Le Indagini Di Giovanni Marco Cittadino Romano

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Le Indagini Di Giovanni Marco Cittadino Romano
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Guido Pagliarino

Le indagini di Giovanni Marco cittadino romano

Romanzo storico

Copyright © 2018 Guido Pagliarino

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Libro ed E-book distribuiti da Tektime

Guido Pagliarino

Le indagini di Giovanni Marco cittadino romano

Romanzo storico

3a Edizione a Stampa e in E-book

Precedenti Edizioni:

1a edizione dell'opera, in formato cartaceo, Copyright © 2007-2012 Prospettiva Editrice

Dal 01-01-2013 i diritti su quest’opera sono ritornati interamente all’autore

2a edizione , riveduta e variata, in e-book mobi ed epub, Copyright © 2015 Guido Pagliarino

2a edizione, riveduta e variata, cartacea, Create Space, Copyright © 2016 Guido Pagliarino

L'immagine inserita nella copertina è la riproduzione d'una tempera di Raffaello su carta, montata su tela, custodita al “Victoria and Albert Museum, London” sotto il titolo “St Paul before the Proconsul”, 1515; l'opera è conosciuta in Italia anche come “Elimas il mago viene accecato da Saul dinanzi a Sergio Paolo” oppure “La conversione del proconsole” con riferimento ad Atti degli Apostoli, 13, 8-11

INDICE

“Le indagini di Giovanni Marco cittadino romano”- Romanzo storico di Guido Pagliarino

Capitolo I

Capitolo II

Capitolo III

Capitolo IV

Capitolo V

Capitolo VI

Capitolo VII

Capitolo VIII

Capitolo IX

Capitolo X

Capitolo XI

Capitolo XII

Capitolo XIII

Capitolo XIV

Capitolo XV

Capitolo XVI

Capitolo XVII

Capitolo XVIII

Capitolo XIX

Capitolo XX

Capitolo XXI

Capitolo XXII

Capitolo XXIII

“Dizionarietto essenziale storico” di Guido Pagliarino”

Note al testo

Le indagini di Giovanni Marco cittadino roman o

Romanzo storico di Guido Pagliarino

Capitolo I

(Indice)

Stranamente il paesaggio era luminoso sebbene il cielo fosse plumbeo.

Giovanni Marco camminava lungo una strada diritta lastricata, come la via romana a lui familiare che da Gerusalemme scendeva a Cesarea Marittima; ma non era quella. Il tracciato si perdeva all’orizzonte, percorrendo un ignoto territorio piatto quasi deserto, con radi pruni giallastri e cespugli grigioverdi smossi dall’andare e venire di vipere e circondati da sciami di mosconi il cui ronzio continuo infastidiva i suoi orecchi; non un essere umano, a parte lui.

All’improvviso Marco s’era trovato in una zona colma di fosse, come quelle profonde che si scavano per seppellire immondizie o carogne; ed ecco che, prima inavvertito, aveva notato steso a terra, insepolto, il cadavere insanguinato d’un cane molosso nero, la lingua di fuori e gli occhi vitrei, e aveva udito un rumore provenire dalla buca più vicina, come uno scalpiccio, un fruscio, uno stropicciare con le unghie d’un vivente che si stesse penosamente arrampicando: forse un animale ferito e buttato sul fondo ancora vivo che cercava di risalire? Un altro temibile cane da combattimento? e se fosse stata una fiera in agguato?! Aveva sofferto unto sudore tiepido dietro al collo mentre un’altra possibilità gli aveva causato un brivido alla schiena: se invece… fosse stato lì per mostrarsi un abitatore dello Sheòl?! Nel medesimo istante aveva fatto capolino dalla buca la testa d’un uomo; ed era Gionata Paolo, suo padre.

Uscito dalla fossa, il defunto se n’era trattenuto al limite. Appariva tal quale Marco l’aveva visto per l’ultima volta tanti anni prima, quando il genitore era partito per il viaggio a Perge da cui non sarebbe tornato: trentasei anni, alto, snello, folti capelli e lunga barba castani con qualche filo già bianco; indossava la stessa tunica nocciola e il medesimo mantello verdino costretto alla vita da una cintura marrone.

