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Istoria civile del Regno di Napoli, v. 7

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Che il Papa non contrariasse a Cesare nelle cose di Milano e di Napoli: gli concedesse la Crociata in Ispagna, ed una decima delle entrate ecclesiastiche in tutti li suoi Regni: rimanessero per sicurtà dell'osservanza in mano di Cesare, Ostia, e Civitavecchia: consegnassegli Civita Castellana, la Rocca di Forlì; e per Istatichi Ippolito ed Alessandro suoi nipoti, ed insino a tanto, che costoro venissero da Parma, dove allora trovavansi, i Cardinali Pifano, Trivulzio e Gaddi, che furono condotti dagl'Imperiali nel Regno di Napoli.

(Il Varchi339 aggiunge, che furono condotti nel Castel Nuovo, dove per più tempo furono guardati).

Pagasse subilo il Papa a' Tedeschi ducati settantasettemila, con questo che lo lasciassero libero con tutti i Cardinali, con potersene uscire da Roma e dal Castello: chiamandosi libero ogni qual volta fosse condotto salvo in Orvieto, Spoleto, o Perugia, e fra quindici dì dopo l'uscita di Roma pagasse altrettanti denari a' Tedeschi; ed il resto poi (che ascendeva col primi a ducati più di trecentocinquantamila) pagasse infra tre mesi a' Tedeschi e Spagnuoli secondo le rate loro.

Fra queste condizioni le più dure furono quelle dello sborso di tanto denaro, che portò discordie grandissime ed inuditi scandali. Per soddisfare i primi 150 mila ducati, secondo l'accordo prima fatto nel principio della prigionia, bisognò al Pontefice con grandissima difficultà ricavarli parte in danari, parte con partiti fatti con Mercatanti genovesi sopra le decime del nostro Regno di Napoli, e sopra la vendita di Benevento: ma appena soddisfatti i soldati di questa somma, dimandarono per il resto de' denari promessi altre sicurtà ed altro assegnamento di quello erasi loro fatto sopra varie imposizioni per lo Stato Ecclesiastico: cose tutte impossibili ad eseguirsi da un Papa incarcerato; e pure dopo molte minacce fatte agli Statichi, e di tenerli incatenati con grandissima acerbità, li condussero ignominiosamente in Campo di Fiore, dove rizzarono le forche, come se incontanente volessero prendere di loro quel supplicio. Ora, che in esecuzione di questa nuova concordia, per uscir di prigione doveano pagar somme sì immense, bisognò a Clemente venire a que' estremi rimedj, a' quali non avea voluto prima ricorrere. Creò per danari alcuni Cardinali, con esporre all'incanto quella dignità, della quale si videro decorate persone la maggior parte indegne di tanto onore. Per il resto concedette nel nostro Reame di Napoli le Decime sopra i beni delle Chiese ed Ecclesiastici, e la facoltà d'alienare i beni Ecclesiastici; convertendosi per concessione del Vicario di Cristo (così sono profondi li giudicj Divini) in uso ed in sostentazione d'eretici quel ch'era dedicato al Culto di Dio: si pose mano agli Spogli delle Chiese vacanti ed incamerazioni, e furono inventati altri mezzi per cavar denari.

(Il Varchi narra340 che pubblicamente, e poco meno, che messi all'incanto, furono a prezzo venduti sette Cappelli di Cardinali).

Con questi modi avendo stabilito ed assicurato di pagare a' tempi promessi, dette anche per istatichi, per la sicurtà de' soldati, li Cardinali Cesis ed Orsino, che furono condotti dal Cardinal Colonna a Grottaferrata; ed il Papa temendo non la mala volontà, che sapeva avere contra lui D. Ugo nostro Vicerè, sturbasse ogni cosa, affrettò l'uscita, e la notte degli 8 di dicembre di quest'anno 1527, senza aspettar il nuovo giorno statuito alla sua uscita, segretamente ed In abito di Mercatante uscì dal Castello, e portossi frettolosamente in Orvieto, nella quale Città entrò di notte, non accompagnato da alcuno de' Cardinali. Esempio certamente, come scrive il Guicciardino341, molto considerabile, e forse non mai, da poi che la Chiesa fu grande, accaduto. Un Pontefice caduto di tanta potenza e riverenza, essere custodito prigione, perduta Roma e tutto lo Stato, e ridotto in potestà d'altri. Il medesimo nello spazio di pochi mesi restituito alla libertà, rilasciatogli lo Stato occupato, ed in brevissimo tempo già ritornato alla pristina grandezza. Tanta era appresso a' Principi Cristiani l'autorità del Pontificato, ed il rispetto che da tutti gli era portato.

