Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3

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CAPITOLO QUATTRO

10:20 p.m. Ora legale orientale

Fairfax County, Virginia

Sobborghi di Washington, DC

“Che ne pensi, piccolo?”

Luke Stone sussurrò la domanda. Probabilmente solo lui riuscì a sentirla.

Era seduto sul lungo divano bianco nel suo nuovo soggiorno, con Gunner, il figlio di quattro mesi, in grembo. Gunner era un bambino grande e pesante. Aveva indosso un pannolino e una maglietta blu su cui campeggiava la scritta World’s Best Baby, ‘Il bambino migliore del mondo’.

Si era addormentato tra le sue braccia da qualche tempo. Il suo pancino si alzava e si abbassava, e nel sonno russava piano. Era normale che un bambino russasse? Luke non lo sapeva, ma per qualche motivo trovava quel suono confortante. Di più, era persino piacevole.

L’agente speciale teneva in grembo il figlio nella penombra e si guardava attorno nella stanza, cercando di dare un senso alla casa.

Quel posto era un regalo di Audrey e Lance, i genitori di sua moglie Becca. Già quel fatto da solo difficile da mandar giù. Lui non si sarebbe mai potuto permettere quella casa con il suo stipendio da dipendente governativo, nonostante fosse di più di quello che aveva guadagnato quando era nell’esercito. Becca invece non lavorava affatto, ma anche se lo avesse fatto, neanche i loro due stipendi insieme sarebbero stati sufficienti per comprare un appartamento con quello. L’acquisto gli aveva dato una nuova prospettiva sulla ricchezza reale della famiglia della moglie.

Aveva saputo che fossero danarosi. Ma Luke era cresciuto senza soldi e non aveva idea di cosa fosse la vera ricchezza. Fino a poco prima lui e Becca avevano vissuto nel cottage della famiglia della moglie, sulla costa orientale di Chesapeake Bay, e quella casetta centenaria, pur essendo a un’ora e mezza di distanza dal suo lavoro, era stata una soluzione abitativa spettacolare. In precedenza Luke era stato abituato a dormire sulla dura terra, o a non dormire affatto.

Ma quel posto?

Si guardò intorno nella sala. Era una costruzione moderna, con grandi finestre alte fino al soffitto. Sembrava uscita da una rivista di architettura, una scatola di vetro. Quando fosse arrivato l’inverno e avesse nevicato, probabilmente sarebbe sembrata uno di quei globi di neve che si usavano quando era piccolo. Riusciva a immaginarsi come sarebbe stato passare lì il Natale, seduto in quel magnifico salotto, con l’albero in un angolo, il caminetto acceso e i fiocchi candidi che gli volteggiavano tutt’intorno.

E quello era solo il soggiorno. Poi c’era l’enorme cucina rustica dominata dall’isola e dal gigantesco frigo con freezer incorporato a due porte. E la camera da letto principale con il bagno, e poi tutto il resto del posto. Oltretutto era a una decina di minuti dal suo ufficio.

Da dove era seduto, sul divano, poteva vedere le grandi finestre aperte verso sud e a ovest. La casa si trovava sopra una piccola collinetta erbosa, e grazie all’altezza il panorama era spettacolare. Era in un quartiere tranquillo pieno di costruzioni altrettanto grandi, a una certa distanza dalla strada. Nella loro via non si poteva parcheggiare. Era il tipo di zona dove la gente lasciava l’auto nel proprio viale d’ingresso o nel garage.

Luke non aveva ancora incontrato i nuovi vicini, ma immaginava che fossero avvocati, magari dottori, o persone con incarichi aziendali di alto livello. Nutriva sentimenti contrastanti al riguardo. Ma non nei confronti dei vicini, bensì della casa.

Tanto per iniziare, non si fidava di Audrey e Lance.

Non era mai piaciuto ai genitori di Becca. I due lo avevano sempre messo in chiaro. Anche dopo la nascita di Gunner, erano stati riluttanti a lasciar usare il loro cottage alla figlia e al genero. Audrey in particolare era sempre stata una maestra nel commento maligno. Riusciva di continuo a metterlo in cattiva luce con la moglie.

