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Il Quadriregio

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CAPITOLO IX

Del vizio dell'accidia e delli suoi descendenti rami.

 
        Giá er'io gionto in su la piaggia quarta,
        ove l'Accidia sta ad impedire
        l'andar alla vertú per la via arta,
 
 
        quando la dea mi cominciò a dire:
    5 – Accidia è tedio ed un increscimento
        di far il bene ovvero a Dio servire;
 
 
        ché sempre a quella cosa si sta attento,
        che dá diletto ovver piacere al cuore,
        ed ogni altra è con pena e con istento;
 
 
   10 e tanto ogni vertú ha piú valore,
        quanto è prodotta con piú allegrezza
        e con maggior fervor di buon amore,
 
 
        ché amor ogni virtú pone in altezza,
        e tanto piace a Dio ed ègli accetto,
   15 che 'l ben, quanto ha d'amor, tanto l'apprezza;
 
 
        e come amor il ben fa piú perfetto,
        cosí l'accidia, ch'all'amor s'oppone,
        el fa essere vile e fallo infetto.
 
 
        E sappi che di questo è la cagione
   20 la sensualitá, che sempre è prona
        a ciò che contradice alla ragione;
 
 
        e se al ben far la volontá la sprona,
        vi va con tedio, se vertú assueta
        non l'ha domata pria e fatta buona.
 
 
   25 Ma, se corre a virtú gioconda e lieta,
        e spiace a lei ciò ch'a ragion dispiace,
        segno è ch'è buona, domata e quieta. —
 
 
        Coll'occhio, poi, che meglio e piú vivace
        prende certezza e piú il ver conferma,
   30 vidi l'Accidia ed ogni suo sequace.
 
 
        Ell'era vecchia, magra, trista e 'nferma,
        e posta tra le spine e campi incolti,
        debile sí, che 'n piè non stava ferma.
 
 
        E mostri intorno intorno ell'avea molti,
   35 ch'avean orribil forma ed apparenza,
        e tutti malanconici ne' volti.
 
 
        – La prima sua figliola è Sonnolenza,
        che si distende ovver dorme o sbaviglia,
        quando di Dio si parla o di scienza;
 
 
   40 e, se di risi o giochi si bisbiglia,
        sta colle orecchie e sta cogli occhi attenta
        e vigilante e colle liete ciglia.
 
 
        L'altra è la Tepidezza pigra e lenta,
        in cui caldo d'amor sí poco serve,
   45 ch'adopra come fiamma quasi spenta;
 
 
        noiosa a chi l'aspetta ed a chi serve,
        non cura il tempo che veloce vola,
        né fa che, operando, si conserve.
 
 
        La Negligenza è la terza figliuola,
   50 che sempre indugia nel tempo veloce,
        gravata ancor d'accidiosa stola.
 
 
        Per lei gridò giá Curio ad alta voce
        al grande imperator che sempremai
        a cosa apparecchiata indugio nòce.
 
 
   55 Mentre lo 'ndugio va di crai in crai,
        il tempo manca e crescono gli affanni,
        e li novelli aggravan li primai.
 
 
        E, mentre Negligenza tra li panni
        e tra la spen del «ben farem» si siede,
   60 il tempo corre in sua ruina e danni.
 
 
        Il quarto mostro, che 'n giú move il piede,
        Mollizia è, nemica del costante,
        che alquanto sale e poscia addietro riede.
 
 
        E, benché alla 'nsú mova le piante,
   65 quando egli avvien che trovi cosa dura,
        per debilezza torna e non va innante,
 
 
        e perde il palio, che sta su l'altura,
        che sol si dá a chi ben persevéra insino
        al fine e 'nsin che 'l cammin dura.
 
 
   70 E, perché ben conoschi questa fiera,
        de' suoi figliol dirò la radice anco,
        ond'ha origin questa brutta schiera.
 
 
        E sol perché in loro è scemo e manco
        il vigor dell'amor, e però avviene
   75 ch'ognun di loro è tristo, lento e stanco.
 
 
        Non è che mai da sé sia grave il bene,
        ma è la voglia ch'estima se stessa
        di non poter, e però nol sostiene.
 