Le braccia abbandonate lungo il corpo, fisso come un pertica aveva iniziato senza preamboli uno dei sermoni ch’era solito indirizzare al figlio: “Caro Marco, tu non sei sulla buona via ma sul cammino dell’aridità. I nazareni faticano senza posa per dare al mondo la buona notizia, mentre tu continui a occuparti solo dei tuoi interessi. Sì, è vero, rispetti i precetti della Legge, ma se questo era sufficiente per me che non sapevo, a te non può bastare: ora che la notizia s’è posata ai tuoi piedi, devi raccoglierla e sparpagliarla, e tanto più lo puoi, essendo tu favorito dalla cittadinanza di Roma che ti dà pieni diritti nell’impero. Segui dunque l’esempio di tuo cugino Giuseppe Barnaba e, quando andrà a Perge per diffondere la notizia, va’ con lui; una volta giunto, per prima cosa onora la mia tomba e quindi indaga: scoprirai chi m’assassinò e, grazie a te, sarà fatta giustizia”.

“Perché non me lo dici tu adesso, chi t’uccise?!”.

Il padre non gli aveva risposto e, come se neppure avesse udito, aveva preso a salire adagio verso il cielo, mentre nel bigio delle nuvole s’era aperta lentamente una fessura di luce; e Marco s’era svegliato.

Capitolo II

(Indice)

Diciassette anni prima, in un giorno di marzo del 781 a.U.c.1 secondo il calendario di Roma, anno 4080 dalla creazione del mondo per gl’israeliti, Gionata padre di Marco, fariseo, era entrato raggiante nella propria bella dimora in Gerusalemme, di ritorno da Cesarea Marittima dove sedeva il rappresentante di Tiberio Cesare per la provincia di Giudea, Samaria e Idumea: dopo tanto tempo e denaro spesi in doni al suo protettore Marco Paolo Rufo, aiutante del procuratore Ponzio Pilato, finalmente gli era stata concessa la cittadinanza romana. I suoi affari ne sarebbero stati agevolati, tripudiava, ed egli si sarebbe arricchito ancora di più, nella piena benedizione dell’Altissimo.

Gionata era nato ad Asut, sul corso del basso Nilo, secondogenito di un’abbiente famiglia d’agricoltori. Alla morte del padre i terreni sarebbero andati al fratello maggiore ed egli s’era dedicato pertanto al commercio di vino e datteri facendo base a Gerusalemme, dove aveva contemporaneamente frequentato la casa di Hillel, maestro biblico originario di Babilonia. Durante questo soggiorno era entrato in amicizia con un altro allievo di quella scuola farisaica, Samuele, più anziano e padre della sua futura moglie, la tredicenne Maria: si trattava d’un’importante famiglia appartenente alla tribù di Levi e addirittura discendente dal sommo sacerdote Aronne fratello di Mosè. Maria aveva avuto dal proprio padre una buona cultura, contrariamente all’uso del tempo verso le figlie femmine. Dopo il matrimonio, seguendo i propri commerci Gionata aveva preso domicilio con la sposa a Salamina, dove già risiedeva il fratello di lei, un levita proprietario d’un podere che li aveva provvisoriamente ospitati; ma già mesi dopo, di fronte a prospettive migliori la coppia s’era trasferita a Chairouan di Cirenaica dove, a buon prezzo, Gionata aveva comprato terre e dov’era nato Marco. Alcuni anni dopo però, la regione era stata invasa da bellicose tribù arabe costringendo la famiglia alla fuga. Senza perdersi d’animo, il fariseo aveva condotto i suoi cari a Gerusalemme presso i genitori della moglie. Con monete e gioielli ch’egli e Maria s’erano nascosti addosso, aveva comprato un uliveto nei pressi della città, lungo una sponda del torrente Cedron in località Getzemani, piantando così di nuovo il benessere familiare. Entro pochi anni aveva allargato il podere acquistando una vigna sull’altra riva, comprato casa e rilevato un bazar di tappeti.

