Read the book: «La Marcia Dei Re»
La Marcia dei re
(libro #2 in l’anello dello stregone)
Morgan Rice
Versione italiana a cura di
Annalisa lovat
Chi è Morgan Rice
Morgan è anche l’autrice della serie fantasy epica campione d’incassi L’ANELLO DELLO STREGONE, che comprende al momento dieci libri.
Morgan Rice è anche autrice best-seller di APPUNTI DI UN VAMPIRO, una serie per ragazzi che comprende al momento dieci libri e che è stata tradotta in sei lingue.
Morgan è anche autrice dei best-seller ARENA ONE e ARENA TWO, i primi due libri di THE SURVIVAL TRILOGY, un thriller d’azione post-apocalittico ambientato nel futuro.
Morgan ama ricevere i vostri commenti, quindi sentitevi liberi di visitare il sito www.morganricebooks.com per rimanere in contatto con lei.
Cosa hanno detto di Morgan Rice
“Rice fa un bel lavoro nel trascinarvi nella storia fin dall’inizio, utilizzando una grande qualità descrittiva che trascende la mera colorazione d’ambiente… Ben scritto ed estremamente veloce da leggere…”
--Black Lagoon Reviews (parlando di Tramutata)
“Una storia perfetta per giovani lettori. Morgan Rice ha fatto un lavoro eccellente creando un intreccio interessante … TURNED è rinvigorente e unico, possiede i classici elementi che si ritrovano in molte storie paranormali per ragazzi. TURNED è di facile lettura, ma estremamente veloce e incalzante… Lo raccomando a chiunque ami leggere piacevoli romanzi paranormali. Classificato PG.”
--The Romance Reviews (parlando di Tramutata)
“Mi ha preso fin dall’inizio e non ho più potuto smettere…. Questa storia è un’avventura sorprendente, incalzante e piena d’azione fin dalle prime pagine. Non esistono momenti morti.”
--Paranormal Romance Guild {parlando di Tramutata }
“Pieno zeppo di azione, intreccio, avventura e suspense. Mettete le vostre mani su questo libro e preparatevi a continuare ad innamorarvi”
--vampirebooksite.com (parlando di Tramutata)
“Un grande intreccio: questo è proprio il genere di libro che farete fatica a mettere giù la sera. Il finale lascia con il fiato sospeso ed è così spettacolare che vorrete immediatamente acquistare il prossimo libro, almeno per sapere cosa succede in seguito.”
--The Dallas Examiner {parlando di Amata}
“È un libro che può competere con TWILIGHT e DIARI DI UN VAMPIRO, uno di quelli che vi vedrà desiderosi di continuare a leggere fino all’ultima pagina! Se siete tipi da avventura, amore e vampiri, questo è il libro che fa per voi!”
--Vampirebooksite.com {parlando di Tramutata}
“Morgan Rice dà nuovamente prova di essere una narratrice di talento… Questo libro affascinerà una vasta gamma di lettori, compresi i più giovani fan del genere vampiresco/fantasy. Il finale mozzafiato vi lascerà a bocca aperta.”
--The Romance Reviews {parlando di Amata}
Libri di Morgan Rice
L’ANELLO DELLO STREGONE
UN’IMPRESA DA EROI (Libro #1)
LA MARCIA DEI Re (Libro #2)
IL BANCHETTO DEI DRAGHI (Libro #3)
A CLASH OF HONOR (Libro #4)
A VOW OF GLORY (Libro #5)
A CHARGE OF VALOR (Libro #6)
A RITE OF SWORDS (Libro #7)
A GRANT OF ARMS (Libro #8)
A SKY OF SPELLS (Libro #9)
A SEA OF SHIELDS (Libro #10)
THE SURVIVAL TRILOGY
ARENA ONE: SLAVERSUNNERS (Libro #1)
ARENA TWO (Libro #2)
APPUNTI DI UN VAMPIRO
TRAMUTATA (Libro #1)
AMATA (Libro #2)
TRADITA (Libro #3)
DESTINED (Libro #4)
DESIRED (Libro #5)
BETROTHED (Libro #6)
VOWED (Libro #7)
FOUND (Libro #8)
RESURRECTED (Libro #9)
CRAVED (Libro #10)
Ascoltate la serie L’ANELLO DELLO STREGONE in format audio-libro!
