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Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta

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Il premio destinato al vincitore era un elmetto riccamente guernito, con una vittoria d'argento per cimiero, che in una mano teneva una palma d'oro, e coll'altra reggeva il pennacchio dell'elmo; opera di cesello di mano di Raffaello del Moro, valente artefice fiorentino. Stava innalzato sulla punta d'una lancia fitta presso l'entrata onde erano venuti i tre baroni spagnuoli.

Bajardo, lo specchio e l'onore del mestier dell'armi, fu il primo a comparire in lizza, cavalcando un bel bajo di Normandia balzano di tre piedi coi crini neri; le belle fattezze del destriere erano, secondo l'uso del tempo, nascoste da una grandissima gualdrappa che lo copriva dalle orecchie alla coda, tinta di un verde chiaro attraversato da sbarre vermiglie, coll'impresa del cavaliere ricamata sulla spalla e sul fianco, e finiva da piede in drappelloni che giungevano al ginocchio del cavallo. Sulla testa e sulla groppa svolazzavano mazzi di penne de' medesimi colori; che si vedevano pur ripetuti alla banderuola della lancia, ed al pennacchio dell'elmo. La struttura del cavaliere non aveva in sè nulla di straordinario, ed anzi, per quanto si poteva giudicare sotto l'arnese, non annunziava il vigore ordinario agli armeggiatori di quell'epoca. Venne avanti, atteggiando il cavallo che, leggermente tentato dallo sprone, e rattenuto dal freno, si raggruppava e procedeva scalpitando, e volgendo or qua or là il collo e la groppa formata in arco, e colla coda ondeggiante sferzava e sollevava la rena.

Venne a fermarsi rimpetto a Donna Elvira, e dopo averla salutata abbassando la lancia, percosse con quella tre colpi sullo scudo di Inigo. Prendendola poi colla sinistra che già reggeva e briglia e scudo, pose mano all'azza che gli pendeva dall'arcione e ne percosse due volte lo scudo a Correa; e ciò volea dire che chiedeva al primo tre colpi di lancia ed al secondo due d'azza. Fatta la qual cosa, tornò all'entrata dell'anfiteatro.

Si trovò Inigo nello stesso tempo al suo luogo dirimpetto, entrambi colla lancia alla coscia e la punta in aria. Bajardo, che sin allora aveva tenuta alzata la visiera mostrando il volto coperto d'estremo pallore, pel quale molto si maravigliava ognuno che volesse e potesse combatter quel giorno, se la fece abbassare e chiudere dal suo scudiere, dicendogli che malgrado la quartana (ed in fatti da quattro mesi lo travagliava) aveva fiducia di non vituperare quel giorno l'armi francesi.

Al terzo squillo di tromba parve che un solo spirito animasse i due guerrieri ed i loro cavalli. Curvarsi sulla lancia, dar di sprone, partir di carriera colla rapidità del volo, furono cose simultanee, ed ambi i cavalieri le eseguirono con pari furia e rovina. Inigo mirò all'elmo dell'avversarjo; colpo sicuro, ma non facile; poi quando gli fu presso, pensò che al cospetto di tale adunanza era meglio tentar cosa che non potesse andargli fallita, e si contentò di rompergli l'asta allo scudo. Il cavalier francese, che era l'uomo forse più destro di quel tempo nel maneggio dell'armi, pose con tanta sicurezza la mira alla visiera d'Inigo, che se fossero stati fermi non avrebbe potuto colpirlo meglio. L'elmetto mandò faville, l'asta si ruppe a due braccia dal calce, e lo Spagnuolo si torse tanto sul lato sinistro ove pure gli era uscita la staffa, che quasi accennò cadere. Così l'onore di questo primo scontro rimase a Bajardo.

Seguitarono i due campioni la corsa per venirsi ad incontrar dall'altro lato; ed Inigo, gettato con istizza il troncone, arraffò nel passare un'altra lancia.