CAPITOLO IV
Spedizione di Lautrech sopra il Regno di Napoli, sue conquiste, sua morte e disfacimento del suo esercito, onde l'impresa riuscì senza successo. Rigori praticati dal Principe d'Oranges contra i Baroni incolpati d'aver aderito a' Franzesi

L'anno 1528342 fu pur troppo infelice al Regno di Napoli, perchè combattuto da tre Divini flagelli, di guerra, di fame e di peste, poco mancò, che non vedesse l'ultima sua desolazione. La peste, che sin dal mese di Settembre del passato anno cominciò a farsi sentire in Napoli, vie più crescendo riempiva d'orrore il Regno.

Dall'altra parte, dopo la liberazione del Pontefice, rotto ogni trattato di pace, avendo gli Ambasciadori del Re di Francia e d'Inghilterra intimata a Cesare la guerra, accelerossi la venuta di Lautrech alla conquista del Regno, ed essendosi già congiunta l'armata Franzese guidata dall'Ammiraglio Andrea Doria con quella de' Vineziani per l'impresa di Sardegna, per facilitare la guerra di Napoli, essendo sbattuta da venti, vennero a scorrere le riviere del Regno, per dar maggior calore all'impresa di Lautrech, il quale non aspettando la Primavera, il dì 9 di gennajo partì di Bologna, dove avea svernato colle sue genti, e per la via di Romagna e della Marca arrivò sul fiume Tronto (confine tra lo Stato Ecclesiastico ed il Regno) il decimo dì di febbrajo, dove trovò ogni cosa sprovveduta, onde gli fu facile d'impadronirsi di buona parte dell'Apruzzo e della Città dell'Aquila, dove fatta la rassegna delle sue truppe, le ritrovò ch'erano 30 mila persone a piedi e cinquemila a cavallo343.

Avrebbe fatto il simigliante in brevissimo tempo in tutto il Regno, perchè, o fosse per l'affezione al nome de' Franzesi, o per l'odio a quello de' Spagnuoli, tutte le Terre dell'uno e l'altro Apruzzo anticipavano a rendersi vinticinque o trenta miglia innanzi alla venuta dell'esercito. Ma l'esercito imperiale uscito di Roma ritardò il fortunato suo corso, e gli fece abbandonare il cammino dritto, che avea preso verso Napoli, non si fidando per li monti condurre le artiglierie, il cui trasporto per ogni picciola opposizione dei nemici poteva essere impedito; e perciò Lautrech fu costretto di pigliare il cammino più lungo di Puglia a canto alla marina.

Intanto l'esercito imperiale comandato dal Principe d'Oranges, che in luogo del Duca Borbone era stato dall'Imperadore creato Capitan Generale, s'incamminò alla volta del Regno per opporsi a' nemici. Il Principe d'Oranges comandava i Tedeschi, il Marchese del Vasto, che di mala voglia ubbidiva al Principe, comandava l'infanteria spagnuola, e D. Ferrante Gonzaga la Cavalleria. In Puglia presso Troja venuti gli eserciti a fronte, non si diede battaglia, ma si trattennero alquanti dì in semplici scaramucce e scorrerie. Ma poco da poi, a' 22 marzo, Lautrech incamminatosi alla volta di Melfi, prese per assalto quella Città, facendovi prigione il Principe Sergianni Caracciolo, che valorosamente la difendeva, e gli Spagnuoli si ritirarono alla Tripalda. Presa Melfi, si rese Ascoli, Barletta, Venosa e tutte l'altre Terre convicine. Trani e Monopoli, nel medesimo tempo si resero ai Vineziani; poichè secondo l'ultime convenzioni fatte col Re di Francia, s'acquistavano ad essi tutti que' Porti del Regno, che possedevano innanzi alla rotta ricevuta dal Re Luigi nella Chiaradadda.