Gli apparve un’immagine della donna nella mente: c’era qualcosa in lei che faceva pensare a un corvo. Aveva occhi infossati con iridi tanto scure da sembrare nere. Il suo naso era adunco, simile a un becco. Aveva un’ossatura sottile e un fisico snello, e la tendenza a incombere nei paraggi, come la foriera di cattive notizie.

Ma poi il Gruppo d’Intervento Speciale aveva portato a termine un paio di casi di spicco, e Audrey e Lance avevano incontrato il leggendario Don Morris, il fondatore delle operazioni speciali e direttore del GIS.

All’improvviso, avevano ritenuto che lui e Becca avessero bisogno di una casa migliore, più vicina al suo lavoro. E come niente fosse, eccoli lì.

Luke non riusciva ancora a credere alla velocità con cui si erano svolti gli eventi. In missione era sempre stato noto per la rapidità dei suoi riflessi e dei suoi tempi di reazione, ma l’acquisto di quella casa era stato sbrigato tanto in fretta da fargli girare la testa.

Due persone che per anni lo avevano detestato intensamente gli avevano fatto un regalo di proporzioni indescrivibili.

Si prese un momento per godersi il silenzio. Fece un profondo respiro, quasi con lo stesso ritmo del suo figlio neonato. No. Non era vero. Il vero dono era stato quel bambino. La casa non era niente in confronto a lui.

Sul tavolo davanti a lui gli si illuminò il cellulare. Lo guardò. Il chiarore bianco e bluastro lanciava ombre bizzarre nella penombra. Era silenzioso, gli aveva tolto la suoneria. Non aveva voluto disturbare il bambino, né Becca, che si stava godendo un meritato e necessario riposo in camera da letto.

Lanciò un’occhiata all’ora. Erano le dieci passate. Poteva significare diverse cose. Forse qualche ex compagno dell’esercito lo stava chiamando da sbronzo. Oppure qualcuno stava sbagliando numero, o magari… Lo lasciò squillare fino a quando non si spense e tornò buio.

Un momento dopo ricominciò.

Sospirò, studiando il numero. Ovviamente era il suo lavoro.

Prese il cellulare.

“Pronto?”

Dalla voce che usò si capiva che si stava riposando e avrebbe preferito non essere disturbato.

Gli rispose una voce femminile. Trudy Wellington. Se l’immaginò: giovane, bellissima, intelligente, con i suoi lunghi capelli castani sciolti sulle spalle.

“Luke?”

“Sì.”

Era seria, concentrata sul lavoro. Sembrava si stesse lasciando alle spalle quello che era quasi successo tra di loro e di cui non parlavano mai. Probabilmente era meglio così.

“Luke, abbiamo un problema. Don sta richiamando i soliti sospetti. Io sono già qui. Swann, Murphy ed Ed Newman stanno arrivando.”

“Subito?” Lo chiese anche se conosceva già la risposta.

“Sì. Subito.”

“Può aspettare?”

“Proprio no.”

“Mmh.”

“E Luke? Porta una borsa da viaggio.”

Lui alzò gli occhi al cielo. Il lavoro e la sua vita personale erano in lotta costante. Non per la prima volta, si chiese se quello che faceva per vivere non fosse incompatibile con la famiglia felice che stata cercando di costruire con Becca.

“Dove dobbiamo andare?”

“Informazione riservata. Lo scoprirai alla riunione.”

Luke annuì. “Okay.”

Richiuse il telefono e fece un lungo sospiro.

Sollevò il bambino tra le braccia e si alzò, per dirigersi verso la camera da letto padronale in fondo al corridoio. Era buio, ma vedeva quanto bastava. Becca stava sonnecchiando sul grande letto matrimoniale. Si chinò per poggiarle accanto Gunner, accarezzandole appena la pelle. Nel suo dormiveglia, la moglie emise un verso di piacere e mise una mano sul bambino.

Lui rimase fermo a guardarli per un po’. Madre e figlio. Un’onda di amore tanto intenso da sembrare incomprensibile lo travolse. Quasi non lo capiva lui stesso, era impossibile riuscire e esprimerlo a parole. Era indicibile.

Erano la sua vita.

Ma doveva partire lo stesso.

CAPITOLO CINQUE

11:05 p.m. Ora legale orientale

Quartier generale del Gruppo d’Intervento Speciale

McLean, Virginia

“Perché siamo qui?” chiese Kevin Murphy.

