Una Maestra D'Asilo Per Il Re

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Capitolo Tre

Mentre guardava fuori dal finestrino della macchina, la città di New York scorreva davanti agli occhi di Leo in cemento grigio, denim blu e luci fluorescenti. Gli scorreva davanti era un modo di dire. Avrebbe potuto camminare più velocemente di quanto l’auto viaggiasse nel traffico. Quella strada trafficata era più simile a un parcheggio che a un percorso.

«Mi dispiace che ci si metta così tanto, signori» disse l’autista.

Si toccò il cappello mentre guardava Leo e Giles sul sedile posteriore. Il loro autista era originario di New York. Era sembrato deliziato quando aveva saputo che avrebbe portato in giro un re in carne e ossa. In effetti, aveva davvero ridacchiato come una scolaretta quando si era trovato faccia a faccia con Leo.

«Si figuri, tutto a posto» gli disse Leo.

«Ha detto che vuole andarsene da questo posto, Altezza?»

Leo aveva viaggiato molto prima di salire al trono. Ai tempi della scuola, aveva trascorso molto tempo in Germania, dove aveva imparato a esprimersi in modo chiaro e coinciso. Dopo la scuola, aveva lavorato a lungo nelle missioni nell’Africa francofona, dove l’accento era molto marcato.

Eccelleva nella comunicazione. Tranne che lì a New York, dove gli accenti, che sembravano degli scioglilingua, i doppi negativi e i significati capovolti di alcune parole spesso lo coglievano alla sprovvista. E viceversa, a quanto pareva.

«No» disse Leo. «Voglio dire che il traffico non è colpa sua.»

L’autista annuì. «Mi scusi. Il suo è un inglese da ricconi. Ho già abbastanza problemi a capire le persone del Jersey.»

Leo rise a quella battuta. Nonostante i problemi di comunicazione, gli piaceva parlare con l’autista sin da quando era andato a prenderli all’aeroporto. Avrebbero potuto utilizzare il loro autista di Cordoba, ma l’ambasciata aveva detto che sarebbe stato meglio averne uno nativo di New York, quella settimana, quando i diplomatici di tutto il mondo avrebbero intasato le strade.

Leo guardò quei nastri di asfalto. Cosa non avrebbe dato anche per un solo attimo di libertà! Un momento per scomparire tra la folla.

«Perché non usciamo e ce la facciamo a piedi?» propose Leo.

Giles sbuffò come se qualcosa di aspro e sgradevole si fosse fatto strada con gli artigli dal fondo della sua gola. «Siete un re. Un re non cammina. Soprattutto in una città straniera.»

«Nessuno sa chi sono, qui. Potrei essere un uomo qualunque che passeggia per strada.»

In quel momento Giles arricciò il naso come se avesse fiutato qualcosa di veramente disgustoso. «Appartenete a un lignaggio di grandi guerrieri e leader, i quali, secoli fa, avrebbero schiacciato ribelli come questi se avessero osato non essere d’accordo con il loro re. Siete tutt’altro che un uomo qualunque.»

Leo azzardò un’occhiata nello specchietto retrovisore. «Senza offesa» disse all’autista.

«Non mi offendo» rispose prontamente lui. «Non sono sicuro di aver capito bene tutto quello che ha detto.»

Leo ridacchiò di nuovo, e poi il suo stomaco entrò in azione. «Quello che io so per certo è che sono affamato.»

«Ha fatto colazione nella suite dell’hotel.» Giles non alzò nemmeno lo sguardo. Sfogliava le carte del suo dossier.

«Ho di nuovo fame» si lamentò Leo, suonando simile alla sua bambina di cinque anni prima di andare a letto.

«Naturalmente» disse Giles sottovoce ma abbastanza forte perché Leo potesse sentirlo. «Ci siamo quasi. Sono certo che ci sarà da mangiare in abbondanza.»

Sebbene Leo indossasse la corona e sedesse su un trono, sentiva che la sua vita non era mai stata sua. Prima che fosse Giles a gestire i suoi programmi, erano stati i suoi genitori a pianificare ogni sua mossa. A volte si chiedeva se il castello immerso tra le nuvole dove risiedeva non fosse in realtà una gabbia dorata.