Ora disponibile su:
Copyright © 2013 by Morgan Rice
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This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental.
INDICE
CAPITOLO UNO
CAPITOLO DUE
CAPITOLO TRE
CAPITOLO QUATTRO
CAPITOLO CINQUE
CAPITOLO SEI
CAPITOLO SETTE
CAPITOLO OTTO
CAPITOLO NOVE
CAPITOLO DIECI
CAPITOLO UNDICI
CAPITOLO DODICI
CAPITOLO TREDICI
CAPITOLO QUATTORDICI
CAPITOLO QUINDICI
CAPITOLO SEDICI
CAPITOLO DICISSETTE
CAPITOLO DICIOTTO
CAPITOLO DICIANNOVE
CAPITOLO VENTI
CAPITOLO VENTUNO
CAPITOLO VENTIDUE
“È un pugnale ch'io vedo innanzi a me
col manico rivolto alla mia mano?...
Qua, ch'io t'afferri!...No, non t'ho afferrato...”
—William Shakespeare
Macbeth
CAPITOLO UNO
Re MacGil tornò incespicando fino alla propria stanza: aveva bevuto un po’ troppo. La stanza girava e la testa gli esplodeva per gli esagerati festeggiamenti della serata. Una donna di cui non conosceva il nome gli stava appesa al fianco, avvinghiata con un braccio attorno alla sua vita, mezza svestita, e lo conduceva ridacchiando verso il letto. Due servitori chiusero la porta alle loro spalle e si dileguarono con discrezione.
MacGil non sapeva dove fosse la sua regina, e per quella notte non gli importava. Ormai da tempo era raro che condividessero il letto: lei si ritirava spesso nella propria stanza, soprattutto in serate di festa, quando la cena durava troppo. Era al corrente delle debolezze di suo marito, ma non sembrava curarsene. Del resto era un Re, e i Re del ceppo MacGil avevano sempre comandata di diritto.
Ma mentre MacGil si dirigeva verso il letto la stanza continuava a ruotare troppo violentemente, e lui di colpo si scrollò la donna di dosso. Non era più dell’umore giusto per cose del genere.
“Vattene!” le ordinò, e la spinse via.
La donna rimase lì in piedi, stupefatta e ferita. La porta si aprì e i servitori tornarono, ognuno la afferrò per un braccio e insieme la condussero fuori. Lei protestò, ma le sue grida si smorzarono quando la porta venne richiusa dietro di lei.
MacGil si sedette sul bordo del letto e appoggiò la testa fra le mani, cercando di frenare quell’emicrania. Era insolito che gli venisse mal di testa così presto, prima ancora che le bevande fossero esaurite, ma quella sera era diverso. Era cambiato tutto così in fretta. La festa stava andando così bene: si era sistemato con della buona carne di prima scelta nel piatto e un vino forte, quando quel ragazzo, Thor, era arrivato a rovinare tutto. Prima la sua intromissione con quello stupido sogno; poi la sua audacia nel fargli cadere il calice dalle mani con un colpo.
Poi era arrivato quel cane che aveva leccato tutto dal pavimento, cadendo poi morto di fronte a tutti. MacGil ne era ancora scosso. La consapevolezza di ciò che era accaduto lo aveva colpito come una martellata: qualcuno aveva tentato di avvelenarlo. Di assassinarlo. Riusciva a malapena a farsene una ragione. Qualcuno aveva eluso la sorveglianza delle guardie e dei suoi assaggiatori di cibo e vino. Era stato ad un soffio dalla morte e la cosa lo scioccava ancora.
