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Decameron

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NOVELLA OTTAVA

Girolamo ama la Salvestra: va costretto, a’ prieghi della madre, a Parigi; torna e truovala maritata; entrale di nascoso in casa e muorle allato; e portato in una chiesa muore la Salvestra allato a lui.

Aveva la novella d’Emilia il fine suo, quando per comandamento del re Neifile così cominciò.

Alcuni, al mio giudicio, valorose donne, sono li quali più che l’altre genti si credon sapere e sanno meno; e per questo non solamente a’ consigli degli uomini ma ancora contra la natura delle cose presummono d’opporre il senno loro; della quale presunzione già grandissimi mali sono avvenuti e alcun bene non se ne vide giammai. E per ciò che tra l’altre naturali cose quella che meno riceve consiglio o operazione in contrario è amore, la cui natura è tale che più tosto per se medesimo consumar si può che per avvedimento alcun torre via, m’è venuto nell’animo di narrarvi una novella d’una donna la quale, mentre che ella cercò d’esser più savia che a lei non s’apparteneva e che non era e ancor che non sostenea la cosa in che studiava mostrare il senno suo, credendo dello innamorato cuor trarre amore, il qual forse v’avevano messo le stelle, pervenne a cacciare a un’ora amore e l’anima del corpo al figliuolo.

Fu adunque nella nostra città, secondo che gli antichi raccontano, un grandissimo mercatante e ricco, il cui nome fu Leonardo Sighieri, il quale d’una sua donna un figliuolo ebbe chiamato Girolamo, appresso la natività del quale, acconci i suoi fatti ordinatamente, passò di questa vita. I tutori del fanciullo insieme con la madre di lui bene e lealmente le sue cose guidarono. Il fanciullo, crescendo co’ fanciulli degli altri suoi vicini, più che con alcuno altro della contrada con una fanciulla del tempo suo, figliuola d’un sarto, si dimesticò; e venendo più crescendo l’età, l’usanza si convertì in amore tanto e sì fiero, che Girolamo non sentiva ben se non tanto quanto costei vedeva: e certo ella non amava men lui che da lui amata fosse.

La madre del fanciullo, di ciò avvedutasi, molte volte ne gli disse male e nel gastigò; e appresso co’ tutori di lui, non potendosene Girolamo rimanere, se ne dolfe, e come colei che si credeva per la gran ricchezza del figliuolo fare del pruno un melrancio disse loro: «Questo nostro fanciullo, il quale appena ancora non ha quattordici anni, è sì innamorato d’una figliuola d’un sarto nostra vicina, che ha nome la Salvestra, che, se noi dinanzi non gliele leviamo, per avventura egli la si prenderà un giorno, senza che alcuno il sappia, per moglie, e io non sarò mai poscia lieta, o egli si consumerà per lei se a altrui la vedrà maritare; e per ciò mi parrebbe che, per fuggir questo, voi il doveste in alcuna parte mandare lontano di qui ne’ servigi del fondaco, per ciò che, dilungandosi da veder costei, ella gli uscirà dell’animo e potrengli poscia dare alcuna giovane ben nata per moglie.»

I tutori dissero che la donna parlava bene e che essi ciò farebbero a lor potere: e fattosi chiamare il fanciullo nel fondaco, gl’incominciò l’uno a dire assai amorevolmente: «Figliuol mio, tu se’ ogimai grandicello: egli è ben fatto che tu incominci tu medesimo a vedere de’ fatti tuoi; per che noi ci contenteremmo molto che tu andassi a stare a Parigi alquanto, dove gran parte della tua ricchezza vedrai come si traffica, senza che tu diventerai molto migliore e più costumato e più da bene là che qui non faresti, veggendo quei signori e quei baroni e quei gentili uomini che vi sono assai e de’ lor costumi apprendendo; poi te ne potrai qui venire.»