Si rivolse di nuovo allo scenario di New York che aveva davanti. Quando la macchina svoltò in una strada laterale, ai suoi occhi apparve un castello. O qualcosa che si avvicinava a un castello. Invece delle torrette, la tenda parasole ricordava la crosta di una torta salata. L’insegna sopra la porta identificava il negozio come il Peppers’ Pies.

Fuori dalla vetrina c’era un cartello che accoglieva i dignitari dei molti paesi presenti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si teneva a pochi isolati di distanza. L’auto si mosse abbastanza lentamente da permettere a Leo di leggere le offerte speciali del giorno. Nel menu c’erano torte di carne australiane, bundevara serbe e... possibile?

«Accosta» disse Leo.

«Vostra Maestà, non abbiamo tempo.»

Leo rivolse uno sguardo al cruscotto. Avevano ancora un’ora intera prima del suo discorso. A Giles piaceva semplicemente essere estremamente in anticipo a tutti gli eventi per scongiurare ogni possibilità di catastrofe. Non ce n’era mai stata una.

«Puoi riservare al tuo re un momento per soddisfare i suoi bisogni più elementari.»

Giles sbuffò di nuovo ma cedette.

L’autista si fermò e parcheggiò proprio davanti al negozio di torte. Non era esattamente un parcheggio regolare, ma la targa diplomatica offriva loro un minimo margine di manovra.

Leo si allungò verso la maniglia della portiera, ma Giles lo batté sul tempo, saltò fuori dall’auto e si trovò dall’altra parte del veicolo prima che i piedi di Leo toccassero terra.

«Non c’è bisogno che entriate e provochiate un gran trambusto» disse Giles. «Posso ordinare io per voi ciò che volete. Così potremo ripartire quanto prima.»

La presenza di Leo per strada avrebbe potuto causare un po’ di confusione a Cordoba, dove la gente sapeva chi e cosa fosse. Ma lì, per le strade di New York, nessuno gli avrebbe rivolto nemmeno mezza occhiata. Tuttavia, Giles lo guardò male quando Leo scese dall’auto.

«Sono sicuro che andrà tutto bene» disse Leo.

«Mi permetta un po’ di scetticismo, Maestà» gli rispose Giles. «Cosa ne dice di aspettare vicino alla macchina?»

«Va bene» disse Leo, e sbuffò a sua volta. Sarebbe stato fuori a respirare l’aria fresca e vagamente puzzolente per qualche istante.

Con un altro sbuffo, Giles si voltò ed entrò.

Leo volse lo sguardo e osservò la terra degli Uomini Liberi. Sollevò la testa verso il cielo. Con gli occhi alzati tra gli enormi edifici, si sentiva piccolo. Guardando in mezzo al mare di gente, si sentiva insignificante.

Una persona lo sfiorò, urtandogli la spalla. «Attento!» gli urlò dietro quell’uomo.

Leo non reagì a quell’affronto. Non aveva mai sperimentato la maleducazione in prima persona. Fu un’esperienza nuova, e scelse di riderci sopra. Il che non rese più felice la persona che si stava allontanando, che si accigliò e continuò a camminare.

Alcune donne superarono Leo. Lo scrutarono dall’alto in basso. Gli sguardi che gli lanciarono da sopra le spalle andarono a segno. Avrebbe potuto approfittarne. Ma, ovviamente, non lo fece.

A parte essere il padre di una bambina, Leo non era mai stato un tipo da una botta e via. A differenza di suo fratello. Per tutta la vita, Leo era stato un tipo da una donna sola. E poiché era stato fidanzato dalla nascita, era rimasto fedele all’unica donna a cui aveva fatto le sue promesse.

L’unica donna che avesse mai baciato era stata la sua defunta moglie. La prossima donna che avrebbe baciato avrebbe avuto lo stesso titolo e la stessa responsabilità. Era il suo destino. Uno che accettava.

Leo si voltò e guardò la strada. Il traffico era diminuito nei pochi minuti da quando avevano parcheggiato. I veicoli ancora una volta si muovevano prossimi al limite di velocità. Tranne che ai semafori e agli attraversamenti pedonali.