Ricordò come Thor era stato portato alle segrete e si stava ancora chiedendo se fosse stato l’ordine giusto da dare. Da una parte, ovviamente, non c’era modo che il ragazzo potesse sapere che il calice conteneva del veleno, a meno che non ve l’avesse messo lui stesso o fosse in qualche modo coinvolto nel crimine. Dall’altra parte sapeva che Thor possedeva profondi e misteriosi poteri – troppo misteriosi – e forse aveva detto la verità: forse aveva effettivamente avuto una visione nel suo sogno. Forse Thor gli aveva veramente salvato la vita e quindi MacGil aveva mandato in prigione l’unica persona realmente leale.
La testa di MacGil iniziò a battere ancora più forte a quel pensiero, mentre stava lì seduto strofinandosi la fronte troppo segnata dalle rughe e cercando di trovare una soluzione a tutto. Ma aveva bevuto troppo quella sera, la sua mente era troppo annebbiata, i suoi pensieri vorticavano e non riusciva a trovare una via d’uscita da quell’intricata situazione. Là dentro faceva troppo caldo, era un’afosa notte estiva, aveva il corpo surriscaldato da ore spese a mangiare e a bere e stava sudando.
Si tolse il mantello e lo gettò, poi si levò la tunica e rimase con nient’altro che la camicia addosso. Si asciugò il sudore dalla fronte e poi dalla barba. Si chinò e si tirò via i grandi e pesanti stivali, uno alla volta, sgranchendo le dita dei piedi quando le sentì libere a contatto con l’aria. Rimase lì seduto e respirò a fondo, cercando di recuperare l’equilibrio. La pancia gli si era gonfiata e gli pesava. Buttò le gambe in avanti e si lasciò cadere sulla schiena, appoggiando la testa sul cuscino. Sospirò e sollevò lo sguardo oltre il baldacchino, verso il soffitto, desiderando che la stanza smettesse di ruotare.
Chi potrebbe volermi morto? continuava a chiedersi. Aveva amato Thor come un figlio e una parte di sé sentiva che non poteva essere lui. Si chiese di chi altri si potesse trattare, che motivo ci potesse essere, e soprattutto se avrebbero ritentato. Era al sicuro? Era vero quello che gli aveva detto Argon?
MacGil sentì che le palpebre gli si stavano facendo pesanti e percepiva che la risposta si trovava appena fuori dal raggio d’azione della sua mente. Se i suoi pensieri fossero stati giusto un po’ più chiari, forse avrebbe capito tutto. Ma avrebbe dovuto aspettare la luce del giorno per convocare i suoi consiglieri, per aprire un’indagine. La domanda che aveva in mente non era chi lo volesse morto, piuttosto chi non lo volesse morto. La corte era piena zeppa di persone che bramavano il suo trono. Generali ambiziosi, membri del consiglio che agivano da abili manovratori, nobili e lord assetati di potere, spie, vecchi rivali, assassini mandati dai McCloud, e forse anche dalle Terre Selvagge. O forse qualcuno di ancora più vicino.
MacGil sbatté gli occhi mentre iniziava ad addormentarsi, ma qualcosa colpì la sua attenzione e questo bastò a non farglieli chiudere. Scorse del movimento, quindi si guardò in giro e si accorse che i suoi servitori non erano lì. Sbatté le palpebre confuso. I suoi servitori non lo lasciavano mai. In effetti non ricordava l’ultima volta che era rimasto solo in quella stanza. Non ricordava di aver ordinato loro di andarsene. Addirittura più strano: la porta era spalancata.
Proprio in quell’istante MacGil udì un rumore provenire dall’estremità opposta della stanza e si voltò a guardare. Lì qualcuno strisciava contro la parete fino ad emergere dall’ombra avanzando nella luce delle torce: era un uomo alto e magro che indossava un mantello nero con un cappuccio che gli copriva il volto. MacGil sbatté le palpebre diverse volte, chiedendosi se lo stesse veramente vedendo. All’inizio fu certo che si trattasse semplicemente delle ombre e della tremolante luce delle torce che giocava degli scherzi ai suoi occhi.
