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Tramutata

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From the series: Appunti di un Vampiro #1
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Capitolo Tredici

Caitlin e Caleb si trovavano sulla grande terrazza aperta fuori dal Monastero e guardavano la notte. In lontananza si vedeva il fiume Hudson, che si insinuava tra gli alberi spogli di marzo. A ben guardare si scorgevano anche le piccole luci delle auto che attraversavano il ponte. La notte era completamente silenziosa.

“Ho bisogno che tu risponda a qualche domanda, Caleb,” disse lei sottovoce, dopo diversi secondi di silenzio.

“Lo so,” le rispose Caleb.

“Cosa ci faccio qui? Chi pensi che io sia?” chiese Caitlin. Le ci volle qualche secondo in più per raccogliere il coraggio per porre l’ultima domanda, “E perché mi hai salvata?”

Caleb fissò l’orizzonte per parecchi secondi. Caitlin non riuscì a capire cosa stesse pensando, o se mai avrebbe risposto.

Alla fine si voltò verso di lei. La guardò dritto negli occhi, e il potere del suo sguardo la paralizzò. Anche se avesse voluto, non sarebbe mai riuscita a guardare da un’altra parte.

“Io sono un vampiro,” disse con tono inespressivo. “Appartengo al Covo Bianco. Ho più di tremila anni e sono in questo covo da ottocento.”

“Perché sono qui?”

“I covi e le razze di vampiri sono sempre in guerra. Siamo molto territoriali. Sfortunatamente tu ci sei carambolata proprio in mezzo.”

“Cosa intendi dire?” chiese. “In che modo?”

Lui la guardò confuso. “Non ricordi?”

Lei lo fissò perplessa.

“L’uccisione. È quella che ha messo tutto in moto.”

“Uccisione?”

Lui scosse la testa lentamente. “Quindi non ricordi. Tipico. Le prime uccisioni sono sempre così.” La guardò dritta negli occhi. “Hai ucciso la scorsa notte. Un uomo. Ti sei nutrita di lui. A Carnegie Hall.”

Caitlin era frastornata. Non poteva credere di poter anche solo nuocere a chiunque, eppure in qualche modo, nel profondo, percepiva che era vero. Aveva paura di chiedere chi avesse ucciso. Poteva trattarsi di Jonah?”

Come se le leggesse nel pensiero, Caleb aggiunse: “Il cantante.”

Caitlin riusciva a stento a capire. Era una situazione così surreale. Si sentiva come se l’avessero appena marchiata con un segno indelebile. Stava malissimo. Incapace di controllarsi.

“Perché l’ho fatto?” chiese

“Hai bisogno di mangiare,” rispose lui. “Perché tu l’abbia fatto lì e in quel momento, questo nessuno lo so. Questo ha dato inizio alla guerra. Eri nel territorio di un altro covo. Un covo molto potente.”

“Quindi mi sono trovata nel posto sbagliato nel momento sbagliato?”

Caleb sospirò. “Non lo so. Potrebbe esserci molto di più.”

Caitlin lo guardò. “In che senso?”

“Forse dovevi essere lì. Forse era il tuo destino.”

Lei pensò. E pensò a fondo, timorosa di porre la domanda successiva. Alla fine raccolse tutto il suo coraggio e disse: “Quindi ciò significa che… sono un vampiro?”

Lui distolse lo sguardo. Dopo parecchi secondi, finalmente rispose: “Non lo so.”

Si voltò a guardarla.

“Non sei un vero vampiro. Ma non sei neanche un vero umano. Sei a qualche punto nel mezzo.”

“Una mezzosangue?” chiese.

“Questo è come lo chiamano loro. Io non ne sono sicuro.”

“Di cosa si tratta esattamente?”

“È un vampiro che è nato così. La nostra legge – la nostra dottrina – impedisce a un vampiro di unirsi con un umano. Però a volte capita che un vampiro ribelle lo faccia. Se l’umano mette alla luce un bambino, il risultato è un mezzosangue. Non totalmente umano, né totalmente vampiro. È considerato con severità nella nostra razza. La punizione per unirsi con un umano è la morte. Non ci sono eccezioni. E il bambino è considerato un reietto.”