 

“Ho ritenuto bene aggiungere al mio nome quello di famiglia del mio patrono”, aveva comunicato Gionata a Maria la moglie e all’unico figlio non appena era entrato in casa, ancor prima di farsi lavare i piedi sporchi per la lordura della via; “d’ora in poi sarò Gionata Paolo; e anche al tuo nome, caro figliolo, ne seguirà uno latino, ché all’occorrenza, presentandoti ai romani, possano riconoscerti come uno dei loro e favorirti. Da questo momento sei Giovanni Marco, cittadino di Roma”.

Il giovane aveva compiuto da poco i tredici anni, era un adulto oramai, un Bar Mitzwah, Figlio della Legge ammesso a leggere e commentare in sinagoga i rotoli della Sacra scrittura. Il padre tuttavia, come s’egli fosse stato ancora un piccolo bambino, non aveva mancato di raccomandargli: “Attenzione, però: anche se adesso sei cittadino romano, non dimenticare mai d’essere un giudeo, segui sempre i 613 Mitzvot, i santi Precetti della Legge! e mai acquista qualcosa degli usi dei nostri dominatori”. Qui di colpo un sospetto gli era saltato in mente. S’era zittito e aveva guardato attorno circospetto, come se in casa o dietro al muro perimetrale potesse celarsi una qualche spia di Ponzio Pilato. Rassicurato, aveva ripreso slancio e s’era buttato appieno in uno dei suoi soliti, ridondanti insegnamenti al figlio, che spaziavano dall’etica alla storia e in cui paragonava i santi costumi farisaici a quelli biasimevoli dei gentili: “Noi ebrei, figliolo, siamo gli eletti del Cielo, mentre i romani, come i greci, per i loro corrotti costumi non risorgeranno: i nostri conquistatori videro la corrotta Grecia come culla di valori da inserire nella loro civiltà, ma insieme al sapere entrarono in Roma le abitudini morali nefande di quel popolo, che meritano punizione dal Signore!” La maledicente esclamazione non gli era di certo bastata; aveva continuato: “Invano il severo imperatore Augusto avversò quei costumi: corre voce a Cesarea Marittima che il suo erede Tiberio s’abbandoni a ogni vizio assieme alla sua corte, non differenziandosi più in nulla dagli ellenici maestri di dissolutezza. Così, presso i gentili è abominazione delle abominazioni. Che dire, d’altronde, della cultura greco-latina in sé stessa?! Poesia, filosofia, diritto sono riservati a pochi privilegiati che trattano la plebe come una cosa, per non parlare di come considerano noi giudei, noi che siamo costretti a comprarci la cittadinanza dell’Urbe per prosperare” – in fondo si sentiva in colpa per il suo recente acquisto – “e dietro agli umanisti greci e romani ecco, a perdita d’occhi, un’estensione eterogenea di miserabili popolani, a Roma come a Corinto, ad Alessandria come in Atene, ai quali, nella stragrande maggioranza dei casi, neppure viene insegnato a leggere e a fare di conto”. Si gonfiò anche di più: “Noi ebrei, invece, fino ai dodici anni! siamo istruiti in sinagoga, noi figli d’Israele tutti di stirpe regale, quella del Creatore, come sappiamo dalla sua Parola, e nient’affatto una massa come la plebe della società pagana; e chiunque di noi, come il grandissimo mio rabbì Hillel di Babilonia ch’era un semplice tagliaboschi, può continuare gli studi se un maestro l’accoglie come discepolo, e addirittura aspirare a divenire egli stesso un rabbì!”. Ripreso fiato, aveva finalmente concluso: “Che la giustizia dell’Altissimo fulmini i peccatori impenitenti per i secoli dei secoli!”.

“Amèn, amèn”, avevano fatto eco in coro figlio e moglie; e finalmente questa, ch’era rimasta per tutto il tempo con un catino in mano pronta a servire lo sposo, s’era accinta a lavargli i piedi.

Un paio di mesi dopo, il 23 di maggio, durante un soggiorno d’affari a Perge dove intendeva acquistare pregiati tappeti locali in uno degli empori cittadini per rivenderli a prezzo maggiorato a Gerusalemme, Gionata Paolo era stato trovato cadavere da una ronda di polizia, steso a terra in uno dei vicoli cittadini, trafitto al cuore.