Ma un attimo dopo quella figura si era avvicinata di diversi passi e si stava dirigendo velocemente verso il suo letto. MacGil cercò di mettere a fuoco l’immagine in quella poca luce per capire di cosa si trattasse; iniziò istintivamente a tirarsi su a sedere e da esperto guerriero portò subito la mano alla vita cercando una spada, o almeno un pugnale. Ma si era spogliato e non c’erano armi da impugnare. Rimase seduto sul suo letto, disarmato.
La figura ora si muoveva rapidamente, come un serpente nella notte, avvicinandosi sempre di più, e mentre MacGil si sedeva, riuscì a dare un’occhiata al suo volto. La stanza stava ancora ruotando e l’oscurità gli impediva di capire chiaramente, ma per un momento avrebbe potuto giurare che sotto quel cappuccio ci fosse il volto di suo figlio.
Gareth?
Il cuore di MacGil venne sommerso da un’improvvisa ondata di panico mentre si chiedeva cosa diavolo ci facesse lì, senza essersi fatto annunciare, così tardi nella notte.
“Figlio?” chiamò.
MacGil vide l’intento di morte nei suoi occhi e questo gli bastò: si preparò a balzare dal letto.
Ma l’altro si muoveva troppo velocemente. Scattò in azione, e prima che MacGil potesse alzare una mano per difendersi, alla luce della torcia baluginò un riflesso metallico e subito, troppo in fretta, una lama fendette l’aria e gli affondò nel cuore.
MacGil gridò, un profondo e lugubre grido d’angoscia, e il suono della sua voce sorprese lui stesso. Era un grido di battaglia, del genere che aveva udito troppe volte. Era il grido di un guerriero ferito a morte.
MacGil sentì il metallo freddo che gli si infilava tra le costole, trapassandogli il muscolo e mescolandosi con il suo sangue. La lama veniva spinta a fondo, sempre più a fondo. Era il dolore più intenso che avesse mai immaginato: sembrava penetrargli nel corpo all’infinito. Sussultò con forza e sentì il sangue caldo e salato che gli riempiva la bocca, sentì l’intensità del proprio respiro che accelerava. Si sforzò di sollevare lo sguardo davanti a quel volto che si nascondeva sotto il cappuccio. Si sorprese: si era sbagliato. Non era il viso di suo figlio. Era qualcun altro. Qualcuno che riconobbe. Non riuscì a ricordare chi fosse, ma era qualcuno della sua cerchia. Qualcuno che assomigliava a suo figlio.
La sua mente brancolò nella confusione mentre tentava di dare un nome a quella faccia.
Mentre quella figura stava in piedi sopra di lui, tenendo saldo il pugnale, MacGil in qualche modo riuscì a sollevare una mano e premerla sulla spalla dell’uomo, nel tentativo di fermarlo. Sentì esplodere in sé la forza del vecchio guerriero, la forza dei suoi antenati. Percepì quella parte di sé per cui era Re e per cui non si sarebbe arreso. Con una spinta fortissima riuscì a spingere indietro il suo assassino.
L’uomo era magro, più fragile di quanto MacGil pensasse, e incespicò indietro con un grido, attraversando la stanza. MacGil riuscì ad alzarsi e, con sforzo estremo, si estrasse il coltello dal petto. Lo gettò attraverso la stanza mandandolo a colpire il pavimento di pietra con un clangore metallico: l’arma scivolò sul pavimento fino ad andare a sbattere contro la parete lontana.
L’uomo, il cui cappuccio era ricaduto sulle spalle, balzò in piedi e lo fissò con gli occhi sgranati per la paura mentre MacGil avanzava verso di lui. L’uomo si voltò e iniziò a correre, fermandosi solo per recuperare il coltello prima di darsela a gambe.
MacGil tentò di inseguirlo, ma l’uomo era troppo veloce e improvvisamente il dolore crebbe, trafiggendogli il petto. Si sentì debole.