Alla seconda prova riuscirono i colpi uguali, ed Inigo in cuor suo potè forse dubitar che la cortesia del cavalier francese fosse la cagione che non gli permettesse di adoprar la sua maestria interamente. Alla terza corsa, questo dubbio divenne certezza. Inigo ruppe la lancia alla vista del suo nemico, e questi gli sfiorò appena la guancia col ferro, e si conobbe che il fallo non era involontario. Sonaron le trombe e gli evviva, e gli araldi proclamarono uguale il valore dei combattenti, che andarono uniti sotto il palco di Donna Elvira a farle riverenza: mentre ella gli accoglieva con parole di lode, non n'era avaro Consalvo, nè il duca di Nemours, che diceva ai campioni: Chevaliers, c'est bel et bon.

Inigo era di que' tali che in ogni altra cosa potranno esser vinti, ma non mai in generosità. Volle perciò far palese la cortesia usatagli da Bajardo: questi colla modestia che sempre è compagna alla virtù, negava risolutamente dicendo di aver fatto il potere. A questa gara di cortesia, disse Consalvo: – Dalle vostre parole, cavalieri, può nascer il dubbio chi di voi oggi abbia meglio corsa la lancia; ciò che però non è dubbio, si è che non sono al mondo i più nobili, i generosi di voi.

CAPITOLO DECIMOTERZO.

Al suono delle trombe comparve Correa armato d'azza e d'un piccolo scudo rotondo, per rispondere all'appello di Bajardo, che scavalcato risalì su un cavallo fresco e si preparò al combattimento: mossero i due avversarj l'uno contra l'altro non più lanciando i cavalli a tutta briglia, ma col contrasto del freno e degli sproni tenendoli a un mezzo galoppo fin che furono vicini. In questa zuffa la velocità della carriera non serviva, come nel correre la lancia, ad accrescere impeto ai colpi. La loro virtù nasceva più assai dal vigor del braccio, ed in gran parte dal saper governare in modo il cavallo che impennandosi facesse a tempo una volata ricadendo sulle zampe d'avanti; il momento della ricaduta era scelto dal cavaliere per calare il colpo, col quale si cercava per solito di ferire sull'elmo il nemico, e quando ciò veniva fatto a tempo, era tale la percossa, che difficilmente vi si reggeva. Al primo incontro, i due cavalli benissimo avvezzi ed ammaestrati, s'alzarono e ricaddero insieme, onde i guerrieri coperti dagli scudi non poteron colpirsi e passaron oltre. Al secondo, succedette lo stesso. Conosciuto Bajardo il fare dell'avversarjo, mosse la terza volta con maggior furia, e Correa dovè far lo stesso; ma quando si trovaron quasi a fronte, il Francese fermò a un tratto sulle groppe il cavallo nel punto che il suo nemico non aspettando tal cosa avea levato in aria il suo credendo vibrare il colpo, ma ricadde senza averlo potuto. Bajardo colse con incredibil prestezza il momento, alzò l'azza a due mani, diede di sprone, e ritto sulle staffe calò sull'elmo di Correa un grandissimo fendente che lo piegò sul collo al cavallo, e quando gli spettatori aspettavano che si rizzasse, invece venne a terra stordito e dai suoi scudieri fu portato fuor dell'arena. Bajardo uscì anch'esso salutando il balcone di Donna Elvira fra gli evviva di tutto l'anfiteatro ed i suoni che celebravano la sua[Pg 138] vittoria. Dovette però tornar tosto indietro e combattere Azevedo, che, fattosi avanti, s'offeriva fornire la sfida in luogo del suo compagno. La zuffa durò più a lungo e con varia fortuna: pure fu giudicato averne la meglio il cavaliere francese.

Presso all'entrata, fuori dell'anfiteatro erasi accomodato un luogo chiuso da uno steccato ove potessero i cavalieri che volevan combattere, tenervi i cavalli, i famigli ed armarsi. Consalvo avea provveduto che vi trovassero quanto era loro mestieri. V'eran più tavole per deporvi le armi, un fabbro con una fucinetta portatile, se mai si fosse dovuto racconciare qualche parte d'arnese, e finalmente una credenza fornita di vivande e di vini. A Brancaleone era dato il carico di badare che nulla mancasse, e fossero prestati que' servigi che occorrevano.