L’assassino o gli assassini non erano stati rintracciati.

La borsa non gli era stata sottratta, difficile quindi pensare a un omicidio per rapina. Immorale concorrenza negli affari sino all’omicidio? Un banale litigio sulla via finito tragicamente? O forse era stato uno di quei fanatici patrioti ebrei detti zeloti? L’aveva punito perché era divenuto cittadino di Roma? Queste le domande che Marco s’era posto. Solo diciotto anni dopo avrebbe avuto la risposta, e il movente che avrebbe scoperto non sarebbe stato fra quelli immaginati, ma qualcosa d’assolutamente inatteso.

Capitolo III

(Indice)

Tre giorni prima della morte di Gionata Paolo, la nave proveniente da Cesarea Marittima dove il fariseo s’era imbarcato aveva gettato l’ancora nel porto di Salamina di Cipro, città dove viveva un suo nipote d’acquisto, il levita Giuseppe detto Barnaba, figlio del fratello di sua moglie e agricoltore come i defunti genitori.

Barnaba aveva ospitato lo zio per la notte e, avendo già intenzione d’acquistare a Perge, nell’immediato futuro, certe sementi pregiate, aveva deciso, lì per lì, d’unirsi a lui nel resto del viaggio.

S’erano imbarcati il giorno dopo sopra una nave più piccola di quella che aveva portato Gionata Paolo a Salamina, imbarcazione che, una volta superato il braccio di mare che divideva Cipro dalla regione di Panfilia, avendo breve immersione poteva risalire il fiume Cistro fin al piccolo ancoraggio di Perge, invece di doversi mettere alla fonda ad Attalia, il porto marino della città.

Una volta a destino, usciti dal porticciolo i due avevano visto, lungo la via che portava all’interno, donne di varie età e giovinetti imberbi, seminudi gli uni e le altre, offrirsi ai passanti tanto con la parola che toccandosi il sesso o le terga e dondolando i bacini in una pantomima sessuale. Il rigido fariseo, che sull’esperienza dei precedenti viaggi se l’era attesa, aveva eruttato, indicando il cielo con l’indice ultore della mano destra: “Obbrobrio davanti al Signore! O tu che cammini sulla sfera di cristallo del firmamento! Manda il tuo angelo di morte su tutti quest’impudichi!”.

“Amèn”, s’era unito il nipote, ma a bassa voce e senz’enfasi.

Per quel suo fiacco tono, il fariseo non era rimasto soddisfatto del parente: “Insomma Barnaba! lo vedi bene, no? cosa devo soffrire ogni volta che vengo qui. A Perge trovo il meglio dei tappeti o non ci metterei piede, sai? Lo hai notato o no, che v’imperversano addirittura gli efebi sodomiti?!”

Il nipote, socchiudendo gli occhi e piegando la bocca in una smorfia amara, aveva assentito doppiamente con la testa.

Finalmente confortato, lo zio aveva allora levato il viso il più in alto possibile e fiondato la propria voce fin alla sfera del cielo, o almeno questa ne era stata l’intenzione: “Abominazione delle abominazioni! Altissimo Signore, salva i peccatori pentiti, ma scaglia le tue maledizioni su quelli che non si pentono! Falli bruciare dal tuo angelo di morte con una tempesta di fiamme, come su Sodoma e Gomorra!”.

“Amèn”, aveva fatto eco un’altra volta il nipote, stavolta alzando di molto la voce; poi però non s’era trattenuto e, sorridendo, aveva fatto seguire: “La tempesta ardente solo quando saremo ripartiti, eh? perché se qualche lingua di fuoco andasse fuori bersaglio…”

“Beh, beh… si capisce”, aveva concordato Gionata Paolo che mancava del tutto d’umorismo.

Dividendo le spese, i due avevano affittato una stanza in un alberghetto dove il fariseo era solito soggiornare, gestito dall’ebreo Matteo Bar Beniamino, in cui, secondo le norme di purità, veniva servito cibo kosher ottimamente cucinato ai correligionari di passaggio, e pure a diversi avventori non ebrei che, pur non soggetti alle regole giudaiche, ne apprezzavano l’ottimo sapore.