Rimase lì in piedi, solo nella stanza, e guardò in basso il sangue che gli usciva dal petto bagnadogli il palmo della mano. Crollò in ginocchio.
Sentiva freddo, si chinò in avanti e cercò di chiamare aiuto.
“Guardie,” disse debolmente.
Fece un respiro profondo e con suprema agonia riuscì a raccogliere la sua voce più profonda. La voce del Re di un tempo.
“GUARDIE!” gridò.
Udì dei passi che provenivano da qualche lontano corridoio e che lentamente si avvicinavano. Sentì una porta che si apriva in lontananza, percepì dei corpi che gli si avvicinavano. Ma la stanza iniziò di nuovo a ruotare, e questa volta non certo per il bere.
L’ultima cosa che vide fu il freddo pavimento di pietra che saliva verso di lui per schiantarsi contro il suo volto.
CAPITOLO DUE
Thor afferrò la maniglia di ferro dell’enorme porta in legno che gli stava davanti e tirò con tutte le sue forze. Questa si aprì lentamente, scricchiolando e svelandogli la camera del Re. Fece un passo avanti, sentendo i peli rizzarsi sulle braccia mentre attraversava la soglia. Percepiva una densa oscurità in quel luogo, sospesa nell’aria come una sorta di nebbia.
Thor avanzò di parecchi passi nella stanza, udendo il crepitio delle torce appese ai muri mentre si dirigeva verso un corpo che si trovava a terra, accasciato. Aveva già il presentimento che si trattasse del Re, che fosse stato assassinato e che lui, Thor, fosse quindi arrivato troppo tardi. Non poteva fare a meno di chiedersi dove fossero tutte le guardie, perché nessuno fosse lì per salvare il sovrano.
Le ginocchia gli si fecero più molli mentre compiva gli ultimi passi verso il corpo. Si inginocchiò sulla pietra, afferrò la spalla già fredda e girò il corpo.
Lì giaceva MacGil, il suo Re, steso con gli occhi aperti, morto.
Thor sollevò lo sguardo e improvvisamente vide un servitore del Re stargli vicino. Reggeva in mano un grande calice ricoperto di pietre preziose, lo stesso che – Thor lo riconobbe – aveva visto alla festa, fatto di oro massiccio e tempestato da file di rubini e zaffiri. Mentre guardava Thor, il servitore ne versò lentamente il contenuto sul petto del Re. Il vino rimbalzò e schizzò completamente sul volto di Thor.
Thor udì uno stridio e voltandosi vide il suo falco, Estofele, appollaiato sulla spalla del Re a leccare il vino dalla sua guancia.
Sentì poi un rumore e si voltò dall’altra parte: lì di fronte a lui c’era Argon che lo guardava severamente. In una mano teneva la corona, luccicante. Nell’altra il suo bastone.
Argon avanzò e pose la corona saldamente sulla testa di Thor. Thor ne sentì il peso, la sua circonferenza calzargli perfettamente attorno alla testa, comoda, il metallo che gli cingeva le tempie. Sollevò lo sguardo interrogativo verso Argon.
“Sei tu il Re adesso,” sentenziò lui.
Thor sbatté le palpebre, e quando riaprì gli occhi di fronte a lui si trovavano tutti i membri della Legione, dell’Argento, centinai di uomini e ragazzi accalcati nella stanza, tutti con gli occhi puntati su di lui. Tutti insieme si inginocchiarono, si inchinarono di fronte a lui, i volti a pochi centimetri da terra.
“Nostro Re,” disse un coro di voci.
Thor si svegliò di soprassalto. Si mise a sedere con il fiato lungo e guardandosi attorno. Era buio là dentro, e umido. Capì che si trovava seduto su un pavimento di pietra con la schiena alla parete. Strizzò gli occhi nell’oscurità, vide delle sbarre di ferro in lontananza e al di là il bagliore di una torcia. Poi ricordò: le segrete. Lo avevano trascinato laggiù dopo a festa.