Il garzone ascoltò diligentemente e in brieve rispose niente volerne fare, per ciò che egli credeva così bene come un altro potersi stare a Firenze. I valenti uomini, udendo questo, ancora con più parole il riprovarono; ma non potendo trarne altra risposta alla madre il dissero. La quale fieramente di ciò adirata, non del non volere egli andare a Parigi ma del suo innamoramento, gli disse una gran villania; e poi, con dolci parole raumiliandolo, lo incominciò a lusingare e a pregar dolcemente che gli dovesse piacere di far quello che volevano i suoi tutori; e tanto gli seppe dire, che egli acconsentì di dovervi andare a stare uno anno e non più: e così fu fatto.

Andato adunque Girolamo a Parigi fieramente innamorato, d’oggi in doman ne verrai, vi fu due anni tenuto; donde più innamorato che mai tornatosene, trovò la sua Salvestra maritata a un buon giovane che faceva le trabacche, di che egli fu oltre misura dolente. Ma pur, veggendo che altro essere non poteva, s’ingegnò di darsene pace: e spiato là dove ella stesse a casa, secondo l’usanza de’ giovani innamorati incominciò a passare davanti a lei, credendo che ella non avesse lui dimenticato se non come egli aveva lei: ma l’opera stava in altra guisa. Ella non si ricordava di lui se non come se mai non l’avesse veduto, e se pure alcuna cosa se ne ricordava sì mostrava il contrario. Di che in assai piccolo spazio di tempo il giovane s’accorse, e non senza suo grandissimo dolore, ma nondimeno ogni cosa faceva che poteva per rientrarle nell’animo; ma niente parendogli adoperare, si dispose, se morir ne dovesse, di parlarle esso stesso.

E da alcun vicino informatosi come la casa di lei stesse, una sera che a vegghiare erano ella e ’l marito andati con lor vicini, nascosamente dentro v’entrò e nella camera di lei dietro a teli di trabacche che tesi v’erano si nascose; e tanto aspettò, che, tornati costoro e andatisene a letto, sentì il marito di lei adormentato, e là se ne andò dove veduto aveva che la Salvestra coricata s’era; e postale la sua mano sopra il petto pianamente disse: «O anima mia, dormi tu ancora?»

La giovane, che non dormiva, volle gridare, ma il giovane prestamente disse: «Per Dio, non gridare, ché io sono il tuo Girolamo.»

Il che udendo costei, tutta tremante disse: «Deh, per Dio, Girolamo, vattene: egli è passato quel tempo che alla nostra fanciullezza non si disdisse l’essere innamorati. Io sono, come tu vedi, maritata; per la qual cosa più non sta bene a me d’attendere a altro uomo che al mio marito. Per che io ti priego per solo Idio che tu te ne vada, ché se mio marito ti sentisse, pogniamo che altro male non ne seguisse, sì ne seguirebbe che mai in pace né in riposo con lui viver potrei, dove ora amata da lui in bene e in tranquillità con lui mi dimoro.»

Il giovane, udendo queste parole, sentì noioso dolore; e ricordatole il passato tempo e ’l suo amore mai per distanzia non menomato, e molti prieghi e promesse grandissime mescolate, niuna cosa ottenne. Per che, disideroso di morire, ultimamente la pregò che in merito di tanto amore ella sofferisse che egli allato a lei si coricasse tanto che alquanto riscaldar si potesse, ché era agghiacciato aspettandola, promettendole che né le direbbe alcuna cosa né la toccherebbe, e come un poco riscaldato fosse se n’andrebbe. La Salvestra, avendo un poco compassion di lui, con le condizioni date da lui il concedette. Coricossi adunque il giovane allato a lei senza toccarla: e raccolti in un pensiero il lungo amor portatole e la presente durezza di lei e la perduta speranza, diliberò di più non vivere; e ristretti in sé gli spiriti, senza alcun motto fare, chiuse le pugna allato a lei si morì.