Mentre egli attendeva a questa bisogna, Grajano d'Asti da lui conosciuto, per averlo visto quando con Fieramosca portò il cartello al campo francese, giunse con due scudieri che recavan l'arme, e conducevano il suo caval da battaglia. Brancaleone che, secondo l'usanza sua, avea sino a quel punto parlato pochissimo, si fece incontro a Grajano, e l'accolse con più parole e meglio che non soleva; e chi l'avesse avuto in pratica, vedendo i suoi modi in quest'occasione, avrebbe conosciuto che qualche occulto fine lo moveva a cercar d'affiatarsi con costui; in fatti aveva un fine, e d'importanza, come si vedrà a suo luogo.

Dopo le prime accoglienze e proferte di servigi, e dopo averlo accomodato di quanto poteva occorrergli, si trattenne a parlar seco mentre i suoi scudieri l'ajutavano spogliar i ricchi panni ond'era vestito per indossar farsetto e calzoni di pelle stretti alla carne, sui quali poi si adattava l'arnese.

Quello di Grajano era una bella armatura a striscie dorate sull'acciajo brunito, ed era disposto su una tavola a pezzi. L'osservava Brancaleone parte per parte con grande studio, e, preso in mano il petto per ajutare affibbiarlo addosso al cavaliere, osservò che era fatto di due lame d'acciaio, e lo giudicò impenetrabile: la panziera era doppia e d'ugual fortezza; tolse in mano i bracciali, i cosciali e gli schinieri, e come pratico conobbe che potevano resistere ad ogni prova. Mentre faceva questa rivista, un osservatore sagace avrebbe scorto sulla sua fronte un tal che di strano, e nella bocca un certo ghigno; ma non v'era chi badasse a lui in quel momento. Infine restava a porre la barbuta soltanto, e Brancaleone, avendola presa e guardata, s'accorse che non corrispondeva in bontà al rimanente; domandò a Grajano se usava forse portar sotto una cuffia o cervelliera di ferro, e venendogli risposto di no, l'interrogava perchè, servendosi d'armi cotanto salde pel resto del corpo, non cercasse con precauzioni eguali di difendere il capo.

– Perchè – rispose Grajano – all'assalto di un castelluccio che valeva tre quattrini (e quel pazzo del duca di Montpensier s'era incocciato che si prendesse) mentre avevo appoggiato una scala per salire, un di quei villani abruzzesi che lo difendevano mi lasciò cader sul capo un sasso, che venuto giù per punta ammaccò l'elmo e mi fece un buco nel capo che si chiuderà, credo, interamente, quando vi getteranno su una palata di terra, e vedi qua! —

 

In così dire gli prese la mano e portandosela sul capo gli facea tastare col dito una tacca in mezzo al cranio, per la quale si conosceva che non avrebbe retto una barbuta più grave di quella.

– Per questa ferita, impiccato sia chi me la diede, ho perduto di bei ducati; chè dovetti lasciar re Carlo, e restarmene per più mesi a Roma a farmi curare. È vero – soggiungeva ridendo – che in quell'occasione mi levai l'impaccio d'una certa moglie… onde ci fu un po' di male e un po' di bene. Poi m'acconciai per aver soldo con quello sciaurato del Valenza; finchè, come Dio volle, mi son tornato coi Francesi; e con loro almeno sulla condotta non ci piove e non ci nevica, e ad ogni fin di mese snocciolano fiorini, come il banco Martelli di Firenze.

– Ma quest'elmetto – soggiungeva Brancaleone – come reggerebbe ad un buon fendente?

– Oh! – rispose l'altro – di questo non ho un pensiero. Prima è acciaio di Damasco e di una tempra che non v'è al mondo la migliore; e poi ti so dire che quando in battaglia mi accorgo che mi si vuoi cacciar le mosche dal capo, m'ajuto collo scudo in modo che è bravo chi m'arriva: vedi (e gli mostrava lo scudo e la correggia colla quale s'attaccava al collo), vedi come la tengo, lunga per avere spedito il braccio. —

Brancaleone non disse altro, guardò di nuovo ben bene la barbuta volgendola da tutti i lati, e facendola sonare colle nocche delle dita con un certo fare tutto suo; poscia apertala, l'adattò egli stesso al cavaliere.