All’incrocio davanti a lui, una donna abbassò gli occhi verso il suo telefono. I pedoni si erano allontanati dal centro della strada ed erano al sicuro sul marciapiede. Ma quella donna non prestava attenzione alla mano rossa che, nel semaforo, le faceva segno di fermarsi. Era troppo concentrata sul cellulare.

Un furgone svoltò l’angolo, procedendo a forte velocità. La donna continuava a guardare in basso. Dall’angolo in cui lei si trovava, Leo capì che era nel punto cieco dell’autista. Nessuno dei due vedeva l’altro sulla sua strada.

Forse fu il sangue guerriero dei suoi antenati moreschi. O lo spirito avventuroso dei suoi antenati Conquistadores. Oppure fu l’arroganza degli aristocratici francesi nel suo albero genealogico a prendere il sopravvento. Qualunque cosa lo mise in moto, Leo non pensò. Si limitò ad agire.

Si precipitò intorno alla macchina e in strada. Con nemmeno un secondo da perdere, mise le braccia intorno alla donna e la tirò a sé. Una frazione di secondo più tardi, il paraurti del furgone occupò lo spazio in cui lei si era trovata. La forza dello strattone di Leo e l’impatto del corpo di lei che si schiantava contro il suo li fece finire entrambi a terra.

La donna gridò di sorpresa. I freni del furgone stridettero in segno di protesta. Leo grugnì mentre cadeva sulla schiena con la donna sopra di lui.

«Oh, mio Dio» sussurrò lei. «Oh, mio Dio. Oh, mio Dio.»

Alzò lo sguardo verso il furgone che era a meno di mezzo metro da loro. Abbassò lo sguardo su Leo che era disteso sotto di lei. Magari era stata l’esperienza di premorte, ma Leo avrebbe potuto giurare di aver visto delle stelline che le scintillavano sopra la testa.

«Ehi, voi due piccioncini, prendetevi una stanza e spostatevi dalla strada» gridò loro l’autista del furgone prima di girare le ruote e aggirare i loro corpi intrecciati.

Il veicolo ripartì con un’esplosione di gas di scarico. Leo coprì il viso della donna con una spalla per proteggerla da quei fumi pestilenziali. Quando l’aria si schiarì, rimase a fissare gli occhi marroni più abbaglianti e profondi che avesse mai visto. Erano di un marrone così scuro da sembrare nero, ma c’era una luce al centro di essi che si irradiava verso l’esterno. Per un momento, Leo rimase stordito.

 

«Uccisa da un drago» disse lei.

Lui abbassò gli occhi sulle sue labbra. Non portava il rossetto, probabilmente solo un lucidalabbra, visto che erano lucide e profumavano leggermente di menta e ciliegie. «Chiedo scusa?»

«Sono stata quasi uccisa da un drago» rispose lei, poi guardò in direzione del furgone in partenza. Fu allora che Leo notò il drago verde sul fianco del mezzo, che descriveva nel dettaglio i servizi della Lavanderia a Secco Dragon. «Lei mi ha salvato» gli disse. «Il mio cavaliere con l’armatura scintillante.»

«Non sono un cavaliere.»

«Il mio libro dice così.»

Gli sorrise, e lui ancora una volta rimase senza parole. Il suo sguardo si fermò di nuovo su quelle labbra. E poi, meraviglia delle meraviglie, lei fece sgattaiolare la lingua rosa fuori dall’angolo della bocca per inumidirsi le labbra già lucide. La fame di Leo si moltiplicò di dieci volte.

Ci volle una serie di clacson per riportarlo al presente e al pericolo che ancora li affliggeva. Erano ancora in mezzo alla strada con le auto che sfrecciavano per passare accanto ai loro corpi avvinghiati.

La sua damigella si sollevò facendo leva sul suo petto per raddrizzarsi. Poi si chinò e tese la mano a Leo. Lui fissò quell’offerta per un secondo intero, chiedendosi come fosse successo che i ruoli si erano invertiti.

Alla fine, prese la mano di lei tra la sua, ma non approfittò della forza di quella ragazza per rimettersi in piedi. Si alzò da solo. Mentre lo faceva, si crogiolò nel tocco della pelle di lei contro la sua.