Ricordava quella guardia che l’aveva colpito con un pugno in faccia, e comprese che doveva essere rimasto privo di conoscenza per chissà quanto tempo. Rimase seduto, respirando affannosamente e cercando di eliminare quell’orribile sogno. Era sembrato così reale. Pregò perché non fosse vero, che il Re non fosse realmente morto. Quell’immagine del Re morto era stampata nella sua mente. Aveva veramente avuto la visione di qualcosa? O era tutto semplicemente frutto della sua immaginazione?
Thor sentì un calcio contro la pianta del piede, e alzando lo sguardo vide una figura in piedi accanto a lui.
“Era ora che ti svegliassi,” disse una voce. “Sono ore che aspetto.”
Nella luce soffusa Thor scorse il volto di un ragazzo, probabilmente della sua età. Era magro e basso, con guance scavate e la pelle butterata; ciononostante sembrava che qualcosa di gentile e intelligente brillasse nei suoi occhi verdi.
“Sono Merek,” disse. “Il tuo compagno di cella. Perché ti hanno sbattuto dentro?”
Thor restava seduto e cercava di mantenere la concentrazione su di lui. Si appoggiò con la schiena alla parete, si passò le mani tra i capelli e tentò di ricordare, di rimettere insieme i pezzi.
“Dicono che hai cercato di uccidere il Re,” continuò Merek.
“È vero, ha tentato di ucciderlo e noi lo faremo a pezzi se mai verrà fuori da quelle sbarre,” ringhiò una voce.
Un frastuono metallico eruppe, generato da tazze di latta che sbattevano contro le sbarre, e Thor vide che l’intero corridoio era pieno di celle dove si trovavano prigionieri il cui aspetto appariva grottesco nel baluginio delle torce, e che ghignavano rivolti a lui. La maggior parte aveva la barba incolta e parecchi denti mancanti, e di alcuni si sarebbe potuto dire che si trovavano lì sotto da anni. Era una vista orribile e Thor si sforzò di distogliere lo sguardo. Era veramente là sotto? Sarebbe rimasto bloccato lì, con quella gente, per sempre?
“Non preoccuparti di loro,” disse Merek. “Ci siamo solo tu e io in questa cella. Loro non ci possono entrare. E a me non può fregare di meno se hai avvelenato o no il Re. Lo vorrei avvelenare io stesso.”
“Non ho avvelenato il Re,” disse Thor indignato. “Non ho avvelenato nessuno. Stavo cercando di salvarlo. Tutto quello che ho fatto è stato sbattere a terra il suo calice.”
“E come facevi a sapere che il calice era avvelenato?” gridò una voce dal fondo del corridoio. “Magia, suppongo.”
Poi giunse un coro di risate ciniche che animarono tutte le celle.
“È un sensitivo!” gridò uno dei prigionieri con tono canzonatorio.
Gli altri risero.
“No, ha solo indovinato per fortuna!” tuonò un’altra voce, per ulteriore gioia degli altri.
Thor si accigliò, risentito per quelle accuse e desideroso di dar loro il benservito. Ma sapeva che sarebbe stato uno spreco di tempo. E inoltre non aveva i mezzi per difendersi contro quei malviventi.
Merek lo studiò, con sguardo che non era scettico quanto quello degli altri. Sembrava fosse dibattuto.
“Io ti credo,” disse sottovoce.
“Davvero?” gli chiese Thor.
Merek scrollò le spalle.
“Del resto, se veramente avessi avuto l’intenzione di avvelenare il Re, saresti stato poi così stupido da farglielo sapere?”
Merek si voltò e si allontanò di qualche passo verso la sua parte di cella, si appoggiò alla parete e si sedette guardando Thor.
Ora Thor era curioso.
“E tu per cosa sei dentro?” chiese.
“Sono un ladro,” rispose Merek con un certo orgoglio.
Thor rimase sconcertato: prima d’ora non si era mai trovato di fronte a un ladro, di fronte a un vero ladro. Lui stesso non aveva mai neanche avuto il pensiero di rubare, e si era sempre stupito del fatto che qualcuno lo facesse.