 
        E l'altra figlia, ch'a lei piú s'appressa,
   80 Malizia ha nome, il mostro piú rubesto,
        che di pensar malfar giammai non cessa.
 
 
        E, perché questo a te sia manifesto,
        sappi che Accidia in la virtú ha tedio,
        e ciò ch'a ragion piace, a lei è molesto.
 
 
   85 E, perché a lei nel ben non piace sedio,
        anco su vi s'attrista ed ègli amaro,
        da lui si parte per trovar rimedio;
 
 
        e, per aver all'angoscia riparo,
        fugge dalla virtú, ch'a lei è noiosa,
   90 inverso il vizio, alla virtú contraro.
 
 
        Lasciato il bene, su nel mal si posa;
        ivi si pasce e diletta e s'impregna
        di questa figlia rea e maliziosa. —
 
 
        Dicendo questo a me la dea benegna,
   95 io vidi mover con veloci passi
        la vecchia pigra e trista, che lí regna.
 
 
        E li suoi mostri, che pria parean lassi,
        si mosson dietro a lei gagliardi e presti
        sí come giovin, che correndo spassi.
 
 
  100 E non parean pigri, tristi e mesti,
        ma ratti e tosti e con facce gioconde,
        non sonnolenti, ma attenti e dèsti.
 
 
        Ed io, che non sapea la cagion onde
        questo avvenisse, dissi: – O dea, al fatto
  105 quel, che tu giá m'hai ditto, non risponde.
 
 
        Io veggio che costor van tutti ratto:
        adunque non è ver quel che si dice,
        ch'ognun di lor sia infermo, lento e sfatto. —
 
 
        Ed ella a me: – Questo non contradice
  110 a quel che ho detto, se ben tu riguardi,
        ch'amor d'ogni atto umano è la radice.
 
 
        Ora costor solleciti e gagliardi
        corron cogli appetiti inverso il male,
        e quando vanno al ben, van pigri e tardi;
 
 
  115 ché, come sai, la parte sensuale,
        se non si doma, al mal ratto si move
        e verso il ben par ch'abbia fiacche l'ale. —
 
 
        Poscia Minerva mi condusse dove,
        nel mezzo del cammin, trovai due vie;
  120 maravigliar mi fên le cose nòve,
 
 
        ché su nell'una dolci melodie
        gli angeli cantan, sí dolci canzone,
        ch'io me n'innamorai quando l'odíe.
 
 
        E come a Roma nel campo d'Agone
  125 il premio si mostrava ai forti atleti,
        d'ingrillandarli di belle corone;
 
 
        cosí quegli angiol colli volti lieti
        prometteano a chi sal, con dolce invito,
        di coronarli e di farli quieti.
 
 
  130 – Venite su – diceano – al gran convito
        del nostro Re e del celeste Agnello,
        che sol contentar può 'l vostro appetito.
 
 
        Su pel viaggio tutto onesto e bello
        venite al gran Signor, che su v'aspetta,
  135 e noi ognun di voi come fratello.
 
 
        Su troverete ciò ch'all'uom diletta,
        su senza morte è sempiterna vita,
        su sta la securtá non mai suspetta. —
 
 
        Io mi credea che tutti a tanta invita
  140 salisseno correndo insú devoti,
        bench'assai dura fusse la salita.
 
 
        Ed io ne vidi pochi tardi e pioti
        e gravi andar sí come Idropisia
        e come infermi e d'ogni fervor vòti.
 
 
  145 Quando poi rimirai all'altra via,
        benché fusse lotosa e pien di spine,
        per quella quasi ognun ratto corría.
 
 
        E, perché su per quella ognun cammine,
        stavan demòni con coron d'ortiche,
  150 che conduceano altrui a mortal fine.
 
 
        Tra le punture e tra le gran fatiche
        andava ognun sollicito e giocondo
        e con gran festa alle cose impudiche.
 