Si spostarono sul marciapiede, ancora mano nella mano. Troppo presto, la ragazza lasciò la presa. Poi prontamente gli diede una pacca sulle gambe dei pantaloni, pericolosamente vicino ai gioielli della corona.

«Oh, no» gli disse. «Ho rovinato il suo vestito.»

Leo abbassò lo sguardo per vedere che c’erano delle macchie sul lato della giacca e su una delle gambe dei pantaloni. Una donna non lo toccava da tanto tempo. Anche se lo stava spazzolando con un po’ troppa intensità.

«Ero di fretta» gli disse, concentrandosi sui granelli di sporco e sudiciume sul tessuto dei suoi vestiti. «Stavo cercando di ordinare qualcosa da mangiare sul telefono. Sono in pausa pranzo e non ho molto tempo. Ecco perché stavo guardando il cellulare. E ora sto parlando a vanvera. Quella è la sua auto?»

Leo aveva problemi a tenere il passo. Guardò la donna, poi il cellulare che lei ancora stringeva in mano, di nuovo lei e poi la sua macchina. «Sì.»

«Lo sa che non può parcheggiare lì? Le faranno una multa.»

Lui scosse la testa. «Immunità diplomatica.»

«Oh. Oh, conosco quella bandiera. È la bandiera di Cordoba.»

L’arancione, il rosso e il blu rappresentavano i diversi paesi da cui proveniva la maggior parte della gente di Cordoba. Con la bandiera del suo paese esposta in modo ben visibile e orgoglioso sull’auto, Leo disse addio al suo anonimato.

«Lavora per il principe?» gli chiese.

Senza pensare, la verità gli uscì di bocca. «No, sono il re.»

«Oh, lavora per il re? Che cosa eccitante!»

Chiaramente, lei lo aveva frainteso. Doveva essere di nuovo l’accento. Ma Leo decise di approfittarne. Un piccolo brivido lo percorse all’idea che il suo anonimato fosse stato ripristinato. «Non è per niente eccitante. Il re si occupa degli affari di Stato. Agricoltura, tasse, immobili.»

«Ma anche lei vive nel castello? Mi piacerebbe saperne di più. Posso offrirle una tazza di caffè e una fetta di torta come ringraziamento per il salvataggio?»

Una tazza di caffè da una bellissima sconosciuta? «Certo.»

Mentre si avvicinavano alla porta del negozio di torte, Leo vide che Giles lo osservava accigliato. Fece segno all’uomo di tenere la bocca chiusa. Giles lo fissò, e Leo poté sentire lo sbuffo dall’altra parte del locale. Ma, per una volta, l’uomo fece come gli era stato ordinato e tenne la bocca chiusa. Anche se tirata in una linea di chiara disapprovazione.

«Io mi chiamo Esme, a proposito.»

«Io Leo.»

Capitolo Quattro

Nonostante tutte le favole, i romanzi rosa e i film di Hallmark che Esme divorava, non si era mai considerata il tipo da damigella in pericolo. Ma, ragazzi, aveva funzionato benissimo! Esme era caduta tra le braccia di un vero eroe.

Tecnicamente, si era schiantata contro di lui mentre faceva la cosa più innocua e stereotipata che una millennial americana potesse fare. Ma chi se ne fregava, visto che aveva dato buoni risultati, e lei sarebbe sopravvissuta per raccontare quella storia. E che storia, si stava accingendo a essere!

Leo le tese il braccio in un perfetto angolo retto, da galantuomo. Proprio come nei film d’epoca della BBC che lei da bambina guardava alla televisione pubblica. Fu presa dal panico per un secondo, incerta sul da farsi.

Doveva infilargli la mano sotto il gomito e stringere le dita nell’incavo? O appoggiargli la mano sull’avambraccio, posando leggermente le dita? Che cosa aveva fatto l’attrice che interpretava Elizabeth con Mr. Darcy in Orgoglio e Pregiudizio? Non nel film di due ore con Keira Knightley trasmesso fino alla nausea via cavo. In quello deliziosamente lungo, diviso in episodi, che faceva partire nei fine settimana durante le raccolte fondi.