E dopo alquanto spazio la giovane maravigliandosi della sua contenenza, temendo non il marito si svegliasse, cominciò a dire: «Deh, Girolamo, ché non te ne vai tu?» Ma non sentendosi rispondere, pensò lui essere adormentato: per che, stesa oltre la mano, acciò che si svegliasse il cominciò a tentare, e toccandolo il trovò come ghiaccio freddo, di che ella si maravigliò forte; e toccatolo con più forza e sentendo che egli non si movea, dopo più ritoccarlo cognobbe che egli era morto: di che oltre modo dolente stette gran pezza senza saper che farsi. Alla fine prese consiglio di volere in altrui persone tentar quello che il marito dicesse da farne; e destatolo quello che presenzialmente a lui avvenuto era disse essere a un’altra intervenuto, e poi il domandò se a lei avvenisse che consigilo ne prenderebbe. Il buono uomo rispose che a lui parrebbe che colui che morto fosse si dovesse chetamente riportare a casa sua e quivi lasciarlo, senza alcuna malavoglienza alla donna portarne, la quale fallato non gli pareva ch’avesse.

Allora la giovane disse: «E così convien fare a noi», e presagli la mano, gli fece toccare il morto giovane. Di che egli tutto smarrito si levò su: e, acceso un lume, senza entrar con la moglie in altre novelle, il morto corpo de’ suoi panni medesimi rivestito e senza alcuno indugio, aiutandogli la sua innocenzia, levatoselo in su le spalle, alla porta della casa di lui nel portò e quivi il pose e lasciollo stare.

E venuto il giorno e veduto costui davanti all’uscio suo morto, fu fatto il romor grande, e spazialmente dalla madre; e cerco per tutto e riguardato e non trovatoglisi piaga né percossa alcuna per li medici generalmente fu creduto lui di dolore esser morto così come era. Fu adunque questo corpo portato in una chiesa, e quivi venne la dolorosa madre con molte altre donne parenti e vicine, e sopra lui cominciaron dirottamente, secondo l’usanza nostra, a piagnere e a dolersi.

E mentre il corrotto grandissimo si facea, il buono uomo, in casa cui morto era, disse alla Salvestra: «Deh, ponti alcun mantello in capo e va’ a quella chiesa dove Girolamo è stato recato e mettiti tralle donne e ascolterai quello che di questo fatto si ragiona; e io farò il simigliante tra gli uomini, acciò che noi sentiamo se alcuna cosa contro a noi si dicesse.» Alla giovane, che tardi era divenuta pietosa, piacque, sì come a colei ché morto disiderava di veder colui a cui vivo non avea voluto d’un sol bascio piacere; e andovvi.

Maravigliosa cosa è a pensare quanto sieno difficili a investigare le forze d’amore! Quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto aprire, la misera l’aperse, e l’antiche fiamme risuscitatevi tutte subitamente mutò in tanta pietà, come ella il viso morto vide, che sotto il mantel chiusa, tra donna e donna mettendosi, non ristette prima che al corpo fu pervenuta; e quivi, mandato fuori uno altissimo strido, sopra il morto giovane si gittò col suo viso, il quale non bagnò di molte lagrime, per ciò che prima nol toccò che, come al giovane il dolore la vita aveva tolta, così a costei tolse. Ma poi che, riconfortandola le donne e dicendole che su si levasse alquanto, non conoscendola ancora, e poi che ella non si levava, levar volendola e immobile trovandola, pur sollevandola, a una ora lei essere la Salvestra e morta conobbero; di che tutte le donne che quivi erano, vinte da doppia pietà, rincominciarono il pianto assai maggiore.

 

Sparsesi fuor della chiesa tra gli uomini la novella: la quale pervenuta agli orecchi del marito di lei, che tra loro era, senza ascoltare consolazione o conforto da alcuno per lungo spazio pianse; e poi a assai di quegli che v’erano raccontata la istoria stata la notte di questo giovane e della moglie, manifestamente per tutti si seppe la cagione della morte di ciascuno, il che a tutti dolfe. Presa adunque la morta giovane e lei così ornata come s’acconciano i corpi morti, sopra quel medesimo letto allato al giovane la posero a giacere, e quivi lungamente pianta, in una medesima sepoltura furono sepelliti amenduni: e loro, li quali amor vivi non aveva potuti congiugnere, la morte congiunse con inseparabile compagnia.