“Ma pensavo di averti sentito dire che il vostro Messia sarà un mezzosangue? Come possono guardare un mezzosangue dall’alto in basso se proprio un mezzosangue sarà il loro salvatore?”

“Questi sono i paradossi della nostra religione,” rispose.

“Dimmi di più,” lo incitò lei. “In cosa precisamente è diverso un mezzosangue?”

“I veri vampiri si nutrono dal momento in cui vengono tramutati. I mezzosangue non iniziano a farlo fino a che non raggiungono l’età.”

Caitlin aveva paura di porre la domanda successiva.

“E quand’è?”

“18 anni.”

Caitlin si fermò a riflettere. Tutto iniziava ad avere senso. Aveva appena compiuto diciotto anni. E le sue fitte di fame erano appena cominciate.

“I mezzosangue poi sono mortali,” continuò Caleb. “Possono morire, come i normali esseri umani. Noi invece non possiamo. Per diventare un vero vampiro, uno dovrebbe essere tramutato da un vero vampiro, uno che abbia il reale intento di nutrirsi. I vampiri non hanno il permesso di tramutare chiunque vogliano, ciò allargherebbe troppo la nostra razza. Devono ricevere il permesso dal Concilio Superiore.”

Caitlin aggrottò la fronte nel tentativo di capire tutto per bene

“Tu hai alcune delle nostre qualità, ma non tutte. E dato che non sei una purosangue, sfortunatamente, la razza dei vampiri non ti accetterà. Ogni vampiro appartiene a un covo. È troppo pericoloso non farne parte. In condizioni normali potrei fare richiesta per la tua inclusione nei nostri ranghi. Ma dato che sei mista… non concederanno mai il permesso. Nessun covo lo farebbe.”

Caitlin pensò. Se c’era qualcosa di peggio che scoprire che non era un’umana, era scoprire che non era totalmente qualcosa. Scoprire che non poteva appartenere a nessun luogo. Lei non si collocava né da una parte né dall’altra, era bloccata a metà tra due mondi.

“E allora cos’era tutta quella storia del Messia? Quel parlare di me come…la Prescelta?”

“La nostra dottrina, la nostra antica legge, dice che un giorno giungerà un messaggero, un Messia, e ci condurrà alla spada perduta. Dice che un giorno inizierà la guerra, una guerra definitiva tra le razze dei vampiri, una guerra che si allargherà anche alla razza umana. Si tratta della nostra versione dell’Apocalisse. L’unica cosa che può fermarla e che può salvarci tutti è la spada perduta. E l’unica persona che può condurci ad essa è il Messia.

“Quando ho visto ciò che ti è successo stanotte, ho avuto la certezza che fossi tu. Non ho mai visto nessun altro vampiro immune all’acqua santa.”

Caitlin sollevò lo sguardo e lo fissò.

“E ora?” gli chiese.

Lui guardava l’orizzonte.

“Non ne sono sicuro.”

Caitlin lo guardò. Si sentì pervadere da un crescente senso di depressione.

“Quindi,” iniziò timorosa della risposta che avrebbe ricevuto, “è solo per questo che mi hai salvata? Perché pensavi che vi avrei portarti da una qualche spada perduta?”

Caleb la fissò, con un’evidente espressione di confusione stampata in volto.

“Che altra ragione ci dovrebbe essere?” le chiese.

Caitlin sentì che le mancava il fiato, come se fosse stata colpita da una mazza. Tutto l’amore che aveva provato per lui, il legame che pensava ci fosse tra loro, se ne stavano ora andando in un soffio. Aveva voglia di piangere. Avrebbe voluto girarsi e correre via, ma non sapeva dove andare. Provava vergogna.

“Bene,” disse, ricacciando indietro le lacrime, “almeno tua moglie sarà felice di sapere che stavi solo facendo il tuo lavoro. Che non provi niente per nessun altro. O per niente, se non per una stupida spada.”