Alla fine, decise che voleva un po’ di azione. E così Esme gli mise semplicemente la mano tra le costole e il bicipite. Le sue nocche sfiorarono la giacca elegante che aveva rovinato con la sua epica distrazione. Quel capo era più fine del suo vestito più costoso. Non che quello rivelasse molto di lei, dal momento che tendeva a fare acquisti nei negozi dell’usato e non sulla Fifth Avenue. Ma ogni pensiero la abbandonò quando le sue dita incontrarono i muscoli di lui.

E... oh, cavolo... quelli sì che erano muscoli!

Quel tizio che lavorava a palazzo non era uno sciattone. C’erano più colline sul suo braccio che valli nel Grand Canyon. Si chiese che cosa facesse per il re. Doveva far parte della security, con quel fisico, la faccia seria e le doti da eroe.

Forse era Capitano della Guardia Reale? Possibile fosse un cavaliere? Nei libri di fiabe, gli uomini che proteggevano i re erano sempre cavalieri. Ma lui aveva detto di non essere un cavaliere. Tuttavia, per lei avrebbe sempre indossato le vesti di un cavaliere dall’armatura scintillante.

E, solo per dimostrare la cosa, le tenne la porta e le permise di precederlo. Chinò anche leggermente la testa mentre le permetteva di superarlo. Il cuore di Esme fece un sussulto e una giravolta e alla fine le si schiantò contro le costole.

Oh, cavolo, era in guai seri.

Al bancone c’era un uomo che li guardava accigliato. Aveva la stessa abbronzatura dorata e lo stesso aspetto bello e cupo di Leo. Era vestito come lui, ma era chiaramente più vecchio. Probabilmente solo di pochi anni. Non c’erano rughe sul suo viso, ma i suoi occhi erano velati dallo sfinimento.

«Ho deciso di mangiare qui la mia torta, Giles» disse Leo. «So che abbiamo un programma da seguire e che dobbiamo arrivare all’ONU per il discorso del re. Non ci metterò troppo.»

Quell'uomo, Giles guardò Leo da sopra la testa di Esme. Poi abbassò lo sguardo su di lei. Se possibile, il suo cipiglio si fece ancora più severo, come se avesse fiutato qualcosa da una fogna. Ma inclinò la testa. Con un’altra occhiata a Esme, lasciò il contenitore di torta da asporto sul bancone e si diresse verso la porta.

«Mi dispiace.» Leo si sedette accanto a lei al bancone. «Giles odia essere in ritardo.»

«Non voglio impedirti di fare il tuo lavoro.» Era una bugia. Sì, voleva tenerlo con sé.

«Abbiamo tutto il tempo per arrivarci. Giles pensa che arrivare in tempo significhi essere in ritardo.»

«Anche io non ho molto tempo. Posso fare solo una breve pausa pranzo. Ancora più breve, ora, visto che ho sfiorato la morte.»

«Che cosa?»

Entrambi si voltarono per guardare la donna dietro il bancone. Aveva sbattuto le mani sul bancone insieme a quell’esclamazione. Il rumore era stato solo un tonfo sordo poiché le sue mani erano coperte da un paio di guanti da forno.

Esme alzò le mani per calmarla. «Era solo un modo di dire, Jan.»

«Spesso sei incline al drammatico, tesoro, ma c’è sempre un minimo di verità.» Jan conosceva Esme fin troppo bene. Capitava, essendo migliori amiche.

«Mentre ti stavo scrivendo, non guardavo dove stavo andando e sono finita nel traffico.»

Gli occhi di Jan si spalancarono e divennero tondi come una teglia da torta.

«Per fortuna, Leo, qui, ha salvato sia la mia vita che il mio telefono da un sicuro disastro.»

«Giuro, Esme, hai sempre la testa tra le nuvole. Devi tenere i piedi e gli occhi per terra.»

Jan fece scivolare una fetta di torta verso Esme. La crosta era scurita da striature nere e il ripieno verde fuoriusciva dai lati. «A proposito di esperienze di pre-morte, ecco la tua torta di mele avvelenate.»

Esme si strofinò le mani, preparandosi ad assaporare il suo piatto preferito.