NOVELLA NONA

Messer Guglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo poi, si gitta da un’alta finestra in terra e muore, e col suo amante è sepellita.

Essendo la novella di Neifile finita, non senza aver gran compassion messa in tutte le sue compagne, il re, il quale non intendeva di guastare il privilegio di Dioneo, non essendovi altri a dire, incominciò.

Èmmisi parata dinanzi, pietose donne, una novella alla qual, poi che così degl’infortunati casi d’amore vi duole, vi converrà non meno di compassione avere che alla passata, per ciò che da più furono coloro a’ quali ciò che io dirò avvenne e con più fiero accidente che quegli de’ quali è parlato.

Dovete adunque sapere che, secondo che raccontano i provenzali, in Provenza furon già due nobili cavalieri, de’ quali ciascuno e castella e vassalli aveva sotto di sé: e aveva l’un nome messer Guiglielmo Rossiglione e l’altro messer Guiglielmo Guardastagno. E perciò che l’uno e l’altro era prod’uomo molto nell’arme, s’armavano assai e in costume avean d’andar sempre a ogni torneamento o giostra o altro fatto d’arme insieme e vestiti d’una assisa. E come che ciascun dimorasse in un suo castello e fosse l’uno dall’altro lontano ben diece miglia, pure avvenne che, avendo messer Guiglielmo Rossiglione una bellissima e vaga donna per moglie, messer Guiglielmo Guardastagno fuor di misura, non obstante l’amistà e la compagnia che era tra loro, s’innamorò di lei e tanto or con uno atto or con un altro fece, che la donna se n’accorse; e conoscendolo per valorosissimo cavaliere le piacque e cominciò a porre amore a lui, in tanto che niuna cosa più che lui disiderava o amava, né altro attendeva che da lui esser richesta: il che non guari stette che adivenne, e insieme furono una volta e altra amandosi forte.

E men discretamente insieme usando, avvenne che il marito se n’accorse e forte ne sdegnò, in tanto che il grande amore che al Guardastagno portava in mortale odio convertì; ma meglio il seppe tener nascoso che i due amanti non avevan saputo tenere il loro amore, e seco diliberò del tutto d’ucciderlo. Per che, essendo il Rossiglione in questa disposizione, sopravenne che un gran torneamento si bandì in Francia; il che il Rossiglione incontanente significò al Guardastagno e mandogli a dire che, se a lui piacesse, da lui venisse e insieme diliberrebbono se andar vi volesseno e come. Il Guardastagno lietissimo rispose che senza fallo il dì seguente andrebbe a cenar con lui.

Il Rossiglione, udendo questo, pensò il tempo esser venuto da poterlo uccidere; e armatosi, il dì seguente con alcun suo famigliare montò a cavallo e forse un miglio fuori del suo castello in un bosco si ripuose in aguato donde doveva il Guardastagno passare. E avendolo per un buono spazio atteso, venir lo vide disarmato con due famigliari appresso disarmati, sì come colui che di niente da lui si guardava; e come in quella parte il vide giunto dove voleva, fellone e pieno di maltalento, con una lancia sopra mano gli uscì adosso gridando: «Traditor, tu se’ morto!», e il così dire e il dargli di questa lancia per lo petto fu una cosa. Il Guardastagno, senza potere alcuna difesa fare o pur dire una parola, passato di quella lancia cadde e poco appresso morì. I suoi famigliari, senza aver conosciuto chi ciò fatto s’avesse, voltate le teste de’ cavalli, quanto più poterono si fuggirono verso il castello del lor signore. Il Rossiglione, smontato, con un coltello il petto del Guardastagno aprì e con le proprie mani il cuor gli trasse, e quel fatto avviluppare in un pennoncello di lancia, comandò a un de’ suoi famigliari che nel portasse; e avendo a ciascun comandato che niun fosse tanto ardito, che di questo facesse parola, rimontò a cavallo e essendo già notte al suo castello se ne tornò.