In questo frattempo erasi combattuto fra i tre Spagnuoli e Bajardo nel modo che si è narrato. Questi, vinto ch'egli ebbe, venne ove Grajano appunto avea finito d'armarsi, e stava per montar a cavallo. Il cavaliere astigiano disse al vincitore qualche cortese parola, e vedendo che Brancaleone non badava loro, gli domandò quanto valessero gli avversarj.

Bajardo toltisi i guanti di ferro e l'elmetto li deponea sulla tavola asciugandosi il sudore, e diceva:

– Don Inigo de Ayala, bonne lance, foy de chevalier. —

Ed anche agli altri accordava quelle lodi che credeva meritassero; diede al guerriero che usciva a combattere alcuni avvisi sul modo di governarsi, che non andaron perduti.

Entrò nell'arena Grajano bene a cavallo su un gran destriere morello coperto d'una gualdrappa color d'arancio, ed un araldo gridò ad alta voce il suo nome; dopo di che, il cavaliere andò sotto il palco di Consalvo, e percosse colla lancia tre volte gli scudi d'Azevedo e d'Inigo: un fremito interno ed involontario scosse ogni fibra di Fieramosca quando udì pronunziare quel nome. Si rinnovò il rimorso d'aver taciuto a Ginevra ch'egli era vivo; e come l'uomo è tanto più atto a far buoni propositi quanto più nè scorge remota l'esecuzione, stabilì di nuovo di svelarle tutto alla prima occasione.

Intanto si cominciò a combattere: ed il guerriero piemontese, che per robustezza e maestria nell'armeggiare era contato fra' primi, ottenne deciso vantaggio sopra Azevedo, benchè non riuscisse a scavalcarlo: ed anche con Inigo si portò in maniera che il giudizio d'ognuno rimase in favor suo. Dopo di lui si provarono molti Francesi, il signor De la Palisse, Chandenier, Obignì, e La Motta che, stizzito pel contrasto avuto con Diego Garcia circa il combattere il toro, quel giorno fece maraviglie.

Per dire il vero i tre Spagnuoli, che avean preso a difender il campo, ebber la peggio, e dovettero accorgersi che porsi tre soli di loro contra le migliori spade dell'esercito francese era un'impresa troppo maggiore delle lor forze. Rimanevano però ancora in sella Inigo ed Azevedo; e Grajano, che già gli aveva combattuti una volta, si mosse di nuovo contro di loro. La stanchezza ch'essi provavano del tanto combattere gli giovò forse in parte; comunque sia, a lui toccò la fortuna di finir la guerra abbattendoli l'uno dopo l'altro, e fu dichiarato vincitore della giostra. Ricevè dalle mani di Donna Elvira il ricco elmetto, premio della vittoria, al suono degli stromenti, e fra gli applausi universali. Finita in tal modo la festa, s'alzò Consalvo, e colla figlia, il capitano di Francia e tutta la baronia ritornava alla rocca, ove avvicinandosi l'ora del convito si stava allestendo la mensa. La piazza e l'anfiteatro furon presto vuoti di spettatori, che tutti, forestieri e terrazzani, andarono quali alle lor case, quali alle osterie, ed a quella in specie di Veleno, che era delle avvantaggiate, riposarsi e pranzare, trattenendosi delle varie fortune di quella giostra.