 
        E, quand'io vidi i servitor del mondo
  155 servir senza gravezza e con disio
        e li serventi a Dio con tanto pondo:
 
 
        – Di questo il tipo – dissi nel cor mio —
        fu quando Iuda andò ratto e festíno
        a tradir quel che fu ver uomo e dio,
 
 
  160 e vigilante andò fin al mattino;
        e Pier nel ben non vegliò solo un'ora,
        ma stava dormiglioso a viso chino,
 
 
        quando Cristo gli disse: – Sta' su ed òra:
        non vedi Iuda tu, il qual non dorme,
  165 ma ratto corre al mal e non dimora? —
 
 
E questo esemplo al ver tutto è conforme. —
 

CAPITOLO X

Del vizio dell'ira e delle sue specie.

 
        Noi divenimmo in su la quinta strada,
        e trovai sangue in ogni lato sparso,
        come in su l'erbe cade la rugiada.
 
 
        Ed ogni luogo ivi era guasto ed arso,
    5 sí come Erode, a gran furor commosso,
        arse le navi in la cittá di Tarso.
 
 
        Poi risguardai e vidi un fiume rosso,
        tutto di sangue e grande quanto il Reno,
        ed anco, al mio parer, era piú grosso.
 
 
   10 Ahi, quanto di stupor io venni meno,
        vedendo un fiume spumoso e fumante,
        di sangue uman sí grosso e tanto pieno!
 
 
        Sí come manca il cuor all'elefante,
        vedendo il sangue ovver liquor sanguigno,
   15 cosí mancava a me il core e le piante.
 
 
        Per l'argine del fiume sí maligno
        andai tanto, insino ch'io trovai
        tre belle donne col viso benigno.
 
 
        E vidi dietro a lor, quando mirai,
   20 tre gran diavoli sí orrendi e brutti,
        che sí deformi non fûn visti mai.
 
 
        Addosso alle tre donne intraron tutti
        e trasmutâro lor belle sembianze,
        e gli atti umani in lor furon destrutti.
 
 
   25 Quelle lor facce, pria benigne e manze,
        si fên crudeli e diventôn di cane,
        e di scorzon si fên le bionde danze.
 
 
        Di coltei sanguinosi armôn le mane;
        e le gran serpi, ch'avean nelle teste,
   30 soffiavan gracilando come rane.
 
 
        Di ferro arruginato fên le veste
        e di ceraste fenno le cinture,
        col morso e col venen troppo moleste.
 
 
        Quand'io vidi mutar le lor figure,
   35 conobbi le tre Furie infernali,
        a sé ed anche altrui amare e dure.
 
 
        Di pipistrello avean le lor brutte ali,
        e 'l collo e 'l dosso avvolti di serpenti,
        con viste acerbe, crudeli e mortali.
 
 
   40 – Queste, che mordon se stesse co' denti,
        sonno dell'ira il vizio triforme:
        in cotal modo ell'usan tra le genti.
 
 
        Quella che nella vista è men difforme
        e che par men molesta in questo loco
   45 e che si desta e poi ratto si addorme,
 
 
        è l'Ira prima: è lieve e dura poco,
        sí come fiamma accesa nella stoppa
        tosto si lieva, e poi s'estingue il foco.
 
 
        E, benché nel durare non sia troppa,
   50 il colpo furioso, quando coglie,
        non fa men male a chi in quello s'intoppa.
 
 
        E questa tra le case si raccoglie
        e tra la turba pronta e garrizzaia
        e tra gli amici, il marito e la moglie.
 
 
   55 L'altr'Ira è dentro, e di fuor non abbaia,
        ma pensa far vendetta e non favella,
        sol perché l'ira di fuor non appaia.
 
 
        Questa è chiamata Ira amara e fella;
        cerca vendetta e nel cuor si richiude;
   60 e poscia alfin si placa e non flagella;
 
 
        ché, benché pensi le vendette crude,
        passando il tempo lungo, e l'ira passa
        e le man placa, pria di piatá nude.
 
 
        E l'Ira terza mai vendetta lassa,
   65 rabbiosa nello cor, e sempre seve,
        insin ch'occide o, divorando, abbassa.
 
 
        Questa è detta Ira difficile e grieve;
        crudele e tirannesca ovver superba,
        che mai non posa, se 'l sangue non beve.
 
 
   70 Megera è questa con la vista acerba;
        di ratta occision non è contenta,
        ma per piú tormentar la vita serba.
 