La donna, che udito aveva il Guardastagno dovervi esser la sera a cena e con disidero grandissimo l’aspettava, non vedendol venir si maravigliò forte e al marito disse: «E come è così, messer, che il Guardastagno non è venuto?»

A cui il marito disse: «Donna, io ho avuto da lui che egli non ci può essere di qui domane», di che la donna un poco turbatetta rimase.

Il Rossiglione, smontato, si fece chiamare il cuoco e gli disse: «Prenderai quel cuor di cinghiare e fa’ che tu ne facci una vivandetta la migliore e la più dilettevole a mangiar che tu sai; e quando a tavola sarò, me la manda in una scodella d’argento.» Il cuoco, presolo e postavi tutta l’arte e tutta la sollecitudine sua, minuzzatolo e messevi di buone spezie assai, ne fece un manicaretto troppo buono.

Messer Guiglielmo, quando tempo fu, con la sua donna si mise a tavola. La vivanda venne, ma egli, per lo maleficio da lui commesso nel pensiero impedito, poco mangiò. Il cuoco gli mandò il manicaretto, il quale egli fece porre davanti alla donna, sé mostrando quella sera svogliato, e lodogliele molto. La donna, che svogliata non era, ne cominciò a mangiare e parvele buono; per la qual cosa ella il mangiò tutto.

Come il cavaliere ebbe veduto che la donna tutto l’ebbe mangiato, disse: «Donna, chente v’è paruta questa vivanda?»

La donna rispose: «Monsignore, in buona fé ella m’è piaciuta molto.»

«Se m’aiti Idio,» disse il cavaliere «io il vi credo, né me ne maraviglio se morto v’è piaciuto ciò che vivo più che altra cosa vi piacque.»

La donna, udito questo, alquanto stette; poi disse: «Come? che cosa è questa che voi m’avete fatta mangiare?»

Il cavalier rispose: «Quello che voi avete mangiato è stato veramente il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno, il qual voi come disleal femina tanto amavate; e sappiate di certo che egli è stato desso, per ciò che io con queste mani gliele strappai, poco avanti che io tornassi, del petto.»

La donna, udendo questo di colui cui ella più che altra cosa amava, se dolorosa fu non è da dimandare; e dopo alquanto disse: «Voi faceste quello che disleale e malvagio cavalier dee fare; ché se io, non isforzandomi egli, l’avea del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne doveva la pena portare. Ma unque a Dio non piaccia che sopra a così nobil vivanda, come è stata quella del cuore d’un così valoroso e così cortese cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai altra vivanda vada!»

E levata in piè, per una finestra, la quale dietro a lei era, indietro senza altra diliberazione si lasciò cadere. La finestra era molto alta da terra, per che, come la donna cadde, non solamente morì ma quasi tutta si disfece. Messer Guiglielmo, vedendo questo, stordì forte e parvegli aver mal fatto; e temendo egli de’ paesani e del conte di Proenza, fatti sellare i cavalli, andò via.

La mattina seguente fu saputo per tutta la contrata come questa cosa era stata: per che da quegli del castello di messer Guiglielmo Guardastagno e da quegli ancora del castello della donna, con grandissimo dolore e pianto, furono i due corpi ricolti e nella chiesa del castello medesimo della donna in una medesima sepoltura fur posti, e sopr’essa scritti versi significanti chi fosser quegli che dentro sepolti v’erano, e il modo e la cagione della lor morte.

NOVELLA DECIMA

La moglie d’un medico per morto mette un suo amante adoppiato in una arca, la quale con tutto lui due usurari se ne portano in casa; questi si sente, è preso per ladro; la fante della donna racconta alla signoria sé averlo messo nell’arca dagli usurieri imbolata, laonde egli scampa dalle forche e i prestatori d’avere l’arca furata son condennati in denari.