Era vestito in stile business casual, come se fosse appena uscito da un incontro per giovani professionisti.

Mark Swann, il cui abbigliamento era tutt’altro che adatto al lavoro, sogghignò. Portava una maglietta nera dei Ramones e un paio di jeans strappati. I suoi capelli erano raccolti in una coda di cavallo.

“In senso esistenziale?”

Murphy scosse la testa. “No. Quello che voglio sapere è perché siamo tutti in questa stanza nel bel mezzo della notte.”

La sala conferenze, che a volte Don Morris chiamava ottimisticamente il Centro di Comando, era occupata da un lungo tavolo rettangolare con un dispositivo per il vivavice montato al centro. C’erano prese in cui attaccare il portatile, a distanza di un metro circa l’una dall’altra. Sulla parete erano montati due grossi monitor.

Era uno spazio piuttosto ristretto, e Luke aveva partecipato a riunioni in cui una ventina di persone si erano strette lì dentro. Venti persone lo avevano fatto sembrare un vagone della metropolitana di Tokyo all’ora di punta.

“Va bene, gente,” esordì Don Morris. L’uomo anziano indossava una camicia aderente con le maniche arrotolate sugli avambracci. C’era del caffè in un bicchiere di carta di fronte a lui. I suoi capelli bianchi erano tagliati molto corti sul cranio, come se fosse appena stato dal barbiere. Il suo linguaggio del corpo era rilassato, ma i suoi occhi erano duri come l’acciaio.

“Grazie per essere venuti tanto in fretta. Ma ora basta con le chiacchiere, se non vi dispiace.”

 

In tutta la sala, i presenti mormorarono in assenso. Oltre a Don Morris, Swann, Murphy e Luke, c’era anche Ed Newsam, stravaccato sulla sedia. Indossava una maglietta nera con le maniche lunghe che gli abbracciava il torace muscoloso. Portava jeans e scarponcini gialli Timberland slacciati. Aveva l’espressione di qualcuno che fosse stato profondamente addormentato appena prima di andare a quella riunione.

C’era anche Trudy Wellington. Era in camicetta e pantaloni eleganti, come se non fosse mai andata a casa dal lavoro. I suoi occhiali rossi erano sollevati sulla testa. Sembrava sveglia e stava bevendo del caffè. Aveva già iniziato a battere informazioni nel portatile che aveva davanti. Qualsiasi cosa stesse succedendo, era stata la prima a esserne informata.

Dall’altro capo del tavolo, vicino ai monitor, c’era un generale a quattro stelle alto e magro, abbigliato in un’impeccabile uniforme. Portava i capelli grigi tagliati molto corti. Aveva il volto liscio, rasato di fresco. Nonostante l’ora tarda, sembrava lucido e pronto ad agire per le seguenti ventiquattro o quarantotto ore, o per tutto il tempo che fosse stato necessario.

Luke lo aveva già incontrato una volta, ma anche se non l’avesse mai visto prima, conosceva il tipo. Ogni mattina al suo risveglio, prima di qualsiasi altra cosa, rifaceva il letto. La prima missione compiuta di una giornata, per spianare la strada a tutte le successive. Con ogni probabilità, prima ancora del sorgere del sole, correva dieci miglia e mandava giù una sbobba fredda con del caffè molto forte. Aveva militare di carriera scritto a lettere cubitali sulla fronte.

Seduto al tavolo accanto a lui c’era un colonnello con un portatile aperto di fronte, oltre a una pila di documenti. L’altro non aveva ancora alzato lo sguardo dal computer.

“Gente,” disse Don Morris, “vorrei presentarvi il generale Richard Stark degli Stati Maggiori Riuniti, e il suo attendente, il colonnello Pat Wiggins.”

L’uomo anziano guardò il generale.

“Dick, i cervelli del Gruppo d’Intervento Speciale sono a tua disposizione.”

“Se così vogliamo chiamarli,” commentò Mark Swann.

Don Morris gli lanciò un’occhiataccia, il tipo d’espressione che avrebbe potuto rivolgere a un figlio adolescente troppo impudente, ma non disse nulla.

“Signori,” li salutò Stark, e poi si inchinò verso Trudy. “E signora. Andrò dritto al punto. È in corso un’emergenza ostaggi nell’Alaska artico, e il presidente degli Stati Uniti ha autorizzato una missione di salvataggio. Secondo i suoi ordini la missione deve essere supervisionata e presenziata da un’agenzia civile. Ed è qui che entrate un gioco voi.