Ginevra, la mattina di questo giorno in cui la fortuna le preparava acerbissimi colpi, si svegliò un'ora più tardi che non soleva. Travagliata sempre con maggior forza da' suoi pensieri presso all'alba soltanto avea potuto prender sonno: sonno agitato da cento fantastiche immagini. Ora le si rappresentava Fieramosca ferito, coll'occhio moribondo, in atto di raccomandarsele; ora le pareva mirarlo vittorioso, cinto di gloria, fra baroni, e che, torcendo lo sguardo con disprezzo da lei, lo volgesse ad altra donna porgendole la destra. E pur dormendo diceva per racquetarsi: Felice me che ciò non sia altro che un sogno! ma pure tremava parendole persine di udire i suoni di festa che celebravano le nozze d'Ettore, le campane, lo sparo delle artiglierie; ed alfine il loro fragore le percosse talmente l'orecchio che si riscosse a un tratto, aprì gli occhi e volgendoli al balcone dal quale si scorgeva Barletta, s'accorse che se tutto il rimanente era stato sogno, non lo era però il fragore che l'era venuto all'orecchio. Si pose seduta sul letto, e cavando di sotto le coltri un piede piccoletto, rotondo e bianco come il latte, lo nascose in una pianelletta vermiglia, mentre s'infilava sulla camicia una veste azzurra, mandandosi dietro le orecchie colle due mani i lunghi capelli castagni.

Venne a seder sotto i pampini del balcone, mirando cogli occhi abbagliati dalla luce d'un cielo sereno e limpido il quadro maestoso che s'offriva a' suoi sguardi.

Il sole levato già da un pajo d'ore illuminava di faccia il lido, la città e la rocca: fra le torri e gli spaldi rossicci parevano tratto tratto crearsi in un subito globi di fumo color di perla, attraversati da rapide lingue di fuoco, ed ai raggi solari splendevano d'una luce candidissima, rivolgendosi in mille giri che salivano dileguandosi nell'azzurro del cielo; dopo alcuni istanti giungeva lo scoppio che ripercosso dall'onde s'udiva rinascere fra le rupi del lido e si perdeva a poco a poco in un eco lontano fra l'ultime gole de' monti. La rocca e la città, velata ora dal fumo, che presto era poi dissipato dalla brezza marina, si specchiavano nella tinta cerulea del mare in bonaccia, e talmente piano, che la loro immagine rovesciata si riproduceva tremola, ma intera, nell'acque.

Il suono delle campane e degli stromenti giugneva or più forte or più debole secondo il soffiar del vento; e nella quiete del monastero si potevan persino distinguere a momenti le grida e gli evviva del popolo che acclamava il Capitano di Spagna. Ma nè questi segni d'allegrezza, nè il quadro ridente che aveva sott'occhio, non valevano a sgombrar dall'animo di Ginevra la mestizia che l'opprimeva. Alla puntura dei rimorsi un'altra se n'era aggiunta egualmente terribile: il sospetto d'esser tradita da quello al quale avea fatto il sacrificio immenso di disobbedire alla voce del dovere e della coscienza. Era un dubbio che la sua mente respingeva, ed il cuore abborriva, ma in conclusione il dubbio era nato; chi ne fece la prova può dire se sia cosa facile il dissiparlo. E per verità se ciò che temeva era falso interamente, varie circostanze potean nondimeno dargli l'apparenza del vero.

Ettore avea saputo bensì celarle l'incontro di Grajano, ma, avvezzo com'era ad aprirsele in tutto, non riuscì ad infingersi tanto che ella non s'avvedesse essere nel di lui cuore riposto un segreto del quale non voleva metterla a parte.

Dall'altro canto i modi tanto diversi di Zoraide le erano come una spina che non poteva svellersi dal cuore. E pensava: Chi m'assicura che Ettore anch'esso non abbia indovinato? chi m'accerta ch'egli non la curi? E quando da tutti questi argomenti cercava dedurre una conseguenza, si smarriva in un laberinto di dubbi senza trovare il filo ad uscirne.