Solamente a Dioneo, avendo già il re fatto fine al suo dire, restava la sua fatica; il quale ciò conoscendo, e già dal re essendogli imposto, incominciò.

Le miserie degl’infelici amori raccontate, non che a voi, donne, ma a me hanno già contristati gli occhi e ’l petto, per che io sommamente disiderato ho che a capo se ne venisse. Ora, lodato sia Idio, che finite sono (salvo se io non volessi a questa malvagia derrata fare una mala giunta, di che Idio mi guardi), senza andar più dietro a così dolorosa materia, da alquanto più lieta e migliore incomincerò, forse buono indizio dando a ciò che nella seguente giornata si dee raccontare.

Dovete adunque sapere, bellissime giovani, che ancora non è gran tempo che in Salerno fu un grandissimo medico in cirugia, il cui nome fu maestro Mazzeo della Montagna. Il quale, già all’ultima vecchiezza venuto, avendo presa per moglie una bella e gentil giovane della sua città, di nobili vestimenti e ricchi e d’altre gioie e tutto ciò che a una donna può piacere meglio che altra della città teneva fornita; vero è che ella il più del tempo stava infreddata, sì come colei che nel letto era male dal maestro tenuta coperta. Il quale, come messer Riccardo di Chinzica, di cui dicemmo, alla sua insegnava le feste, così costui a costei mostrava che il giacere con una donna una volta si penava a ristorar non so quanti dì, e simili ciance; di che ella viveva pessimamente contenta.

E sì come savia e di grande animo, per potere quello da casa risparmiare, si dispose di gittarsi alla strada e voler logorar dell’altrui; e più e più giovani riguardati, alla fine uno ne le fu all’animo, nel quale ella pose tutta la sua speranza, tutto il suo animo e tutto il ben suo. Di che il giovane accortosi, e piacendogli forte, similmente in lei tutto il suo amor rivolse. Era costui chiamato Ruggieri d’Aieroli, di nazion nobile ma di cattiva vita e di biasimevole stato, in tanto che parente né amico lasciato s’avea che ben gli volesse o che il volesse vedere; e per tutto Salerno di ladronecci e d’altre vilissime cattività era infamato, di che la donna poco curò, piacendogli esso per altro; e con una sua fante tanto ordinò, che insieme furono. E poi che alquanto diletto preso ebbero, la donna gli cominciò a biasimare la sua passata vita e a pregarlo che, per amor di lei, di quelle cose si rimanesse; e a dargli materia di farlo lo incominciò a sovenire quando d’una quantità di denari e quando d’un’altra.

E in questa maniera perseverando insieme assai discretamente, avvenne che al medico fu messo tralle mani uno infermo, il quale aveva guasta l’una delle gambe: il cui difetto avendo il maestro veduto, disse a’ suoi parenti che, dove uno osso fracido il quale aveva nella gamba non gli si cavasse, a costui si convenia del tutto o tagliar tutta la gamba o morire, e a trargli l’osso potrebbe guerire, ma che egli altro che per morto nol prenderebbe; a che accordatisi coloro a’ quali apparteneva, per così gliele diedero. Il medico, avvisando che l’infermo senza essere adoppiato non sosterrebbe la pena né si lascerebbe medicare, dovendo attendere in sul vespro a questo servigio, fé la mattina d’una sua certa composizione stillare una acqua la quale l’avesse, bevendola, tanto a far dormire quanto esso avvisava di doverlo poter penare a curare; e quella fattasene venire a casa, nella sua camera la pose senza dire a alcuno ciò che si fosse.

Venuta l’ora del vespro, dovendo il maestro andare a costui, gli venne un messo da certi suoi grandissimi amici d’Amalfi che egli non dovesse lasciar per cosa alcuna che incontanente là non andasse, per ciò che una gran zuffa stata v’era, di che molti v’erano stati fediti. Il medico, prolungata nella seguente mattina la cura della gamba, salito in su una barchetta n’andò a Amalfi; per la qual cosa la donna, sappiendo lui la notte non dovere tornare a casa, come usata era, occultamente si fece venir Ruggieri e nella sua camera il mise e dentro il vi serrò infino a tanto che certe altre persone della casa s’andassero a dormire.