 
        Ella si gode quando altrui tormenta:
        guarda quant'ha crudele e brutta faccia
   75 e che d'ogni piatá la cera ha spenta! —
 
 
        Io vidi l'Ira poi con crudel faccia;
        e fe' le fiche a Dio il mostro rio,
        stringendo i denti ed alzando le braccia.
 
 
        Mentre cosí faceva, ei partorío
   80 orrendi mostri e prima la Biastema
        col viso altèro e biastimante Dio.
 
 
        Ahi, creatura vil, di bontá scema,
        putrido verme e posto in gran bassezza,
        come biastemi la Vertú suprema?
 
 
   85 Ché, da che l'Ira sempre mai disprezza
        colui, con cui si turba, or pensa quince
        se pecchi, dispregiando tanta altezza.
 
 
        E, se ti levi contra il primo Prince,
        sol per tal atto diventi idolatra:
   90 tanto il furor e cecitá ti vince.
 
 
        – Quell'altro, che ha la faccia iniqua ed atra,
        è Sdegno inchiuso nella fantasia,
        il qual, quand'esce fuor, com'un can latra,
 
 
        e dice contumelia e villania
   95 ed avvilisce, obbrobri recitando
        con la rabbiosa voce e con follia.
 
 
        Il terzo mostro ancor brutto e nefando,
        Immania ha nome ed Inumanitade,
        ch'è come un cane o bestia, divorando.
 
 
  100 Questo tra 'l sangue crudo e tra le spade
        prende diletto e, benché altri gridi,
        non ha misericordia, né pietade.
 
 
        Dall'ira escon battaglie ed omicidi,
        insulti, oltraggi, onte, risse e guerra,
  105 le grandi espulsion de' propri nidi.
 
 
        Se 'l detto mio attendi, che non erra,
        questa è che ha guasto il mondo e le gran ville
        e che li gran reami gitta a terra.
 
 
        Questa è ch'uccise Ettòr ed anche Achille,
  110 e che ha divisa Italia e che redusse
        Roma e Cartago in foco ed in faville.
 
 
        Quando Dio l'uomo da prima produsse,
        non l'armò giá di denti ovver d'artigli,
        sol perché pio e mansueto fusse.
 
 
  115 Ma 'l miser'uomo, purché ira il pigli,
        fèra crudel si fa, e nella vista
        par ben ch'ad un dimonio s'assomigli.
 
 
        E, se saper tu vuoi quanto s'attrista,
        quando Ira sua vendetta far non puote,
  120 e quanta doglia in se medesma acquista,
 
 
        ella si morde i labbri e si percote,
        e rompe e spezza e furiosa mira,
        e svelle a sé la barba dalle gote.
 
 
        E ciò che far non può la crudel Ira
  125 incontro altrui, adopera in se stessa
        e fassi preda a sé e si martíra.
 
 
        E, se la spen di far vendetta cessa
        o troppo tarda, allora questa fèra
        piange per la vendetta non concessa.
 
 
  130 Perché ben abbi la scienza intera,
        ira è disio d'alcun mal vindicarse,
        ch'alcun riceve e vendicarlo spera.
 
 
        Onde, se alcun vedesse iniuriarse
        da un grande eccellente ovver signore,
  135 ed ei non possa o speri d'aiutarse,
 
 
        costui non move l'ira, ma furore,
        e questo è sol, ché gli manca la spene,
        ch'accende il sangue a stizza presso al core.
 
 
        E sappi ancora ch'ira solo avviene
  140 per mal che l'uom riceve iniustamente:
        però apparenza di iustizia tiene.
 
 
        Per questo avvien ch'ogni irato si pente,
        quando si vede a torto aver punito
        colui che non ha colpa ed è innocente.
 
 
  145 Ed, ogni volta ch'alcuno è impedito
        da quel che molto spera o far intende,
        se non è forte, è dall'ira assalito.
 
 
        E chiunque ha seco l'ira, parvipende
        colui che 'l turba; e, s'egli è parvipenso,
  150 questa è prima cagion che d'ira accende;
 
 
        ch'ognun diventa di furore accenso,
        ch'è dispregiato o che riceve oltraggio,
        se alto cor non spregia, quando è offenso. —
 
 
Poi seguitammo insú nostro viaggio.
 