I Capitani imperiali giunti alla Tripalda si abboccarono col Vicerè D. Ugo, col Principe di Salerno e Fabrizio Marramaldo, che ivi erano accorsi con tremila fanti Italiani e diece pezzi d'artiglieria; e tutti di comun accordo conchiusero di ritirarsi in Napoli ed a Gaeta alla difesa di quelle Città, come fecero, abbandonando tutto il Paese circostante. Allora Lautrech s'incamminò col suo esercito verso Napoli, e nel passaggio arrenderonsi a lui Capua, Nola, Acerra, Aversa e tutte le Terre circostanti, alloggiando quattro dì nell'Acerra, donde spedì Simone Tebaldi romano con 15 °Cavalli leggieri e 50 °Corsi disertati dal Campo imperiale per non essere pagati, all'impresa di Calabria. E già Filippino Doria, con otto Galee d'Andrea Doria e due Navi, era venuto alla spiaggia di Napoli, e fatto con l'artiglierie disloggiare gl'Imperiali dalla Maddalena. Ma le sue Galee non bastavano a tenere totalmente assediato il Porto di Napoli; perciò Lautrech sollecitava le Galee de' Vineziani, che venissero ad unirsi con le Genovesi, e quelle dopo essersi lentamente rimesse in ordine a Corfu, erano venute nel Porto di Trani: ma esse (quantunque già si fossero arrendute loro le città di Trani e di Monopoli) preponendo i comodi proprj agli alieni (benchè dalla vittoria di Napoli dependessero tutte le cose) ritardavano per pigliare prima Poligano, Otranto e Brindisi; a' 19 di aprile il Provveditore degli Stradiotti Andrea Civrano, che militava per li Vineziani, ruppe presso la Vetrana il Vicerè della Provincia d'Otranto, il quale a gran fatica si salvò a Gallipoli col Duca di S. Pietro in Galatina; e Lecce Metropoli di quella Provincia e S. Pietro in Galatina con tutte le altre Terre circostanti si resero344.

 

Intanto per sì fortunati successi delle armi della Lega, vedendosi già Lautrech avvicinato alle mura di Napoli, fu dibattuto da' Capitani Imperiali il modo della difesa; il Marchese del Vasto era di parere, unito l'esercito in Napoli, che s'alloggiasse fuori delle mura, parendogli viltà d'animo lo inserrarsi dentro; ma prevalse il parer contrario del Vicerè Moncada, del Principe d'Oranges, di D. Ferrante Gonzaga, dell'Alarcone e di tutti gli altri Capitani di ritirarsi dentro. In Napoli eran rimasi pochissimi abitatori, perchè tutti quelli che aveano o facoltà o qualità, s'erano ritirati, chi ad Ischia, chi a Capri e chi all'altre Isole vicine. I Baroni che vi eran rimasi, erano di sospetta fede, perchè sebbene all'avviso della venuta di Lautrech, s'erano molti Baroni e li più potenti e ricchi offerti al Vicerè Moncada di spendere il sangue e la roba in servizio di Cesare; nulladimeno per aver egli composta la maggior parte di quelli in denaro contante, in vece del servizio personale, e data loro licenza di potere alzare in caso di necessità le bandiere di Francia, senza che fosse loro imputato a fellonia o ribellione (oltre di molti altri che vi erano dentro della fazione Angioina) fu riputato savio consiglio, a fine di tener la Città sicura di qualche rivoluzione, che l'esercito si ritirasse dentro le mura della Città. Il popolo, alcuni per timore, altri per l'odio del nome spagnuolo, avea parimente bisogno di coraggio e di freno. Ed in fatti fu tale il suo timore, quando vide l'esercito Franzese alla vista della Città, che non si vedea altro per le strade, che processioni, e non s'udivano che pubbliche preci, e dimandar pietade; tanto che il Marchese del Vasto fu costretto ricorrere al Vicerè Moncada, perchè quelle si proibissero, come fu fatto, con incoraggir il popolo, che stasse di buon animo, e che le orazioni si facessero privatamente nelle Chiese e ne' Monasteri345.

Ma tutte queste insinuazioni niente giovarono, quando il primo sabato di maggio, che in quell'anno fu alli 2 di quel mese, non si vide secondo il solito liquefarsi il sangue alla vista del Capo di S. Gennaro lor Protettore346. Allora sì che s'ebbero per perduti e la Città nell'ultima costernazione. Ma come più innanzi diremo, fur vani gl'infausti pronostici, e seguirono effetti tutti contrari.

Il famoso Lautrech, il penultimo di d'aprile, alloggiò il suo esercito tra Poggio Reale ed il Monte di San Martino, distendendosi le sue genti insino a mezzo miglio, ed egli si mise più innanzi di Poggio Reale in una collina nella Vigna del Duca di Montalto, la quale d'allora in poi mutò nome, e sin oggi vien quel luogo appellato Lotrecco. Il celebre Pietro Navarra, Cantabro, che prima militando sotto l'insegna di Cesare, per mala soddisfazione portossi da poi al servigio di Francia, alloggiò in quelle colline, che sono all'incontro la Porta di S. Gennaro, e si distendono per fino al Monte di S. Martino.