“Perché lo facevi?” chiese Thor.
Merek scrollò le spalle.
“La mia famiglia non ha cibo. Dovevamo mangiare. Io non ho avuto nessuna educazione e non mi è stato insegnato nessun mestiere. So solo rubare. Niente di grosso. Per lo più roba da mangiare. Qualsiasi cosa utile per farli sopravvivere. Sono andato avanti così per anni. Poi mi hanno beccato. A dire il vero questa è la terza volta che mi prendono. La terza volta è la peggiore.”
“Perché?” gli chiese Thor.
Merek rimase in silenzio, poi scosse lentamente la testa. Thor poté vedere che gli occhi gli si riempivano di lacrime.
“La legge del Re è severa. Non ci sono eccezioni. Alla terza offesa ti tagliano una mano.”
Thor era disgustato. Guardò le mani di Merek: erano entrambe lì.
“Non sono ancora venuti da me,” disse Merek. “Ma lo faranno.”
Thor provò immensa pietà. Merek distolse lo sguardo e anche Thor guardò da un’altra parte, cercando di non pensarci.
Thor si prese la testa, che gli faceva male da morire, fra le mani e cercò di dare ordine ai propri pensieri. Gli ultimi giorni gli ruotavano in mente come un vortice, tante erano le cose che erano accadute così in fretta. Da una parte provava un senso di vittoria e di discolpa: aveva visto il futuro, aveva previsto l’avvelenamento di MacGil e lo aveva salvato. Forse il fato, dopotutto, poteva essere modificato, era possibile piegare il destino. Thor si sentiva orgoglioso: aveva salvato il Re.
Dall’altra parte, eccolo lì, nelle segrete, incapace di trarsi d’impaccio. Tutte le sue speranze e i suoi sogni erano andati in pezzi, sfumata ogni possibilità di far parte della Legione. Ora sarebbe stato fortunato se non avesse trascorso là sotto il resto dei suoi giorni. Era addolorato al pensiero che MacGil, che aveva accolto Thor come un padre – l’unico vero padre che avesse mai avuto – pensasse che lui avesse veramente tentato di ucciderlo. Lo addolorava pensare che Reece, il suo migliore amico, potesse credere che lui avesse voluto uccidere suo padre. O, ancora peggio, Gwendolyn. Ripensò al loro ultimo incontro, a come lei pensasse che lui fosse un frequentatore di bordelli, e si sentì come se fosse stato privato di tutto ciò che di buono c’era nella sua vita. Si chiese perché gli stesse accadendo tutto ciò. Del resto lui aveva solo voluto fare del bene.
Thor non sapeva cosa ne sarebbe stato di lui, e non gliene importava niente. Tutto ciò che voleva ora era dichiarare la sua innocenza, far sapere alla gente che non aveva tentato di fare del male al Re, che i suoi erano poteri reali e che veramente era in grado di vedere il futuro. Non sapeva cosa ne sarebbe stato di lui, ma una cosa sapeva per certo: doveva uscire di lì. In un modo o nell’altro.
Prima che Thor potesse completare il suo pensiero si udirono dei passi, pesanti stivali che avanzavano dal fondo del corridoio. Si sentì anche il tintinnare di chiavi e dopo pochi istanti apparve un robusto carceriere, l’uomo che aveva trascinato Thor lì e l’aveva colpito al volto. Al solo vederlo Thor avvertì di nuovo il dolore alla guancia, ne fu consapevole per la prima volta e provò insieme un senso di repulsione.
“Bene, ecco qui il mostriciattolo insignificante che ha cercato di uccidere il Re,” disse il secondino, mentre con sguardo accigliato ruotava la chiave di ferro nella serratura. Dopo numerosi scatti risonanti fece scorrere la porta della cella. Teneva in una mano i ceppi e una piccola accetta gli penzolava dalla cintura.