“Durante il colloquio con il presidente ho pensato a voi, che siete il meglio di entrambi i mondi: siete forze dell’ordine civili, ma impiegate moltissimi ex membri speciali dell’esercito. Il direttore dell’FBI ha dato l’OK alla vostra partecipazione, e Don è stato tanto gentile da organizzare subito questo incontro.”

Guardò tutto il gruppo. “Mi seguite finora?”

Ci fu un mormorio generale d’assenso.

Il colonnello controllava il monitor a parete dal portatile. Apparve una mappa della zona settentrionale dell’Alaska, insieme a una sottile parte del mar Glaciale Artico. Un puntino in mezzo all’acqua era cerchiato in rosso.

“È una situazione in rapido sviluppo. Quello che posso dirvi è che un’ora e mezzo fa, una piattaforma petrolifera nel Mar Glaciale Artico è stata attaccata e sopraffatta da un gruppo di uomini pesantemente armati. C’erano circa novanta operai a lavoro sulla piattaforma e nell’isola artificiale che la circonda, e non sappiamo quanti siano stati uccisi nell’attacco iniziale. Hanno anche preso degli ostaggi, ma non abbiamo idea del loro numero.”

“Chi sono gli aggressori?” chiese Luke.

Il generale scosse la testa. “Non lo sappiamo. Hanno rifiutato i nostri tentativi di contatto, ma ci hanno mandato un video degli operai riuniti in una stanza e tenuti sotto tiro da uomini mascherati in nero. La compagnia proprietaria della piattaforma ci ha fornito l’audio dei dispositivi di monitoraggio, e la qualità non è un granché ma si sentono alcune voci. Oltre all’inglese degli operai, ci sono persone che parlano in una lingua dell’est d’Europa, forse slavo, ma se non abbiamo prove per confermarlo.”

Sullo schermo, la mappa sparì per mostrare alcune immagini aeree della piattaforma e del campo che la circondava. L’impianto di trivellazione, alto forse trenta o quaranta piani, dominava la prima foto. Al di sotto c’erano diverse baracche di lamiera, separate da passerelle. Attorno al piccolo complesso c’era un vasto mare ghiacciato.

Poi apparve un ingrandimento che mostrava l’area e gli edifici nel dettaglio. Non si vedevano persone dritte in piedi da nessuna parte, ma stesi a terra c’erano dozzine di corpi, diversi circondati da macchie di sangue.

Fu il turno di un’altra foto. Un grande striscione bianco con un messaggio scritto a mano era stato allungato sulle assi del pavimento.

AMERICA BUGIARDI + IPOCRITI

“Un messaggio interessante,” commentò Swann.

“In effetti non abbiamo molto su cui lavorare. Lo striscione che vedete suggerisce un attacco da parte di cittadini stranieri. Le riprese dei droni ci mostrano un complesso completamente vuoto. Gli aggressori sembrano aver portato ogni sopravvissuto al chiuso, ma non possiamo sapere se siano dentro le baracche di lamiera o all’interno dell’impianto stesso.”

Per un momento lo schermo rimase vuoto.

“Abbiamo un piano per riprenderci la struttura, neutralizzare i terroristi e salvare i membri sopravvissuti del personale civile. Prevede un’infiltrazione e un attacco principalmente da parte di Navy NEAL ma anche con voi. Per eseguire il piano è necessario portarvi nel Mar Glaciale Artico, quindi dobbiamo muoverci in fretta.”

Ed Newsam alzò una mano. “Quando cominciamo?”

Il generale rispose con un cenno del capo. “Stanotte, prima dell’alba. Ogni esperienza che abbiamo avuto con dei terroristi negli ultimi anni suggerisce che il protrarsi di situazioni è una strategia fallimentare, persino disastrosa. Viene coinvolto il pubblico, così come i politici. La stampa comincia a trasmettere il panico in televisione ventiquattr’ore su ventiquattro. Mettere in dubbio la risposta del governo diventa il passatempo nazionale. Un lungo stallo ispira ed esalta anche terroristi in altri paesi. Le immagini degli ostaggi bendati tenuti sotto tiro…»

Scosse la testa.