 

Standosi adunque Ruggier nella camera e aspettando la donna, avendo o per fatica il dì durata o per cibo salato che mangiato avesse o forse per usanza una grandissima sete, gli venne nella finestra veduta questa guastadetta d’acqua la quale il medico per lo ’nfermo aveva fatta, e credendola acqua da bere, a bocca postalasi, tutta la bevé: né stette guari che un gran sonno il prese, e fusi adormentato. La donna come prima poté nella camera se ne venne, e trovato Ruggier dormendo lo ’ncominciò a tentare e a dire con sommessa voce che su si levasse; ma questo era niente, egli non rispondeva né si movea punto; per che la donna alquanto turbata con più forza il sospinse dicendo: «Leva su, dormiglione, ché, se tu volevi dormire, tu te ne dovevi andare a casa tua e non venir qui.»

Ruggieri, così sospinto, cadde a terra d’una cassa sopra la quale era, né altra vista d’alcun sentimento fece che avrebbe fatto un corpo morto; di che la donna, alquanto spaventata, il cominciò a voler rilevare e a menarlo più forte e a prenderlo per lo naso e a tirarlo per la barba, ma tutto era nulla: egli aveva a buona caviglia legato l’asino. Per che la donna cominciò a temere non fosse morto, ma pure ancora gl’incominciò a strignere agramente le carni e a cuocerlo con una candela accesa, ma niente era; per che ella, che medica non era come che medico fosse il marito, senza alcun fallo lui credette esser morto; per che, amandolo sopra ogni altra cosa come facea, se fu dolorosa non è da domandare; e non osando far romore, tacitamente sopra lui cominciò a piagnere e a dolersi di così fatta disaventura.

Ma dopo alquanto, temendo la donna di non aggiugnere al suo danno vergogna, pensò che senza alcuno indugio da trovare era modo come lui morto si traesse di casa; né a ciò sappiendosi consigliare, tacitamente chiamò la sua fante e la sua disaventura mostratale le chiese consiglio. La fante, maravigliandosi forte e tirandolo ancora ella e strignendolo e senza sentimento vedendolo, quel disse che la donna dicea, cioè veramente lui esser morto, e consigliò che da metterlo fuori di casa era.

A cui la donna disse: «E dove il potrem noi porre, che egli non si suspichi domattina, quando veduto sarà, che di qua entro sia stato tratto?»

A cui la fante rispose: «Madonna, io vidi questa sera al tardi di rimpetto alla bottega di questo legnaiuolo nostro vicino un’arca non troppo grande, la quale, se il maestro non ha riposta in casa, verrà troppo in concio a’ fatti nostri, per ciò che dentro vel potrem mettere e dargli due o tre colpi d’un coltello e lasciarlo stare. Chi in quella il troverà, non so perché più di qua entro che d’altronde vi sel creda messo; anzi si crederà, per ciò che malvagio giovane è stato, che, andando a fare alcun male, da alcun suo nemico sia stato ucciso e poi messo nell’arca.»

Piacque alla donna il consiglio della fante, fuor che di dargli alcuna fedita, dicendo che non le potrebbe per cosa del mondo sofferir l’animo di ciò fare: e mandolla a vedere se quivi fosse l’arca dove veduta l’avea; la qual tornò e disse di sì. La fante adunque, che giovane e gagliarda era, dalla donna aiutata sopra le spalle si pose Ruggieri, e andando la donna innanzi a guardar se persona venisse, venute all’arca dentro vel misero e richiusala il lasciarono stare.