Si girò e iniziò ad allontanarsi. Non sapeva dove stava andando, ma doveva andare via da lui. I suoi sentimenti era troppo intricati. Non sapeva come fare chiarezza tra essi.

Aveva percorso solo pochi metri quando sentì una mano sul braccio. Lui la fece girare su se stessa. Era lì davanti a lei e la guardava negli occhi.

“Non è mia moglie,” disse sottovoce. “Eravamo sposati una volta, ma è stato 700 anni fa. È durata solo un anno. Nella razza dei vampiri, sfortunatamente, le cose non si dimenticano facilmente. Non ci sono annullamenti.”

Caitlin si scrollò la mano di Caleb dal braccio. “Va bene, qualsiasi cosa sia, sarà contenta di riaverti per sé.”

Detto questo ricominciò a camminare, diretta verso i gradini.

Lui la fermò di nuovo, questa volta sorpassandola e piazzandosi davanti a lei per bloccarle la strada.

“Non so in che modo ti ho offeso,” disse, “ma qualsiasi cosa abbia fatto, ti chiedo scusa.”

È quello che non hai fatto, avrebbe voluto dirgli Caitlin. È che non ti interessavo veramente, è che non mi vuoi bene suo serio. Che sono stata solo un oggetto, un mezzo da utilizzare per uno scopo. Proprio come ogni ragazzo abbia conosciuto in vita mia. Avevo pensato che questa volta, forse, sarebbe stato diverso.

Ma non disse tutto questo. Invece abbassò la testa e fece del suo meglio per trattenere il pianto. Non ci riuscì. Sentì le lacrime calde che le scorrevano lungo le guance. Lui le mise una mano sotto il mento e le sollevò il capo, costringendola a guardarlo.

“Scusa,” le disse, con voce che esprimeva sincerità. “Hai ragione. Non è questo l’unico motivo per cui ti ho salvata.” Fece un respiro profondo e continuò: “È che provo qualcosa per te.”

Caitlin sentì che il cuore le saltava nel petto.

“Ma devi capire che è proibito. Le leggi sono molto rigide su questo. Un vampiro non può mai, mai, stare con un umano, o con un mezzosangue, o con chiunque non sia un vero vampiro. La punizione sarebbe la morte. Non c’è via di scampo.”

Caleb abbassò lo sguardo.

“Quindi, capisci,” concluse, “se dovessi provare qualcosa per te, se volessi agire per motivi diversi dal bene comune, ciò significherebbe per me la morte.”

“E allora che ne sarà di me?” chiese lei. Si guardò attorno. “È chiaro che non sono la benvenuta qui. Dove dovrei andare?”

 

Caleb abbassò lo sguardo scuotendo la testa.

“Non posso andare a casa,” aggiunse Caitlin. “Non ho più una casa. La polizia mi sta cercando. E anche quei vampiri malvagi. Cosa devo fare? Uscire là fuori da sola? Non so neanche più cosa sono?”

“Vorrei tanto avere la risposta. Ci ho provato. Veramente. Ma non c’è nient’altro che io possa fare. Nessuno può opporsi al Concilio. Verremmo entrambi condannati a morte. Io sono ora recluso per i prossimi cinquant’anni. Non posso andarmene da qui. Se lo facessi verrei esiliato per sempre dal clan. Cerca di capire.”

Caitlin si voltò per andarsene, ma lui la trattenne un’altra volta.

“Devi capire! Tu sei basilarmente un essere umano. La tua vita sarà finite tra 80 anni. Ma per me si tratta di migliaia di anni. La tua sofferenza è breve. La mia è senza fine. Non posso vivere da esiliato per l’eternità. Il mio covo è tutto ciò che ho. Ti voglio bene. Provo qualcosa per te. Qualcosa che io stesso faccio fatica a comprendere. Qualcosa che non ho mai provato per nessuno in 3000 anni. Ma non posso arrischiarmi a lasciare queste mura.”

“Allora,” disse Caitlin, “te lo chiedo di nuovo. Cosa ne sarà di me?”

Caleb guardava in basso, in silenzio.