CAPITOLO XI

Trattasi della pena dell'ira.

 
 
        Insieme su andammo per la riva
        del crudel fiume; e non era ito molto,
        ch'io vidi il suo principio, onde deriva.
 
 
        Non fu giammai sí gran popul raccolto,
    5 quanto una gente, ch'io vidi in un piano,
        d'anime nude, quando alzai il volto.
 
 
        Ognun di loro avea la spada in mano;
        tra se medesmi facean la gran guerra,
        spargendo i membri in terra e 'l sangue umano.
 
 
   10 Ancora il cuore il pianto fuor disserra,
        quand'io ricordo i colpi delle spade
        e 'l sangue vivo, che correa per terra.
 
 
        E, quando cosí sparto in terra cade,
        trascorre a valle; e questa è la cagione
   15 che 'l fiume fa di tanta crudeltade.
 
 
        Da quella parte, dove il sol si pone,
        le Furie volar io vidi veloci,
        piú che alla preda mai nessun falcone,
 
 
        con spade sanguinose e con gran voci,
   20 con facce irate e con serpenti in testa,
        irsute in alto e tumide e feroci.
 
 
        Giammai si mosson venti a piú tempesta,
        quando il lor re a loro apre la gabbia,
        che li tien chiusi nella gran foresta,
 
 
   25 quanto le Furie si mosson con rabbia,
        cogli occhi accesi e toscosi serpenti,
        col fuoco in mano e con rabbiose labbia.
 
 
        E, come a suon di tromba e di stormenti
        s'accende a piú furor la gran battaglia,
   30 cosí facean tra sé le crudel genti.
 
 
        Ognun perfora l'altro, smembra e taglia.
        Non viddon tanto sangue i miser prati
        dell'Affrica, di Troia e di Tessaglia.
 
 
        Tutti si son nemici e tutti irati;
   35 e nullo colpo lor mai fere indarno,
        ché son, se non di spade, disarmati.
 
 
        Pensando, ancor m'impallido e descarno,
        vedendo che del sangue de' tapini
        si facea il fiume vie maggior che l'Arno.
 
 
   40 Megera poi de' guelfi e ghibellini
        trasse le insegne fuor tutte resperse
        di sangue vivo e peli serpentini.
 
 
        E l'una contra l'altra andâro avverse,
        e tanto sangue su quel pian si sparse,
   45 che tutta quella terra sen coperse.
 
 
        Di questo il fiume vidi maggior farse:
        allor le Furie corson come l'oca
        dentro in quel fiume nel sangue a bagnarse.
 
 
        Ahi, cieca Italia, qual furor t'infoca
   50 tanto che 'n te medesma ti dividi,
        onde convien che manchi e che sie poca?
 
 
        Non guardi, o miseranda, che ti guidi
        dietro a due nomi strani e falsi e vani?
        che per questo ti sfai e i tuoi uccidi?
 
 
   55 Per questo i tuoi figliol sí come cani
        rissano insieme e fan le gran ruine,
        e i cittadini fai diventar strani.
 
 
        Non sapendo il principio ovvero 'l fine,
        l'offesa o il beneficio, prendi parte
   60 contra li tuoi e cittá pellegrine.
 
 
        Pel sangue effuso e per le membra sparte,
        li tuoi figlioli a' mal nati fratelli
        e te a Tebe è degno assomigliarte;
 
 
        ché, allora allora nati, fûn ribelli
   65 tra se medesmi ed uccisonsi inseme,
        con dure lance e con crudi coltelli.
 
 
        Ma tu se' peggio che 'l serpentin seme,
        ch'elli, in cinque scemati, fên la pace,
        e tu la cacci quanto piú ti sceme.
 
 
   70 Sí come alcun, che, ascoltando, tace
        e che attende e mostrasi contento,
        udendo il ver ch'agazza e che gli piace,
 
 
        cosí stett'io; e poscia piú di cento
        corsono addosso ad un con gran corruccio
   75 e ferito il lasciôn in gran tormento.
 