Stanca la mente da tanto travaglio, s'alzò per trovar con chi parlare e distrarsi, e cercò di Zoraide; in casa non v'era: scese in giardino, neppure: domandò nel monastero ai pochi rimasti, e nessuno sapeva ove fosse. Si sentì una stretta ai cuore, e mille sospetti indefiniti le si affollarono alla mente; nel far questa ricerca s'era trovata presso la torre che difende l'entrata dell'isola. La vide abbandonata e nemmeno un uomo di guardia; tutti, partito il Conestabile, erano andati uno ad uno a goder delle feste. Passò il ponte, e camminò un tratto luogo la spiaggia, avendo il mare a destra, ed a sinistra l'erta del monte rivestita di folti cespugli. Passeggiava a passo lento, e colla mente troppo ingombra di pensieri per potersi occupare di ciò che accadeva intorno a lei. Fu a un tratto sorpresa da una strepito che udì tra le frasche; e quindi sbigottita, vistone uscir un uomo, il quale reggendosi a stento, coperto di cenci insanguinati, tutto lacero dai rovi, coi capelli lunghi, arruffati, che gli ingombravano il volto, le cadde in ginocchio ai piedi: ella ebbe il pensiero di fuggire, ma come ardita ed animosa, rimase; e, guardando quello che tanto stranamente le era comparso davanti, venne a poco a poco raffigurando il capo-banda Pietraccio, che, secondo la traccia data da Don Michele, essa involontariamente con Fieramosca aveva ajutato fuggirsi. La cosa era appunto accaduta come avea preveduto lo sgherro del Valentino: Pietraccio, mentre essi tentavano di porgere ajuto alla donna, s'era cacciato a correre su per la scala e poi per la porta, e liberatosi ruotando il pugnale da chi gl'impediva il passo, benchè ferito ed inseguito da molti, pure messosi per la macchia come pratico ed agilissimo gli era venuto fatto salvarsi. Per non cader in mano di quelli che lo cercavano, gli convenne viver miseramente appiattato nel più folto del bosco, ed ora, trovandosi per caso vicino a quella che non poteva temere credendola sua liberatrice, spinto dallo stento e dalla fame le si raccomandava ajutandosi co' cenni per farle conoscere la sua miseria che troppo al suo aspetto si dimostrava. Ginevra sentì ribrezzo e pietà di questo sciagurato, e gli disse non dubitasse, chè nel monastero non v'era altri che le monache, e, non essendo la torre guardata, poteva venir con lei, che l'avrebbe nascosto in una legnaja sotto la sua casetta, e ristoratolo. L'assassino, il qual forse trovava la morte men dura d'un tal vivere, la seguì, e senza esser visto potè giungere al suo nascondiglio, ove dalla pietosa donna gli fu recato cibo e bendata la ferita che, quantunque leggera, pure cercava rimedio, e con un po' di paglia accomodatogli da dormire. Risalì quindi Ginevra in casa, nel punto che Zoraide e Gennaro tornavano da Barletta.

Non si potè trattenere dal fare alla giovane un amorevole rimprovero che fosse partita senza dirle nulla.

– Zoraide mia! sono stata in pena assai non trovandoti per tutta risola; perchè non dirmi che andavi?

– Per non isvegliarti – rispose Zoraide; e la poca sincerità di questa risposta le tinse le guance d'un leggiero vermiglio, che non isfuggì agli occhi di Ginevra; poi seguì:

– Sono partita per tempo con Gennaro e…

– E – disse Ginevra sorridendo – jer sera non sapevi che volevi andare alla giostra? —

Questa interrogazione tanto diritta aggiunse una tinta di dispetto al volto di Zoraide, che rispose brevemente: – Sì… avevo così un'idea; – poi ripreso il filo che l'era stato interrotto, – da gran tempo – disse – desideravo vedere una di queste giostre per poter giudicare se veramente siano poi tanto al disopra dei giuochi degli Arabi. Ma viva Dio! da noi ciò che fanno qui i cavalieri ed i signori, si farebbe far dagli schiavi, e nessuno de' nostri capi esporrebbe la vita per divertire tre o quattro migliaja di spettatori dell'infima plebe. —

Ginevra accorgendosi che Zoraide per non aver a dare altri schiarimenti sulla sua gita volea mettere innanzi il discorso della giostra, non si curò d'insistere e disse: – Insomma la giostra è stata bella?