Il Principe d'Oranges, dall'altra parte, fece subito fortificare il Monte di S. Martino, acciò che non fosse occupato da' Franzesi, i quali s'erano accampati negli altri vicini colli; ed allora fu, che fece abbattere la Torre del Sannazaro a Mergellina, luogo destinato da lui per le Muse: onde questo Poeta pieno di sdegno andossene in Roma, dove morì senza veder più Napoli; nè mancò per l'indignazione conceputa, ne' suoi versi covertamente malmenare così il Principe, come gli Spagnuoli, a' quali e per l'amore de' Re d'Aragona di Napoli suoi benefattori, e per l'odio conceputo al nome loro, avea notabile avversione. E narrasi, che trovandosi in Roma gravemente infermo e fuor d'ogni speranza di sua salute, intesa prima di morire la morte del Principe, si rallegrasse non poco, dicendo che Marte avea voluto già far vendetta delle Muse, da costui oltraggiate.

Non mancava in oltre provveder Napoli di frumento e d'ogni altra munizione così di bocca, come di guerra, per far valida difesa: e si cominciò ancora ad arrolare molta gente del popolo napoletano adatta all'armi per servirsene ne' bisogni: ma non altrimenti, che de' servi accadde in Roma, avvenne in Napoli dei suoi Cittadini. Il Senato Romano, che per togliere la confusione che vi era nella Città ripiena di tanti servi, avea deliberato, perchè si distinguessero da liberi Cittadini Romani, di contrassegnargli negli abiti con una nota distinta, quando vidde che per l'eccessivo lor numero, con notarsi con quel marco i servi, come dice Seneca, avrebbero saputa quanto era grande la lor forza, s'astenne di farlo. Così gli Spagnuoli fecero in Napoli in questa occasione; poichè avvedendosi, che con arrolarne tanti, il popolo Napoletano avrebbe ben conosciuta la forza che teneva nella sua moltitudine, i Capitani spagnuoli dissuasero al Principe d'Oranges, ed al Vicerè Moncada, che non si seguitasse il rollo cominciato, e così levaron mano, e s'astennero di proseguirlo347.

Intanto, mentre si consumava il tempo in varie e spesse scaramucce dalle genti dell'uno e l'altro esercito, Lautrech non volle tentar l'espugnazione di Napoli, così per la moltitudine e valore de' defensori, come perchè sperava, che a' nemici dovessero mancar denari e vettovaglie, e prolungando l'assedio, siccome avea ridotto a sua divozione la maggior parte del Regno e molti Baroni, che si diedero al partito del Re di Francia; così credeva fermamente, e n'avea data certezza al suo Re, che Napoli fra breve avrebbe dovuto rendersi. Confermollo in questa speranza la sconfitta, che alquanti dì da poi diede Filippino Doria all'armata imperiale nel Golfo di Salerno.

Erano entrati in speranza il Principe d'Oranges, ed il Vicerè Moncada di rompere l'armata di Filippino, e sollecitavano l'impresa prima che sopraggiungessero nuovi ajuti; perchè Andrea Doria con le Galee, ch'erano a Genova non si movea; dell'armata preparata a Marsiglia non s'intendeva cos'alcuna, e l'armata vineziana, li quale intenta più all'interesse proprio, che al beneficio comune, anzi più tosto agli interessi minori ed accessorj, che agli interessi principali, attendeva alla spedizione di Brindisi e di Otranto, delle quali città, Otranto avea convenuto di arrendersi, se fra sedici dì non era soccorso, ed in Brindisi, benchè per accordo avesse ammesso i Vineziani, si tenevano ancora le Fortezze in nome di Cesare.