“Capisco,” rispose Caitlin. “Non sono più un tuo problema.”

Caleb aprì la bocca per parlare, ma questa volta se n’era andata. Andata sul serio.

Caitlin attraversò velocemente la terrazza e scese i gradini di pietra. Se ne andò veramente, diretta verso il Bronx in quella buia notte newyorkese. Non si era mai sentita più sola.

Capitolo Quattordici

Kyle camminava lungo il corridoio di pietra, affiancato da un piccolo gruppo di vampiri. Percorrevano rapidamente il corridoio e i loro passi risuonavano; uno dei suoi assistenti reggeva una torcia che illuminava loro il percorso.

Si stavano dirigendo verso il Salone delle Autorità, una camera sotterranea alla quale nessun vampiro mai accedeva, a meno che non ottenesse il permesso di farlo. Kyle non era mai stato così in profondità. Ma quel giorno era stato convocato dal capo supremo in persona. Doveva trattarsi di una cosa seria. In 4000 anni Kyle non era mai stato convocato. Ma aveva sentito di altri a cui era successo. Erano scesi laggiù e non erano più ritornati in superficie.

Kyle deglutì a fatica e allungò il passo. Era sempre stato dell’idea che fosse meglio affrontare rapidamente le brutte notizie, e farla finita il prima possibile.

Giunsero ad una grande porta aperta, sorvegliata da diversi vampiri che li guardavano con freddezza. Alla fine i guardiani si fecero da parte e aprirono completamente la porta. Ma dopo che Kyle fu passato tirarono fuori i loro bastoni e impedirono al seguito di entrare. Kyle sentì che la porta veniva sbattuta alle sue spalle.

Kyle vide dozzine di vampiri in riga, sull’attenti, disposti lungo la parete tranquillamente in piedi su entrambi i lati della stanza. Di fronte a lui nel mezzo della stanza, su un’enorme sedia di metallo, sedeva Rexus, il suo capo supremo.

Kyle fece diversi passi avanti e chinò il capo, aspettando di essere chiamato.

Rexus lo guardò con i suoi occhi blu, freddi e severi.

“Dimmi tutto quello che sai su questa umana, o mezzosangue, o qualunque cosa sia,” iniziò. “E anche della spia. Come ha fatto ad infiltrarsi nei nostri ranghi?”

Kyle fece un profondo respiro e iniziò.

“Non sappiamo molto della ragazza,” disse. “Non abbiamo idea del perché l’acqua santa non le abbia fatto nulla. Ma sappiamo per certo che è stata lei ad attaccare il cantante. Ora lo abbiamo in custodia, e appena si riprenderà ci aspettiamo che ci conduca da lei. È stata lei a tramutarlo. Lui ha nel sangue il suo odore.”

“A quale covo appartiene?” chiese Rexus.

Kyle rimescolò i pensieri nell’oscurità, cercando di scegliere le parole migliori.

“Pensiamo sia semplicemente un vampiro ribelle.”

“Pensate!? Non ne siete certi?”

Kyle si senti avvampare per il rimprovero.

“Quindi l’hai portata qui senza sapere nulla di lei,” disse Rexus. “Hai messo in pericolo il nostro covo.”

“L’ho portata qui per interrogarla. Non avevo idea che fosse immune…”

“E cosa mi dici della spia?” chiese Rexus interrompendolo.

Kyle deglutì.

“Caleb. Lo abbiamo portato qui 200 anni fa. Ha dimostrato molte volte di essere leale. Non abbiamo mai avuto alcuna ragione per sospettare di lui.”

“Da chi era stato ingaggiato?” chiese Rexus.

Kyle fece una pausa. Deglutì a fatica.

“Da me.”

“Quindi,” disse Rexus, “anche in questo caso hai permesso che una minaccia si infiltrasse tra noi.”

Rexus gli lanciò un’occhiataccia. Non si trattava di una domanda. Era un’affermazione. Ed era piena di accusa.