– Bella? e come! – prese a dir Gennaro, che si moriva di voglia di servire esso di storico, e cominciò dall'uscita di Consalvo, descrivendo il meglio che poteva la ricchezza e le gale di quei baroni; poi coll'idea di farle cosa grata le diceva, scuotendo il capo e stringendo le labbra, nel mentre che le sue mani facevano girare e rigirare la berretta in cento modi: – E se aveste veduto vostro fratello come stava a cavallo, su quel bel puledro color d'argento; tutti dicevano: che bel giovane! E per dir la verità con quel vostro mantelletto azzurro era proprio una pittura. Mi son voluto ammazzare tra la folla per seguitar la cavalcata fuor di porta! Ci voleva buoni gomiti, ve lo dico io, sì… ma quando la figlia del signor Consalvo è scesa di lettiga, ero accosto come da me a voi; e il signor Ettore l'ha messa a cavallo… cioè, dirò meglio, essa gli ha appoggiato un piede sul ginocchio, un piedino così, vedete! (e per mostrarne la misura stendeva il pollice della mano destra appuntando l'indice della manca alla sua attaccatura), e poi su, svelta come un grillo; e sapete che cosa vi dico? non le dovrebbe dispiacere vostro fratello; chè quando è stata in sella gli ha detto certe paroline, e gli ha fatto un bocchino, che beato chi l'ha veduto: e lui, mi son accorto, s'è fatto rosso; Dio sa che cosa si son detto! e ho pensato fra me: sta attento che il signor Ettore s'avesse da fare sposo: sarebbe una gran bella coppia, ve lo dico io: pajon fatti l'un per l'altro. —

 

Pensi ognuno se questo racconto, e queste riflessioni erano grate a Ginevra. Non potendole sopportare, e volendosi tor dinanzi costui, disse brevemente:

– Sì, sì… mi racconterai ciò un'altra volta – E si volgeva per andarsene con Zoraide alle sue stanze. Ma Gennaro che era sul bel dire non volle lasciarla e proseguiva:

– Eh questo non è niente! bisognava vedere poi alla giostra, nel palco de' signori; è stato sempre seduto vicino a lei, e non hanno fatto altro che discorrere; e poi, ecco qui la signora Zoraide ve lo può dire, se tutti non ponevano mente a loro. Anzi c'era l'oste del Sole che provvede il vino in castello, e diceva che il padre è contento che la sposi: sarebbe un bell'affare sapete! quante belle migliaia di ducati! Altro che tribolarsi la vita sua a cavallo, alla pioggia e al vento! —

Ginevra, per finir questi discorsi che troppo la pungevano, quantunque ne conoscesse la vanità, disse:

– Ma la giostra, in somma, la giostra?

– Oh la giostra! A Barletta non se la ricorda nessuno la simile. —

E qui principiando dalla caccia de' tori, e dalle prodezze di Don Garcia, descriveva poi le battaglie all'azza ed alla lancia, ripetendo i nomi d'ognuno gridati già dagli araldi. La sua memoria lo servì anche troppo. Quando fu a conchiudere disse:

Quello poi che ha finita la festa, ed ha scavalcato i tre Spagnuoli uno dopo l'altro, è stato il signor Don Grajano d'Asti.

– Chi, chi? – disse Ginevra con un'alterazione di volto e di voce che non potè nascondere.

– Un certo signor Don Grajano d'Asti; dev'essere un gran barone: armato e vestito ch'era una ricchezza.

– Grajano d'Asti hai detto? Grande, piccolo, giovane… com'era? —

Gennaro che non aveva perduto un capello dell'armi, fisonomie ed aspetto di tutti i combattenti, ed aveva presente il volto di Grajano, che entrando in campo colla visiera alzata l'avea benissimo lasciato vedere, potè descriverlo tanto a puntino, che non rimase alla donna il minimo dubbio non fosse costui suo marito. Potè nondimeno esser presente a sè stessa abbastanza per celare in parte il tumulto che le sconvolgeva il cuore, e per conoscere quanto importasse il non essere scoperta. Nel tempo che Gennaro si studiava di darle ad intendere la forma e le fattezze del barone, ebbe agio a riprender gli spiriti, e veduto che i suoi due ascoltatori s'erano pure accorti che udendo pronunziare quel nome avea fatto una fermata, per dissipare ogni sospetto, disse, quando l'ortolano finì di parlare:

– Non v'avete a stupire ch'io mi sia turbata al nome di costui; passarono un tempo di strane vicende tra esso e la casa mia; furon poi fatti accordi, e da molti anni è tolta ogni occasione di scandalo: tutto pensavo però, fuorchè di trovarlo ora a Barletta ed al soldo francese. —