Poco dopo il sorgere del sole sul suo ultimo giorno di vita, Gionata Paolo aveva assunto la prima colazione nella locanda in compagnia del nipote, poi i due s’erano divisi per occuparsi ciascuno dei propri affari; così, al momento dell’aggressione lo zio sarebbe stato solo col suo assassino. Avevano stabilito di ritrovarsi verso il tramonto alla locanda, ch’era non lontana dalla viuzza dove il padre di Marco sarebbe stato trovato da una ronda di polizia morto ammazzato, per far cena e riposare fino all’alba, dopo di che il fariseo avrebbe pagato e ritirato i suoi tappeti e il levita i propri sacchi di sementi e, coi rispettivi carichi, i parenti sarebbero ripartiti quella mattina con la stessa nave che li aveva portati a Perge.

Barnaba aveva passato la giornata visitando alcuni grossisti di granaglie, con una breve pausa verso mezzodì per un leggero pasto di frutta consumato in piedi presso il venditore. Aveva trovato i chicchi giusti, per qualità e prezzo, solo a fine pomeriggio. Lasciata una caparra al fornitore, era tornato alla pensione, giungendovi quando il sole era da poco sceso dietro l’orizzonte. Non appena entrato aveva saputo dall’albergatore, senz’alcun delicato preambolo, dell’omicidio dello zio: Matteo Bar Beniamino, tornando poco prima a casa da una commissione, era passato per la stradina dove giaceva il cadavere, attorniato da uomini d’una ronda di polizia, e aveva riconosciuto nel morto il proprio cliente: “Era stato ucciso da poco”, aveva precisato all’attonito levita, “lo so perché una delle guardie stava dicendo ai colleghi che il corpo era ancora tepido; poi l’avevano caricato sopra un carretto, immagino requisito lì per lì”. Era prassi delle ronde d’ordine pubblico portare in caserma ogni salma ignota raccolta per via, fatto tutt’altro che infrequente, dov’era tenuta in deposito in una cantina fin all’alba del dopodomani, nell’eventualità che un parente si fosse presentato a riconoscerlo e reclamarlo; se no, il morto veniva seppellito nelle prime ore del posdomani nella fossa comune di Perge.

Le funzioni dell’organismo di polizia della città, composto da un centinaio d’uomini al comando d’un centurione, erano simili a quelle della Milizia dei Vigili dell’Urbe, creata nel 758 1bis da Ottaviano Cesare Augusto e imitata in varie città dell’impero. Venivano esercitate mansioni generali di polizia e la prevenzione e lo spegnimento d’incendi nonché, legati alle prime, l’individuazione e l’arresto di chi li avesse provocati per dolo o anche solo per negligenza. Alla base dell’attività della centuria stavano ronde continue per la città di squadre di dieci uomini. Gaio Tullio, comandante della decuria che s’era imbattuta nella salma di Gionata Paolo, dopo aver interrogato brevemente gli abitanti della zona, i quali avevano dichiarato di non aver visto né udito nulla, aveva rinunciato a indagare: in quei tempi era normale che la maggior parte dei delitti restasse impunita, trovare i colpevoli non sorpresi in flagrante era improbabile quasi come individuare una particolare formica in un formicaio.

Il locandiere aveva riportato ancora a Barnaba d’aver detto al decurione che la vittima era stata sua cliente, aggiungendo che avrebbe avvisato della tragedia un altro avventore, che aveva stanza con la vittima e ne era parente, perché, volendo, ne richiedesse la spoglia.

La sera stessa, nonostante l’oscurità, ottenuta una lanterna dall’albergatore il nipote del morto s’era presentato alla sede dei militi, non eccessivamente distante, per reclamare il corpo dello zio. Aveva parlato con un decurione in servizio al corpo di guardia. Il sottufficiale l’aveva condotto dal comandante della caserma, un giovane centurione di nome Giunio Marcello. Costui, dopo aver ascoltato la richiesta di Barnaba, aveva convocato il decurione Gaio Tullio e, in sua presenza, aveva detto al levita: “Bene, mi hai detto di chiamarti Giuseppe Barnaba e d’essere di Salamina; adesso voglio sapere cosa siete venuti a fare a Perge tu e la vittima”.