“Mi dispiace, signore,” disse Kyle, reclinando il capo. “Ma in mia difesa posso affermare che nessuno qui, nessun vampiro ha mai sospettato di Caleb. In molte occasioni…”

Rexus sollevò una mano.

Kyle si fermò.

“Mi hai costretto a dare inizio a una guerra. Ora sarà necessario riorganizzare tutte le nostre risorse. Il nostro piano maestro dovrà essere accantonato.”

“Mi spiace, signore. Farò tutto ciò che posso per trovarli e fargliela pagare.”

“Temo sia troppo tardi per questo.”

Kyle deglutì, preparandosi a ciò che sarebbe potuto accadere. Se si trattava della morte, era pronto.

“Non è più a me che devi rispondere. Io stesso sono stato convocato. Dal Concilio Supremo.”

Kyle sgranò gli occhi. Per tutta la vita aveva sentito chiacchiere sul Concilio Supremo, l’organo di governo dei vampiri, al quale anche il capo supremo doveva rispondere. E ora sapeva che esisteva davvero, e che l’avrebbero convocato. Deglutì.

“Sono molto insoddisfatti per ciò che è accaduto qui oggi. Vogliono delle risposte. Spiegherai il tuo errore, racconterai perché è scappata, perché una spia si è infiltrata nei nostri ranghi e dirai dei nostri piani per eliminare ulteriori spie. Poi accetterai la loro sentenza di giudizio.”

Kyle annuì lentamente, terrorizzato da quello che sarebbe accaduto. Non sembrava ci fosse nulla di buono.

“Ci incontreremo alla prossima luna. Questo ti dà del tempo. Nel mentre ti suggerisco di trovare quella mezzosangue. Se ci riuscirai, potresti avere salva la vita.”

“Ve lo prometto, signore. Convocherò ognuno dei nostri vampiri. E condurrò io stesso la caccia. La troveremo. E gliela farò pagare.”

Capitolo Quindici

Jonah era seduto nella stazione di polizia ed era parecchio spaventato. Di fianco a lui sedeva suo padre, più nervoso di quanto l’avesse mai visto; dall’altro lato si trovava l’avvocato che avevano appena assunto. Di fronte a loro, nella piccola e ben illuminata stanza per gli interrogatori, stavano cinque poliziotti. Dietro a questi ve ne erano altri cinque, in piedi, tutti agitati e in movimento.

Si trattava della notizia più scottante della giornata. Non solo un cantante di fama mondiale era stato assassinato, proprio durante il suo spettacolo, proprio a Carnegie Hall; non solo era stato uccio in modo sospetto, ma le cose erano anche riuscite a peggiorare. Quando la polizia aveva seguito l’unico indizio che aveva, andando a visitare l’appartamento della sospetta assassina, quattro poliziotti erano rimasti uccisi. Dire che la situazione era precipitata era un eufemismo.

Ora non solo stavano ricercando il “Macellaio di Beethoven” (o “L’assassino di Carnegie Hall”, come alcuni giornali la chiamavano), ma stavano anche seguendo un assassino di poliziotti. L’assassino di quattro poliziotti. Ogni forza dell’ordine in città era coinvolta nel caso e nessuno avrebbe avuto pace fino a che non fosse stato risolto.

E l’unico indizio che avevano era ora seduto di fronte a loro a quel tavolo. Il suo accompagnatore quella sera.

Jonah sedeva con gli occhi sgranati, sentendo le gocce di sudore che gli affioravano nuovamente sulla fronte. Era in quella stanza da sette ore. Durante le prime tre ore si era continuamente asciugato il sudore dalla fronte. Ora lasciava semplicemente che gli scivolasse lungo il volto. Era accasciato sulla sua sedia, stremato.

Non sapeva cos’altro dire. Un poliziotto dopo l’altro era entrato nella stanza, e tutti gli avevano posto le stesse domande. Tutte varianti sullo stesso tema. E lui non aveva risposte. Non capiva perché continuassero a chiedergli ripetutamente e con insistenza le stesse cose. Da quanto la conosci? Perché l’hai portata a quello spettacolo? Perché se n’è andata durante l’intervallo? Perché non l’hai seguita?