Dette le quali parole, si volse per andarsene alle sue camere; Zoraide e Gennaro si dovettero accorgere al color del volto che tratto tratto se le cangiava, che un qualche nascosto pensiero, di grande importanza, la travagliava; si guardarono perciò dal seguirla, e quando fu partita, disse l'ortolano alla giovane:

– Che si senta male? Oppure ho io detto nulla che non istia bene? – Zoraide che aveva pel capo tutt'altro, e neppur essa poteva ben definire quali pensieri, quali sospetti avesse, rispose con una stretta di spalle, e se n'andò, desiderando non meno di Ginevra d'esser sola; Gennaro rimasto ivi colla berretta in mano borbottava incamminandosi pe' fatti suoi. – Son tutte ad un modo! Chi le capisce è bravo! —

Ginevra intanto per una scaletta saliva in camera, ma ad ogni gradino le pareva d'avere il mondo addosso; le cresceva l'anelito, sentiva battere il cuore con tanta furia, che quasi si veniva meno. Diceva continuamente sotto voce: Vergine mia, ajutatemi; e crescendo l'affanno non potea dir altro che mio Dio! mio Dio! ed alla fine fu tale la stretta, che si sentì mancar le ginocchia e dovette sedersi al quarto o quinto scalino ove avea potuto giungere appena; e con un respirare interrotto e frequente, e la fronte molle d'un sudore di spasimo, pensava: Io non sarò mai viva domattina! Quantunque avesse sentito Zoraide andar per altra parte alla sua camera, e chiudervisi, ed essendo dopo il mezzo giorno sull'ore calde, sapesse le monache starsi ritirate a riposare nelle loro celle, pure il sospetto di poter esser trovata ivi e così sottosopra le dava grandissimo travaglio: e per fuggirne il rischio, deposto il pensiero di salir più in camera, risolvette invece d'andarsene, per la porticella del chiostro, in chiesa, ove s'avvedeva oggimai dover solo cercar ajuto e difesa contro i mali che la minacciavano. Così il meglio che potea si condusse fin là, ora attenendosi ai muri, ora facendo ogni opera per camminar come il solito, quando o vedeva qualche conversa girar per gli anditi, ovvero qualche monaca far capolino dalla finestra.

Nella chiesa non v'era persona: si buttò a sedere sul primo gradino del coro che si trovò vicino, e stette un buon pezzo col capo fra le mani ed i gomiti sulle ginocchia per riprender gli spiriti, e colla mente confusa in tanti pensieri, che si può dire non ne avesse propriamente alcuno.

Dietro all'altar maggiore si scendeva per otto o dieci gradini di marmo in una cappelletta sotterranea, ove cinque lampade d'argento ardevano dì e notte avanti un'immagine della Madre di Dio, dipinta sul muro da San Luca, per quel che si credeva da ognuno. I miracoli, che la fama diceva operati in questo luogo, erano stati cagione che si fabbricasse poi la chiesa ed il monastero. Il luogo era in forma d'un esagono, e nel lato rimpetto alla scala era l'altare e l'immagine; ad ogni angolo, una colonna, con un capitello a grossi fogliami di antica maniera, reggeva una delle spine della volta che al sommo si congiungevano tutte in un tondo di pietra come una macina, il quale aveva in mezzo un foro largo un braccio, chiuso da una ferrata, e rispondeva su in chiesa avanti la predella dell'altar maggiore. Un sottil raggio di sole che entrava per le invetriate a colori d'uno dei finestroni della volta, si facea strada per quel foro sino nel sotterraneo. Fra le tenebre diradate appena dalla luce debole e rossiccia delle lampade scendeva visibile il raggio formando in aria una striscia, e riproduceva sul pavimento i colori de' vetri e la forma della ferrata. Andò Ginevra a porsi ginocchioni a piè dell'altare, e, nel passare a traverso quel raggio, la luce riflessa dalla sua veste azzurra rischiarò a un tratto, come un lampo d'un lume pallido, tutta la cappella.