“Avrai ciò che ti meriti,” disse con un ghigno rivolgendosi a Thor, poi si voltò verso Merek, “ma ora tocca a te, ladruncolo. La terza volta,” aggiunse con un sorriso malvagio, “non ci sono eccezioni.”
Si lanciò contro Merek, lo afferrò con forza, gli strattonò un braccio dietro la schiena, vi strinse attorno i ceppi e fissò poi l’altra estremità ad un uncino attaccato al muro. Merek gridò, tirando selvaggiamente il ceppo e cercando di liberarsi, ma fu inutile. La guardia si portò dietro di lui e lo afferrò, tenendolo in un saldo abbraccio; prese poi il braccio libero e lo posizionò sul piano di pietra.
“Questo ti insegnerà a non rubare,” ringhiò.
Prese l’accetta dalla cintura e la sollevò alta sopra la testa, tenendo la bocca completamente aperta digrignando i suoi orrendi denti mentre ringhiava.
“NO!” gridò Merek.
Thor rimase seduto, terrorizzato e pietrificato mentre il carceriere lasciava scendere la sua arma verso il polso di Merek. Thor se ne rese conto in una frazione di secondo: la mano di quel povero ragazzo sarebbe stata tagliata, per sempre, per nessun’altra ragione che per il suo futile rubacchiare cibo per dar da mangiare alla sua famiglia.
Quell’ingiustizia gli bruciava dentro e sapeva di non poter permettere una cosa del genere. Non era giusto e basta.
Thor sentì che il corpo gli si scaldava, e poi avvertì un bruciore interno che risaliva dai piedi e gli scorreva fino alle mani. Percepì il tempo che rallentava, sentì che i suoi movimenti erano più rapidi di quelli del guardiano, percepì ogni singola frazione di secondo mentre l’accetta dell’uomo era sospesa a mezz’aria. Thor provò un’energia bruciante prendere la forma di una palla nelle proprie mani e la scagliò contro il carceriere.
Guardò con stupore la sfera gialla che si staccava dal suo palmo e volava fendendo l’aria e illuminando la buia cella con la sua scia, diretta verso il volto del carceriere. Lo colpì alla testa e lui lasciò cadere l’accetta e venne scagliato dall’altra parte della cella andando a sbattere contro la parete e collassando poi a terra. Thor salvò Merek un’istante prima che la lama gli raggiungesse il polso.
Merek guardò Thor con gli occhi sgranati.
L’uomo scosse la testa e iniziò a rialzarsi in piedi per catturare Thor. Ma Thor sentiva il potere che gli ardeva nel corpo, e quando l’uomo si fu rimesso in piedi di fronte a lui, corse in avanti, saltò in aria e gli stampò un calcio nel petto. Thor si sentiva pervaso da un potere mai percepito prima e udì uno scricchiolio quando il suo calcio spedì il guardiano in aria, sbattendolo di nuovo contro la parete, dalla quale si afflosciò poi a terra, questa volta veramente privo di conoscenza.
Merek rimase lì in piedi, scioccato, e Thor seppe esattamente cosa doveva fare. Afferrò l’accetta, corse a prendere il ceppo che teneva Merek fissato al muro e lo tagliò. Una fontana di scintille volò in aria quando la catena venne spezzata. Merek trasalì, poi sollevò la testa e guardò la catena penzolante, rendendosi conto che era libero.
Guardò Thor a bocca aperta.
“Non so come ringraziarti,” disse. “Non so come tu abbia fatto una cosa del genere, qualsiasi cosa sia stata. Non so chi tu sia – o cosa tu sia – ma mi hai salvato la vita. Di devo un favore. E non è certo una cosa che prenderò alla leggera.”
“Non mi devi nulla,” disse Thor.
“Sbagliato,” disse Merek, stringendo l’avambraccio di Thor. “Ora sei un mio fratello. E ti ripagherò. In qualche modo. Un giorno.”
Detto questo Merek si voltò, si affrettò ad aprire la porta della cella e corse lungo il corridoio tra le grida degli altri prigionieri.