Come era potuto succedere? Lei era apparsa nella sua vita ed era così bella. E così dolce. Lui adorava stare con lei. Adorava parlare insieme a lei. Era stato certo che si sarebbe rivelato un appuntamento da favola.

Poi lei aveva iniziato a comportarsi in modo strano. Poco dopo l’inizio della musica aveva percepito una certa irrequietezza crescere in lei. Gli era sembrata… malata non era la parola giusta. Gli era sembrata… ansiosa. Più che ansiosa: era come se stesse per esplodere fuori dalla propria stessa pelle. Come se avesse dovuto andare da qualche parte, e velocemente anche.

All’inizio aveva pensato che fosse semplicemente perché il concerto non le piaceva. Si era chiesto se non fosse stata una cattiva idea portarla lì. Poi si era domandato se per caso non gradisse la sua compagnia. Ma poi quella condizione era sembrata diventare più intensa, tanto che la sua pelle quasi irradiava calore. Allora aveva iniziato a chiedersi se magari avesse qualche genere di disturbo, o forse intossicazione da cibo.

Quando poi era effettivamente schizzata via dal suo posto, si era chiesto se volesse raggiungere il bagno. Era confuso, ma era rimasto pazientemente in attesa alla porta, dando per scontato che sarebbe tornata dopo l’intervallo. Ma dopo quindici minuti, dopo il suono dell’ultimo campanello, era tornato da solo al proprio posto, confuso.

Dopo un’altra quindicina di minuti si erano levate le luci in sala. Un uomo era salito sul palco e aveva annunciato che il concerto non sarebbe proseguito. Che i biglietti sarebbero stati rimborsati. Non aveva spiegato il motivo. Tutto il pubblico aveva mormorato, irritato ma anche confuso. Jonah frequentava concerti da una vita e non gli era mai capitato che uno venisse interrotto dopo l’intervallo. Il cantante aveva avuto un malore?

“Jonah?” lo chiamò bruscamente il detective.

Jonah sollevò lo sguardo verso di lei, sorpreso.

La detective lo osservava con sguardo truce. Si chiamava Grace. Era il poliziotto più duro che avesse mai incontrato. Ed era inarrestabile.

“Non hai sentito quello che ti ho appena chiesto?”

Jonah scosse la testa.

“Voglio che tu mi racconti da capo tutto quello che sai di lei,” disse. “Dimmi di nuovo come l’hai incontrata.”

“Ho già risposto a questa domanda un milione di volte,” rispose Jonah con frustrazione.

“Voglio sentire ancora.”

“L’ho incontrata in classe. Era nuova. Le ho ceduto la mia sedia.”

“E poi?”

“Abbiamo parlato un po’, ci siamo visti in mensa. Le ho chiesto di uscire. Lei ha accettato.”

“Tutto qui?” chiese la detective. “Non ci sono assolutamente altri particolari, nient’altro da aggiungere?”

Jonah combatteva dentro di sé per capire quanto raccontare loro. Ovviamente c’era dell’altro. C’era il fatto che quei bulli l’avevano picchiato. C’era il suo diario, trovato misteriosamente accanto a lui. I suoi sospetti che lei fosse stata lì. Che lei lo avesse aiutato. Che in qualche modo avesse addirittura dato il benservito a quei ragazzi. Del come, non aveva la più pallida idea.

Ma cosa doveva dire a quei poliziotti? Che era stato preso a botte? Che pensava di ricordare di averla vista lì? Che pensava di averla vista mettere al tappeto quattro ragazzi che erano ciascuno il doppio di lei? Niente di tutto ciò aveva un senso, neppure per lui. Sicuramente non avrebbe avuto senso neanche per loro. Avrebbero semplicemente creduto che stava mentendo, inventando un sacco di frottole. La stavano cercando. E non sarebbe stato lui ad aiutarli.