«Avvelenate?» chiese Leo, il viso contorto dall’orrore. Ma anche con quella smorfia, era ancora diabolicamente bello.

«Oh, è uno scherzo» chiarì Esme. «Porto il nome di una principessa.»

Qualcosa cambiò nei lineamenti di Leo. Esme non riuscì a capire se fosse sorpresa o sgomento.

«La principessa Esmeralda, protagonista nel Gobbo di Notre Dame della Disney.»

«Conosco la storia» disse lui. «Ma lei non mangiava una mela. E non era una principessa. Era una persona comune.»

Esme scrollò le spalle. «Licenza poetica.»

Di nuovo, lo sguardo di lui divenne imperscrutabile.

«Questa è per te, vero?» Jan tirò fuori la torta di Leo dal suo contenitore e la mise su un piatto.

Spezie provenienti da una terra straniera solleticarono il naso di Esme. Il loro calore le scaldò le guance. La dolcezza del profumo le solleticava la lingua, invogliandola a chiederne un boccone.

«Questo è il motivo per cui mi sono fermato» disse Leo. «Non potevo resistere a un tentativo di realizzare un piatto di autentica cucina cordovana. E questo sembra e profuma proprio come una bisteeva

Detto ciò infilò la forchetta e prese un morso. Alzò gli occhi al cielo, in estasi, il che era un evento comune lì nella panetteria di Jan.

«Ha lo stesso sapore della bisteeva che fa il cuoco di palazzo» disse Leo, prendendo un altro boccone. «No, meglio. Per favore, non fategli sapere che l’ho detto.»

Jan sorrise da un orecchio all’altro di fronte all’ennesimo cliente convertito alla sua cucina.

«Leo, questa è la mia migliore amica nonché creatrice delle migliori torte del mondo, Jan.»

«Piacere di conoscerti, Jane.»

«No, solo Jan» lo corresse. «Niente “e” in fondo. Sono troppo semplice per chiamarmi Jane. Solo Jan.»

Leo lasciò cadere la forchetta e tese la mano a Jan. Lei gli porse quella con il guanto da forno per una stretta. Lui sorrise e le girò la mano con il palmo rivolto verso l’alto e piantò un bacio sul tessuto ricoperto di margherite.

«Wow» disse Jan. «Questa è una novità.»

Wow davvero. Esme non aveva mai ricevuto un baciamano. Nessun ragazzo lo aveva mai fatto per lei, che lo sognava anche troppo. Forse Leo avrebbe potuto farlo anche con lei, se fosse stata nella posizione giusta quando si erano incontrati.

«Sei stata a Cordoba?» chiese Leo.

«Non sono mai andata da nessuna parte» rispose Jan. «Ho sempre avuto un talento per le spezie. I piccoli chiodi di garofano, i dolci e i fiori possono trasportare le papille gustative di una persona in giro per il mondo e ritorno spendendo poco e niente.»

Leo annuì. «Le mandorle sono così dolci che sembra che tu le abbia colte direttamente da un albero a Maiorca. Il cumino mi scalda la bocca come se fossi steso su una spiaggia del Mediterraneo. E hai usato il piccione invece del pollo.»

«Sono sorpresa che tu riesca a notare la differenza.»

«Hai un dono.»

Leo prese un altro boccone della sua torta. Chiuse gli occhi e gemette di gioia. Non c’era musica nel negozio di torte. Tutto ciò che si sentiva era un coro di gemiti felici dei clienti. Musica per le orecchie di Jan.

 

La sua amica guardò Leo, poi Esme. Tenacemente single, rivolse a Esme un sorriso di approvazione prima di spostarsi per servire un altro cliente. Esme rivolse la sua attenzione alla sua fetta. Ne mangiò un pezzetto mentre pensava a un argomento di conversazione per mantenere l’interesse dell’uomo che le sedeva accanto.

«Allora, Leo, com’è il re di Cordoba? È vecchio e incline alla follia come Re Lear? È un idiota maldestro come il padre di Jasmine in Aladdin? O è fuori di testa come la Regina di Cuori in Alice nel Paese delle Meraviglie?»