«Meglio non esplorare questa strada. Il gruppo in questione ha attaccato senza preavviso, e noi faremo lo stesso. Li colpiremo prima dell’alba, col favore delle tenebre, appena prima dell’ora della loro stessa aggressione e così riprenderemo il controllo. Con un’operazione riuscita, e sono certo che avremo successo, dimostreremo agli altri gruppi terroristici che facciamo sul serio.”

Stark doveva aver visto gli sguardi che il personale del GIS gli stava rivolgendo.

“Crediamo che la vostra agenzia sia perfetta per partecipare a questa missione. Se non siete d’accordo…” Lasciò la frase in sospeso.

Luke doveva ammettere che non gli piaceva la direzione che stava prendendo quella storia. Aveva appena lasciato sua moglie e il figlio neonato a letto. Ora doveva andare nell’Artico?

“Il Mar Glaciale Artico sarà a più di seimila chilometri da qui,” esclamò Swann. “Come facciamo a raggiungerlo prima dell’alba?”

Il generale chinò di nuovo il capo verso di lui. “Più che altro settantamila chilometri. E ha ragione, è molto distante. Ma siamo avanti di quattro ore rispetto a loro. Sulla piattaforma non sono neanche le sette e mezza di sera. Sfrutteremo la differenza di fusi orari.”

Si interruppe.

“E abbiamo la tecnologia per portarvi lì più velocemente di quanto possiate immaginare.”

* * *

“Cos’è che non ci sta dicendo?” domandò Luke.

Era seduto nell’ufficio di Don, dall’altra parte della grande scrivania del suo capo.

L’uomo anziano scrollò le spalle. “Lo sai che tengono sempre dei segreti. Ci sarà qualcosa di confidenziale nella piattaforma. O forse sanno di più degli aggressori di quanto non ci vogliano dire. Potrebbe essere qualsiasi cosa.”

“Perché noi?” volle sapere l’agente più giovane.

“Lo hai sentito,” rispose Don. “Hanno bisogno di partecipazione e supervisione civile. È un ordine diretto del presidente, che è liberale da sempre. Quell’uomo ritiene l’esercito una specie di mostro. Non sa che le agenzie civili sono piene zeppe di ex militari.”

“Ma noi siamo troppo piccoli,” insistette Luke. “Senza offesa, Don, ma l’NSA è un’agenzia civile, e anche l’FBI. Ed entrambi hanno molto più potere di noi.”

“Anche noi siamo parte dell’FBI.”

Lui annuì. “Sì, ma il Bureau ha dei distaccamenti molto più vicini all’azione. Invece vogliono trasportare noi dall’altra parte del continente.”

Don lo fissò per un lungo momento. Per la prima volta, Luke si accorse di quanto fosse ambizioso il suo capo. Era stato il presidente a scegliere il GIS per quella missione, ma l’anziano militare voleva quella missione anche più di lui. Quelle operazioni erano il suo fiore all’occhiello. Don Morris aveva messo insieme una squadra di conquistatori e voleva che tutto il mondo ne fosse consapevole.

“Come sai,” spiegò l’uomo, “i distaccamenti sul campo impiegano agenti operativi semplici. Praticamente sono solo ispettori e polizia. Ma noi siamo le forze speciali. È quello per cui siamo nati, ed è quello che facciamo. Siamo rapidi e leggeri, colpiamo duro e ci siamo fatti una certa reputazione, non solo di uscire vittoriosi anche da circostanze difficili ma anche di avere una certa discrezione.”

Luke e Don si guardarono, ai lati opposti della grande scrivania.

Don scosse la testa. “Ci stai ripensando, figliolo? Nel caso va bene. Non devi dimostrare niente a nessuno, men che meno a me. Ma in questo momento la tua squadra è là fuori a prepararsi.”

Luke alzò le spalle. “Io sono già pronto.”

Il suo capo fece un ampio sorriso. “Bene. Sono sicuro che non avrete problemi e sarete di ritorno in tempo per la colazione.”

* * *

“Diamoci una mossa,” disse Ed Newsam. “Questa missione non si sbrigherà da sola.”

Il giovane agente era alla porta di Luke, con uno zaino pesante caricato in spalla. Non sembrava entusiasta, né eccitato. Se Luke avesse dovuto usare una parola sola per descrivere la sua espressione, l’avrebbe definito rassegnata.

