il caldo. E di ciò dán certezza
   75 l'acque che stanno nell'alvo materno,
 
 
        che hanno il verno alquanto di caldezza,
        come si vede e come appare al senso;
        la state hanno sotterra piú freddezza.
 
 
        Sí che 'l vapor, in prima grosso e denso,
   80 convien che s'assuttigli e sparso cresca
        il verno, riscaldato ovvero accenso.
 
 
        Però dall'arto loco cerca ond'esca:
        cosí per le fissure e pori esala,
        e 'l sole il tira insino all'aura fresca.
 
 
   85 Lí ripercosso, poscia all'ingiú cala
        e fassi vento, e, dove luna il tira
        ovver Saturno, quivi move l'ala.
 
 
        Il vapor che rimane e che si aggira
        nel ventre della terra, perché appieno
   90 non può uscir del loco, ond'egli spira,
 
 
        ritorna addietro in fondo giú nel seno
        dell'alma terra; e però innanzi alquanto
        che sia il tremoto, ogni vento vien meno.
 
 
        E poi ritorna e con impeto tanto,
   95 venendo insieme, la terra percote,
        che la fa almen tremare in alcun canto.
 
 
        Questo è 'l tremoto, e voglio ch'ancor note
        che 'l vapor caldo inchiuso ha tal valore,
        che nulla cosa ritener il puote.
 
 
  100 Se fusse un monte qual tu vuoi maggiore,
        tutto d'acciaio dentro alla montagna,
        per mille parti ne uscirebbe fore.
 
 
        Cosí il vapor inchiuso in la castagna
        o in altra cosa, quando è riscaldato,
  105 convien che n'esca e quel che 'l tiene infragna.
 
 
        Io ho veduto giá ch'egli ha levato
        del loco un monte e fatta un'apertura
        sopra la terra con sí grande iato,
 
 
        che 'l re d'inferno avuta ha gran paura
  110 che non discenda insin laggiú il raggio
        e non illustri la sua patria oscura.
 
 
        E dico a te che anco veduto aggio
        Eolo re temere alcuna volta,
        quand'apre i monti e dá a' venti il viaggio.
 
 
  115 Egli escono con furia ed ira molta,
        quasi lioni o Cerbero feroce,
        quando si vide la catena sciolta.
 
 
        E discorrendo van per ogni foce;
        e, se si scontran due venti inimici,
  120 il turbo fanno, il qual cotanto nòce.
 
 
        Quest'è che gitta a terra li edifici
        con gran ruina e percuote li tetti,
        e svelle gli arbor dalle lor radici. —
 
 
        E giá poneva fine alli suoi detti,
  125 se non ch'io dissi: – Deh! di' se la luce
        del sol fa nell'inferno alcuni effetti. —
 
 
        Allor rispose: – Il sol, ch'è primo duce
        di ciò che nasce, pietre preziose,
        oro ed argento di laggiú produce.
 
 
  130 Ver è che Pluto tutte queste cose
        dona alla sposa sua, la quale è figlia
        di quella che l'andata a me impose.
 
 
        Io dirò a te una gran maraviglia:
        che d'oro mi mostrò un sí gran monte,
  135 che'ntorno gira piú di diece miglia. —
 
 
        E disse: – Io prego, quando lassú monte,
        che tu nol dichi agli uomini del mondo
        e d'esta mia ricchezza non racconte;
 
 
        ché son sí avari, che 'nsin quaggiú al fondo
  140 ei cavarieno a rubbar il tesoro,
        il qual m'è dato in sorte e qui nascondo;
 
 
        e son sí ghiotti e cupidi dell'oro,
        che giá han cavato ingiú trecento braccia:
        che non vengan quaggiú temo di loro. —
 
 
  145 E, detto questo, con la lieta faccia,
        ridendo, inchinò alquanto e disse: – Addio; —
        e poi n'andò come chi fretta avaccia.
 
 
        Alla mia scorta allora torna' io;
        e seguitaila insin all'oceáno
  150 per un viaggio molto aspero e rio.
 
 
        Nettuno a noi col suo tridente in mano
        venne risperso di marine schiume,
        sí che sua barba e 'l capo parea cano.
 
 
        Con lui vennon le ninfe d'ogni fiume,
  155 delle quali al presente non ne narro,
        ché 'n altra parte il contará il volume.
 
 
        Nettuno poi ne pose sul suo carro
        e solcòe 'l mar; e li mostri marini
        facean, mirando noi, al plaustro sbarro.
 
 
  160 Triton sonava, e li lieti delfini
        givan saltando sopra l'onde chiare,
        che soglion di fortuna esser divini.
 
 
        Poiché mostrato m'ebbe tutto il mare
        e che dell'acque la cagion mi disse,
  165 perché sotto son dolci e sopra amare,
 
 
        in terra ne posò e lí s'affisse,
        e fe' ballar per festa le sue dame:
        e poi dicendo: – Addio, – da noi partisse.
 
 
Allor Venus andò al suo reame.