«Hai una bella immaginazione.»

«È la mia maledizione.»

«Mi piace.» Leo mangiò l’ultimo pezzetto della sua torta, chiudendo gli occhi mentre estraeva lentamente i rebbi della forchetta dalla bocca.

Esme era ipnotizzata. Oh, essere uno di quei quattro denti metallici.

«Però sei in errore sulle regole monarchiche» le disse.

«Chiedo scusa?»

«Parlo della monarchia moderna. Gestire un regno è molto simile a gestire un’azienda quotata nel Fortune 500, solo più difficile.»

«Come mai?»

«Nei tempi antichi e medievali, i re erano considerati i rappresentanti di Dio in terra. Possedevano i terreni e spesso le persone che vivevano su di essi. Nel corso del tempo, il loro potere venne limitato dai nobili feudali, perché i monarchi non potevano gestire da soli quell’immensa quantità di terra e risorse. Più tardi, fecero affidamento sull’assistenza della Chiesa. Anche se, il più delle volte, erano messi alle strette dal papato. I re giurarono di mantenere la pace, amministrare la giustizia, sostenere le leggi e proteggere i poveri che risiedevano nei loro possedimenti. La democrazia è cresciuta man mano che le persone diventavano autonome, ma l’influenza del re è rimasta forte in molti paesi.»

Fu una deliziosa lezione di storia. Ma lei non riusciva a capirne il senso. «Allora cosa fa in realtà il re?»

«In quest’epoca, i re e le regine delle nazioni delegano il loro potere in modo che la polizia mantenga la pace, i tribunali dispensino la giustizia e i governi si occupino di legiferare. E, in alcune monarchie, sono semplicemente delle figure di rappresentanza.»

«A Cordoba?»

«A Cordoba mi piace credere che il re guidi il regno. Ma non lo fa da solo. C’è un parlamento.»

«Come in Inghilterra? Quindi il re non si limita a farsi scattare delle foto e andare in vacanza?»

«Si procura anche affari remunerativi per le industrie del Paese. Fa accordi in base alle loro risorse. È il primo responsabile dell’economia, anche con i legislatori al timone. Cordoba ha una lunga storia di regnanti che giocano un ruolo attivo. Questa tradizione continua anche oggi.»

«Sembra un grande uomo» disse Esme. «Non proprio roba da fiabe.»

«L’aristocrazia non rispecchia granché ciò che viene scritto nei libri di fiabe. Quelli di sangue reale di solito sposano altri di sangue reale. Si sente parlare solo di eccezioni come i Windsor, e sono spesso sui tabloid, non sui libri per bambini.»

«Quindi non credi nel romanticismo o nelle favole?»

«Sono due cose diverse. Le favole sono storie inventate.»

«E il romanticismo?»

Leo guardò in lontananza. «Il romanticismo è reale. Ma non tutti possono permetterselo.»

«Non riesco a immaginare di sposarmi per nient’altro che per amore. Che senso avrebbe?»

«Sicurezza finanziaria. Protezione. Dovere. Ecco perché la nobiltà si sposava in passato, così come nel presente. Molte persone comuni si sposano ancora per convenienza. L’amore romantico ha solo poche centinaia di anni.»

«Se ne scrive da millenni.»

«Ed ecco le favole.»

«Beh, allora è una fortuna che noi due siamo persone comuni e possiamo scegliere di sposarci per amore e non per dovere.»

«Sì. Siamo proprio fortunati.»

Una gola si schiarì alle loro spalle. Esme alzò lo sguardo per vedere il disapprovante Giles che la fissava ancora una volta.

«Le mie scuse, Esme, ma il dovere mi chiama.» C’era vero rammarico nella voce di Leo. «Devo tornare al lavoro. È stato bello conoscerti.»

Allungò la mano. Lei gli porse la sua. Aveva qualche briciola di torta sulla punta delle dita. Tentò di tirare indietro la mano nel tentativo di pulirla, ma Leo gliela fermò. Le girò il palmo e lo baciò.

Le farfalle esplosero nel ventre di Esme. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma aveva la lingua incollata al palato. E nel momento in cui il cervello riprese a funzionare, lui se n’era andato.

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