“Io a comprare sementi per i miei campi e lo zio tappeti per il suo bazar in Gerusalemme”.

“Poiché c’è anche una borsa del morto da ritirare, dimmi come puoi dimostrare d’essere suo nipote”.

 

“Lo può confermare Matteo Bar Beniamino, padrone della locanda dove io e lo zio abbiamo preso una stanza assieme”.

S’era intromesso Gaio Tullio: “Comandante, Matteo Bar Beniamino è l’individuo che ho citato nel mio rapporto, che ha riconosciuto la vittima dell’omicidio e mi ha detto ne avrebbe informato il nipote”.

“Va bene, comunque tra poco controlleremo se quel nipote è proprio costui”. S’era volto a Barnaba: “Tu, intanto, dimmi dove e con chi hai trascorso oggi le ultime ore di luce”.

A quanto sembrava sospettava di lui, come aveva recepito il levita con preoccupazione; e aveva fatto il nome del grossista di granaglie.

Il centurione, avuti gl’indirizzi del commerciante e dell’albergatore, aveva ordinato a Gaio Tullio di prendere una guardia con sé e accompagnare il levita alle residenze dei due testimoni, per un confronto.

Il grossista aveva testimoniato che quel suo cliente era stato da lui fin al tramonto, l’albergatore che Barnaba era arrivato alla locanda a sole appena calato, col cielo non ancor del tutto buio, e che il giorno prima l’uomo e il defunto s’erano presentati come parenti nel prendere stanza.

Ascoltato il rapporto di Gaio Tullio, il comandante aveva concesso all’accertato nipote di ritirare, alle prime luci, la salma dello zio. Sùbito gliene aveva consegnato la borsa, contenente solo monete d’oricalco, sei sesterzi e due dupondi, in uno dei due scomparti, per gli spiccioli, mentre l’altro, per le monete d’oro e i denari d’argento, era vuoto. Barnaba sapeva che il parente avrebbe dovuto possedere ancora molta pecunia per saldare i tappeti e pagarsi il viaggio di ritorno e aveva pensato a un furto, non da parte omicida, però, ma di guardie, il centurione stesso? Aveva ragionato: perché mai un rapinatore di strada avrebbe dovuto attardarsi a togliere le monete di valore lasciando la minutaglia, invece di carpire semplicemente la borsa come tutti i grassatori fanno, e fuggire prima che qualcuno potesse sopraggiungere? Nondimeno, per evitare contrattempi e forse guai, il levita aveva tenuto il sospetto per sé.

Dopo una notte di sonno sbattuto, all’apertura dei bazar Barnaba aveva acquistato una sindone, un sudario e unguenti sepolcrali e preso accordi con un paio di greci, di professione scalpellini, tagliapietre e affossatori, che avevano bottega nella stessa zona. Era giunto al posto di polizia coi due sul loro carro, trainato, come il levita aveva notato con disagio, da una coppia di muli: le norme ebraiche di purità vietavano d’incrociare specie diverse di bestie e anche d’avvalersi dei loro ibridi nati, ma Barnaba non aveva scelta in quella città in maggior parte pagana. I necrofori, esperti tanto di funerali gentili che ebrei, avevano caricato sul loro carro l’occorrente per una sepoltura giudaica. Il levita aveva ordinato ai due operai di lavare il corpo di suo zio e ungerlo con gli oli; quindi, dopo aver personalmente posato il fazzoletto funebre sul capo del defunto e aver elevato una preghiera, aveva comandato d’avvolgere la salma nella sindone. Col carro i tre vivi e il morto avevano raggiunto il sepolcreto, che si trovava a un mezzo miglio da Perge: si trattava d’un canalone coperto di sassi, pruni e arbusti che passava, per la lunghezza d’un terzo di miglio e la larghezza media d’un centinaio di cubiti, fra due pareti rocciose butterate da piccole caverne a varie altezze; le tombe erano state ricavate, aggiungendo alla natura l’opera dell’uomo, sfruttando le grotte che sboccavano a livello del suolo. Dopo che il levita, in piedi accanto al carro, aveva recitato le ultime orazioni per il defunto, i necrofori avevano portato il corpo, con la sindone che l’avvolgeva, in una grotta ancora libera dove l’avevano deposto supino; quindi avevano chiuso l’antro con pietre raccolte sul luogo, a mo’ di mattoni naturali, legandole fra loro con calce; avevano lasciato un’apertura, grossolanamente quadrata, a livello terra con lato di poco più d’un cubito e mezzo, dalla quale, strisciando, si sarebbe potuto accedere all’interno; quindi avevano scavato sul terreno, accosto alla tomba, una guida lunga cinque cubiti e larga circa un palmo, l’avevano ricoperta con piccoli ciottoli piatti e vi avevano posto e ruotato, a chiusura dell’ingresso, una lapide cilindrica, appena più stretta del corridoio e di diametro un po’ maggiore della diagonale dell’apertura, ruota tombale che avevano preso in bottega tra altre preventivamente lavorate e dove, su quello che sarebbe stato il lato esterno, Barnaba aveva fatto incidere, sia in aramaico sia traslitterato in alfabeto greco, il nome dello zio.