Erano di quei dì alquanto più oltre tornati in una casa due giovani li quali prestavano a usura: e volonterosi di guadagnare assai e di spender poco, avendo bisogno di masserizie, il dì davanti avean quella arca veduta e insieme posto che, se la notte vi rimanesse, di portarnela in casa loro. E venuta la mezzanotte, di casa usciti, trovandola, senza entrare in altro raguardamento prestamente, ancora che lor gravetta paresse, ne la portarono in casa loro e allogaronla allato a una camera dove lor femine dormivano, senza curarsi d’acconciarla troppo appunto allora; e lasciatala stare se n’andarono a dormire.

Ruggieri, il quale grandissima pezza dormito avea e già aveva digesto il beveraggio e la vertù di quel consumata, essendo vicino a matutin si destò: e come che rotto fosse il sonno e’ sensi avessero la loro vertù recuperata, pur gli rimase nel cerebro una stupefazione la quale non solamente quella notte ma poi parecchie dì il tenne stordito; e aperti gli occhi e non veggendo alcuna cosa e sparte le mani in qua e in là, in questa arca trovandosi cominciò a smemorare e a dir seco: «Che è questo? dove sono io? dormo io? o son desto? Io pur mi ricordo che questa sera io venni nella camera della mia donna, e ora mi pare essere in una arca. Questo che vuol dire? Sarebbe il medico tornato o altro accidente sopravenuto, per lo quale la donna, dormendo io, qui m’avesse nascoso? Io il credo, e fermamente così serà.»

E per questo cominciò a star cheto e a ascoltare se alcuna cosa sentisse; e così gran pezza dimorato, stando anzi a disagio che no nell’arca che era piccola e dogliendogli il lato in su il quale era, in su l’altro volger vogliendosi sì destramente il fece, che, dato delle reni nell’un de’ lati dell’arca, la quale non era stata posta sopra luogo iguali, la fé piegare e appresso cadere; e cadendo fece un gran romore, per lo quale le femine che ivi allato dormivano si destarono e ebber paura e per paura tacettono.

Ruggieri per lo cader dell’arca dubitò forte, ma sentendola per lo cadere aperta volle avanti, se altro avvenisse, esserne fuori che starvi dentro. E tra che egli non sapeva dove si fosse e una cosa e un’altra, cominciò a andar brancolando per la casa per sapere se scala o porta trovasse donde andarsene potesse. Il qual brancolare sentendo le femine che deste erano, cominciarono a dire: «Chi è là?» Ruggieri, non conoscendo la boce, non rispondea: per che le femine cominciarono a chiamare i due giovani, li quali, per ciò che molto vegghiato aveano, dormivan forte né sentivano d’alcuna di queste cose niente. Laonde le femine più paurose divenute, levatesi e fattesi a certe finestre, cominciarono a gridare «Al ladro, al ladro!»: per la qual cosa per diversi luoghi più de’ vicini, chi su per li tetti e chi per una parte e chi per un’altra, corseno e entrar nella casa, e i giovani similmente desti a questo romor si levarono.

E Ruggieri, il quale quivi vedendosi, quasi di sé per maraviglia uscito, né da qual parte fuggir si dovesse o potesse vedea, preso dierono nelle mani della famiglia del rettor della terra, la qual quivi già era al romor corsa; e davanti al rettor menatolo, per ciò che malvagissimo era da tutti tenuto, senza indugio messo al martorio confessò nella casa del prestatore essere per imbolare entrato; per che il rettore pensò di doverlo senza troppo indugio fare impiccar per la gola.

La novella fu la mattina per tutto Salerno che Ruggieri era stato preso a imbolare in casa de’ prestatori; il che la donna e la sua fante udendo, di tanta maraviglia e di sì nuova fur piene, che quasi eran vicine di far credere a se medesime che quello che fatto avevan la notte passata non l’avesser fatto ma avesser sognato di farlo: e oltre a questo del pericolo nel quale Ruggieri era la donna sentiva sì fatto dolore, che quasi n’era per impazzare. Non guari appresso la mezza terza il medico, tornato da Amalfi, domandò che la sua acqua gli fosse recata, per ciò che medicare voleva il suo infermo; e trovandosi la guastadetta vota, fece un gran romore che niuna cosa in casa sua durar poteva in istato.