Nonostante tutto si sentiva protettivo nei suoi confronti. Non capiva a fondo cosa fosse successo. Una parte di lui non ci credeva, non voleva crederci. Aveva veramente ucciso quel cantante? Perché? C’erano veramente due buchi nel suo collo come dicevano i giornali? Lo aveva morso? Era una specie di…

 

“Jonah,” disse bruscamente Grace. “Ho detto: c’è dell’altro?”

La detective lo stava fissando.

“No,” rispose lui alla fine. Sperò che lei non capisse che stava mentendo.

Un altro detective si fece avanti. Si chinò su di lui guardandolo fisso negli occhi. “Ha detto niente ieri sera che facesse pensare che fosse mentalmente instabile?”

Jonah aggrottò le sopracciglia.

“Intende dire pazza? E perché dovrei mai pensare una cosa del genere? È stata una buona compagnia. È intelligente, carina. Mi piace parlare con lei.”

“Di cosa avete parlato esattamente?” Era di nuovo quella donna.

“Di Beethoven,” rispose Jonah.

I detective si guardarono. Dall’espressione confuse e spiacevole stampata sui loro volti chiunque avrebbe potuto pensare che lui avesse risposto “pornografia”.

“Beethoven?” chiese uno dei poliziotti, un uomo nerboruto sui cinquant’anni, con tono canzonatorio.

Jonah era esausto e ebbe voglia di rispondere per le rime.

“È un compositore,” disse.

“So chi è Beethoven, teppistello,” disse bruscamente il poliziotto.

Un altro detective, pure lui di buona stazza e di circa sessant’anni, con grandi guance rosse, fece tre passi avanti, mise la sua mano tozza sul tavolo e si chinò verso Jonah, abbastanza vicino perché lui ne potesse sentire l’alito cattivo che sapeva di caffè. “Senti ragazzino, questo non è un gioco. Quattro poliziotti sono morti a causa della tua fidanzatina,” disse. “Ora, noi sappiamo che tu sai dove si nasconde,” disse. “Sarà meglio che inizi a dire qualcosa e…”

L’avvocato di Jonah sollevò una mano. “Questa è una supposizione, detective. Lei non può accusare il mio cliente di…”

“Non me ne frega niente del suo cliente!” gridò il detective in risposta.

Un denso silenzio calò nella stanza.

Improvvisamente la porta si aprì e un altro detective entrò. Indossava dei guanti di lattice.

In una mano teneva il telefono di Jonah e lo appoggiò sul tavolo, accanto a lui. Jonah fu felice di rivederlo.

“Niente?” chiese uno dei poliziotti.

L’uomo si sfilò i guanti e li gettò nel cestino. Scosse la testa.

“Niente. Il telefono del ragazzo è pulito. Ha ricevuto un po’ di messaggi da lei ieri, ma nient’altro. Abbiamo provato a chiamare il numero della ragazza. Non prende la linea. Stiamo estrapolando tutti i dati di quel numero ora. Ad ogni modo, il ragazzo dice la verità. Prima di ieri lei non l’aveva mai chiamato né gli aveva mandato dei messaggi.

“Ve l’avevo detto,” disse seccamente Jonah, rivolto ai poliziotti.

“Signori, abbiamo finito qui?” chiese l’avvocato di Jonah.

I poliziotti si voltarono e si guardarono.

“Il mio cliente non ha commesso alcun crimine e non ha fatto niente di sbagliato. Ha collaborato totalmente con questa indagine rispondendo a tutte le vostre domande. Non ha intenzione di abbandonare lo stato o la città. È disponibile per ulteriori interrogatori in qualsiasi momento. Chiedo che ora venga rilasciato. È uno studente, e la mattina deve andare a scuola.” L’avvocato guardò il proprio orologio. “È quasi l’una di notte, signori.”

Proprio in quel momento un forte trillo risuonò nella stanza, accompagnato da una vibrazione. Tutti gli occhi si voltarono all’istante verso il telefono di Jonah, che giaceva sul tavolo di metallo. Vibrò di nuovo e si accese. Prima di prenderlo Jonah già sapeva chi era. E lo sapevano anche tutti gli altri presenti.

Era un messaggio di Caitlin.

Voleva sapere dove lui si trovasse.