Lui era seduto alla scrivania e stava fissando il telefono.

“L’elicottero è già sulla pista.”

Luke annuì. “Ricevuto. Arrivo subito.”

Stavano per partire. Nel frattempo, lui era stato colpito dalla sindrome del Telefono Troppo Pesante. Era fisicamente incapace di sollevare il ricevitore e fare una chiamata.

“Maledizione,” bisbigliò sotto voce.

Aveva controllato e ricontrollato le borse. Aveva l’equipaggiamento standard per i lunghi viaggi, la sua Glock nove millimetri nella fondina da spalla in cuoio e anche qualche caricatore in più per la pistola.

Un portabiti con due cambi era steso sulla sua scrivania e accanto c’era una piccola sacca piena di prodotti da bagno formato viaggio, un mucchio di barrette energetiche e mezza dozzina di pillole di dexedrina.

Le pillole erano praticamente anfetamina, o speed. Erano segnalate in maniera esplicita nel manuale d’istruzione per gli agenti speciali. Dopo la loro assunzione si rimaneva svegli e vigili per ore e ore. Ed ogni tanto le definiva ‘il tiramisù più veloce che c’è.’

Erano prodotti generici, ma non aveva senso prendere niente di più specifico. Sarebbero andati nell’Artico, la missione richiedeva attrezzatura specializzata che gli sarebbe stata fornita quando fossero atterrati. Trudy aveva già mandato le misure di tutta la squadra.

Quindi ora fissava il telefono.

Se n’era andato di casa senza spiegarle quasi niente. Ovvio, lei stava dormendo. Ma ciò non cambiava nulla.

E il bigliettino lasciato sul tavolo del soggiorno non diceva niente di sostanziale.

Sono stato chiamato per una riunione serale, forse mi toccherà passare una notte in bianco. Ti amo, L

‘Una notte in bianco’. Bell’eufemismo. Era quello che avrebbe detto un laureando all’università prima di una nottata a studiare per un esame. Aveva preso l’abitudine di mentirle sul lavoro e stava diventando difficile smettere.

Che senso avrebbe avuto dirle la verità? Certo, poteva chiamarla, svegliarla da un sonno profondo, disturbare il bambino facendolo piangere, e tutto per dirle cosa?

 

“Ciao, cara, sono diretto al circolo polare artico per eliminare alcuni terroristi che hanno attaccato una piattaforma petrolifera. Ci sono cadaveri sparsi ovunque. Già, sembra che sia l’ennesimo bagno di sangue. In realtà c’è il rischio che non ti riveda mai più. Okay, dormi bene. Bacia Gunner da parte mia.”

No, era meglio tenere le labbra cucite, compiere la missione e fidarsi che tra i Navy SEAL e il GIS avessero gli uomini migliori per sbrigare quel lavoro. Avrebbe chiamato la moglie il mattino seguente, una volta finito tutto. Se le cose fossero andate bene e la squadra fosse stata incolume, le avrebbe detto che avevano preso un volo per Chicago per interrogare un testimone. Avrebbe continuato con la farsa che il Gruppo d’Intervento Speciale si occupasse principalmente di lavoro investigativo, macchiato solo di tanto in tanto da qualche scoppio di violenza.

Okay, avrebbe fatto così.

“Sei pronto?” disse una voce. “Stanno salendo tutti sull’elicottero.”

Alzò lo sguardo. Alla sua porta c’era Mark Swann. Era sempre una visione sconcertante. Con la coda di cavallo, gli occhiali da aviatore, l’ombra di una barbetta incolta sul mento e le magliette delle rock band che sembrava indossare regolarmente… era come se avesse un cartello appeso al collo: NON MILITARE.

Luke annuì. “Sì, ci sono.”

Swann stava sorridendo. No, meglio, era radioso, come un bambino a Natale. Era una strana reazione di fronte alla prospettiva di un noioso volo su tutto il Nord America, seguito da uno snervante scontro armato con un nemico sconosciuto.

“Ho appena scoperto come ci porteranno lì,” annunciò il collega. “Non ci crederai. È assolutamente stratosferico.”

“Non avevo capito che saresti venuto anche tu,” osservò lui.

Il sorriso di Swann si fece persino più ampio.

“L’ho deciso adesso.”