Il levita aveva dedicato i sette giorni seguenti a purificarsi dalla contaminazione del cadavere, secondo le norme mosaiche di purità contenute nel libro della Torah Bemidba: “…chi avrà toccato un cadavere umano sarà immondo per sette giorni. Quando uno si sarà purificato con quell'acqua il terzo e il settimo giorno, sarà mondo; ma se non si purifica il terzo e il settimo giorno, non sarà mondo”2.

Compiuto il rito, l’ottavo dì s’era imbarcato per Salamina con le sue sementi. A casa aveva scritto e affidato a un corriere una lettera per la moglie e il figlio di Gionata Paolo, con dettagliate notizie sulla tragedia. Non aveva chiesto loro il rimborso, al netto dei pochi spiccioli del defunto che aveva trattenuti, dei costi della sepoltura e del forzato soggiorno a Perge per altri sette giorni: a differenza dello zio, Barnaba considerava il denaro un mero strumento e non una gratificazione del Signore per i giusti; peraltro seguiva sì i 10 comandamenti di Mosè, il precetto della decima al tempio e le norme di purità ma, come moltissimi altri suoi correligionari, non scendeva a minute bigotterie nonostante, secondo i pignoli dottori della Legge, tutti d’origine farisaica, fossero da ritenersi giusti solo coloro che si sforzavano di rispettare, com’era stato per il padre di Marco, tutti i 613 precetti della Legge nessuno escluso, tra i quali figuravano addirittura obblighi come quello di recitare, ogni volta che ci si ritirava al gabinetto, questa preghiera di benedizione: “Sii tu benedetto, Signore nostro re dell’universo, che hai fatto l’uomo con sapienza e hai creato in lui molti fori e vani. È rivelato e si conosce dinanzi al Trono della tua Gloria che se uno di questi s’aprisse o uno di quelli si serrasse, sarebbe impossibile vivere e rimanere davanti a te. Benedetto sei tu Signore, che curi ogni corpo e agisci magnificamente”3.

Ben si comprende quanto il lutto avesse gettato nell’afflizione il giovane Marco e sua madre. La vedova Maria, quando finalmente s’era data pace, aveva venduto per conto del figlio, unico erede di Gionata Paolo, il bazar di tappeti, causa indiretta della morte del diletto marito e padre, e aveva investito il ricavato in un bell’appezzamento di terreno in aggiunta a quelli già posseduti: aveva ragionato che, così, Marco non avrebbe dovuto fare viaggi lunghi e pericolosi per acquistare merce; aveva inoltre vietato al figliolo d’andare a Perge a visitare la tomba paterna, perché “di morti in casa, ne basta e avanza già uno” e, peggio ancora, d’andarvi a cercare gli assassini, come lui avrebbe voluto: “Un’idea”, l’aveva rimproverato con fermissimo tono, “del tutto assurda, che poteva venire in mente solo a un bambino come te”.