 
        Ed egli, vòlto a me: – Io son Uguccio,
        che ressi giá lo popul di Cortona,
        tra i quali fui come tra pesci il luccio.
 
 
        Cosí ferita è qui la mia persona,
   80 ché la iustizia, secondo l'offese,
        agli offendenti angoscia e pena dona. —
 
 
        Ahi, quanta doglia allor il cor mi prese,
        quando in tormenti vidi quel signore,
        che vivo fu magnanimo e cortese!
 
 
   85 Per mitigare alquanto a lui 'l dolore,
        diss'io: – Cortona è retta da Francesco,
        pregio di casa tua e gran valore.
 
 
        Da lui venuto son quaggiú di fresco;
        convien che a lui di te novelle io porti,
   90 se mai di questo inferno quaggiú esco.
 
 
        Minerva, che m'ha qui li passi scorti,
        di senno ha dato a lui sí gran tesoro,
        c'ha i mentali occhi a tutti i casi accorti.
 
 
        Il popul cortonese ha buon ristoro
   95 de' loro affanni e lieto vive adesso,
        subietto all'onde celestine e d'oro. —
 
 
        Piú dir volea, se non che un appresso,
        che ben di mille colpi era feruto,
        e senza gambe e mezzo 'l capo fesso,
 
 
  100 gridò: – Io fui da te giá conosciuto. —
        Perché pe' colpi io ben nol conoscea,
        risposi: – Al mio parer, mai t'ho veduto. —
 
 
        Ed egli a me: – So' il prence d'Alborea,
        che, quando nella vita io era vivo,
  105 fui crudo piú che Silla ovver Medea.
 
 
        Di sangue al grande fiume io feci un rivo
        sol delle genti nate in Catalogna,
        'nanzi ch'io fussi della vita privo.
 
 
        Io dirò 'l vero a te e non menzogna:
  110 ben ventimila ne mandai al sonno,
        che desterá la tromba, che non sogna.
 
 
        – Iudice mio, – diss'io – signore e donno,
        di quel ch'io veggio in te e che mi dici,
        gli occhi la doglia testificar ponno.
 
 
  115 Io mi ricordo de' gran benefici,
        che nella vita lieta a me donasti
        con quell'amor, qual è tra veri amici.
 
 
        Or che li membri tuoi veggio sí guasti,
        io delle pene tue tanto mi doglio,
  120 che con parol non posso dir che basti.
 
 
        Ma una cosa da te saper voglio:
        per mancamento di quale vertude
        tu diventasti sí senza cordoglio?
 
 
        – Quella che, alzando ed abbassando, lude,
  125 tradimenti – rispose – e lusinghe anco
        delle person del mondo, che son Iude,
 
 
        nullo stato alto lassano esser franco;
        e quanto ha di timore alcuna cosa,
        tanto ha d'amore e di clemenza manco.
 
 
  130 E, se la Signoria non prende a sposa
        la Virtú mansueta ovver Clemenza,
        è a sé ed anche altrui pericolosa;
 
 
        ché, quando ira s'aggiunge alla potenza,
        se la vertú benigna non raffrena,
  135 fa piú ruina, quant'ha piú eccellenza.
 
 
        Sí come Dio, ridendo, rasserena,
        e, turbato egli, tornaría in caosse
        la terra, il cielo e ciò che frutto mena:
 
 
        il gran Nettunno, quando irato fosse,
  140 turbaría il mare, ed infiaríansi l'onde,
        e le nereide ancor serían commosse;
 
 
        cosí, le Signorie stando iraconde,
        quanto piú alto son, maggior fracasso
        e maggior mal convien che ne seconde.
 
 
  145 Innanzi che di qui tu movi il passo,
        sappi: chi spregia altrui, a sé a rispetto,
        riputando sé alto ed altrui basso,
 
 
        d'ira e di crudeltá viene in effetto;
        ché sempre ira invilisce e parvipende,
  150 se bene hai inteso ciò che Palla ha detto.
 
 
        Dall'ira crudeltá nasce e discende,
        e voglio che tu sappi da me ancora,
        ch'Ira Superbia in sua maestra prende,
 
 
ed ogni vizio scorge ed avvalora. —