Ma prima d'avviarsi all'impresa, bisognò comporre una grave contesa insorta tra il Vicerè di Moncada, ed il Principe d'Oranges intorno al comando dell'armata. Furono questi due Capitani in continue gare: il Principe d'Oranges come Capitan Generale, sustituito da Cesare in luogo del Duca Borbone, pretendeva l'assoluto comando sopra tutti: il Vicerè come Capitan Generale del Regno, ove la guerra si faceva, pretendeva all'incontro non ubbidirlo; e questa divisione separò gli eserciti, con grave danno di Cesare, in due fazioni, chi seguitava la parte del Vicerè, chi quella del Generale Oranges. Nel comandare l'armata navale sursero vie più fiere le competenze; il Principe, come Generale dell'esercito, voleva a se arrogarsi il comando; D. Ugo ostinatamente repugnava, poichè, oltre il carico di Vicerè, si trovava egli allora anche G. Ammiraglio del Regno, a cui s'apparteneva il pensiero, e comando delle cose del mare. Non volendo l'un cedere all'altro, per non ritardare l'espedizione, fu risoluto che si desse il comando di quella impresa al Marchese del Vasto, ed al Gobbo Giustiniano nelle cose marittime veterano e famoso Capitano. D. Ugo per mostrar il suo valore e zelo, vi volle andare da semplice soldato, ed il suo esempio mosse Ascanio e Camillo Colonna, Cesare Ferramosca, il Principe di Salerno ed altri ad andarvi. Non vi erano nel Porto di Napoli che sei Galee e due Vascelli, ed il maggior fondamento non si faceva in sul numero, ma nella virtù de' combattenti, perchè empirono i loro legni di mille archibugieri spagnuoli de' più valorosi; e per ispaventare i nemici di lontano col prospetto di maggiore numero di legni, v'aggiunsero molte barche di Pescatori. Partirono il primo dì di giugno da Posilippo, e s'incamminarono alla volta di Capri: dove arrivati allo spuntar del 'giorno, videro i naviganti uscir da una spelonca un Romito spagnuolo assai noto, chiamato Consalvo Barretto, il quale essendo prima soldato, lasciata la milizia, erasi in quel luogo ritirato a menar vita solitaria. Costui vedendo le Galee imperiali, gridando ad alta voce, fece sì che D. Ugo con grandissimo pregiudizio di quell'impresa perdesse tempo ad udirlo. Egli assicurava l'armata, dandogli più benedizioni, che andasse pur felice a valorosamente combattere, perchè secondo l'apparizioni, che egli avea avute la notte, dovea ella rovinare i vascelli nemici, ammazzar molta gente, e per questa battaglia liberare il Regno di Napoli dall'oppressione in che si trovava348. I creduli soldati ricevendo come oracolo di felice augurio le parole del Romito, con festa e giubilo e suoni di trombe, promettendosi certa vittoria, andarono ad affrontar i nemici nel Golfo di Salerno vicino al Capo d'Orso. Ma azzuffatisi insieme le due armate, ben tosto s'avvidero quanto fossero sciagurati e vani gl'infelici pronostichi di quel fanatico. Tutti al contrario seguirono gli effetti. Fu l'armata imperiale interamente disfatta dal Doria: i soldati, ch'erano su le Navi, quasi tutti morti, ed i feriti fatti prigioni. D. Ugo valorosamente combattendo fu prima ferito nel braccio, e mentre confortava i suoi, da' sassi e da' fuochi gittati dalle Galee nemiche, restò miseramente morto, e poi crudelmente fu gittato in mare; e questo medesimo avvenne al Ferramosca. Il Marchese del Vasto, Ascanio Colonna, amendue feriti, il Principe di Salerno, il Santa Croce, Camillo Colonna, il Gobbo, Serenon, Annibale di Gennaro e molti altri Capitani e Gentiluomini restarono tutti prigioni: i quali tosto furon mandati da Filippino con tre Galee ad Andrea Doria prigionieri a Genova.

Ecco l'infelice successo di questa spedizione: ecco ancora l'infelicissimo fine del nostro Vicerè Moncada, il quale in tempi così turbolenti non potè godere del governo del Regno, che per soli sei mesi; perciò di lui non ci restano leggi, nè ebbe spazio fra noi lasciarci altra memoria. I Napoletani a' 8 giugno gli fecero solenni esequie; ed il Guicciardino, che parimente narra il suo cadavere essere stato buttato a mare, rende ancora non verisimile quel che alcuni scrissero, che fosse stato portato ad Amalfi, e poi condotto in Valenza, dove gli fu eretto un superbo tumulo, con iscrizione ed elogio. Che che ne sia, prese in suo luogo il carico di nuovo Vicerè Filiberto di Chalon Principe d'Oranges.

 

A tanta prosperità delle armi Franzesi s'aggiunse l'arrivo dell'armata vineziana di ventidue Galee, la quale, dopo essersi impadronita di quelle Piazze nell'Adriaco, passando il Faro di Messina, giunse al Golfo di Napoli a' 10 di questo mese, era costeggiando di continuo il nostro mare, e tutta intesa ad impedire i viveri alla Città assediata; ma era tanta l'avidità ed avarizia degli arditi marinari, che non perciò mancavano di venire ogni giorno nuovi rinfreschi da Sorrento, Capri, Procida, Ischia ed altri luoghi, mettendosi i marinari a mille rischi per la speranza di grossi guadagni.

Questi fortunati successi diedero speranza grande ai Franzesi di terminar fra poco tempo tutta l'impresa. Cominciò Lautrech con l'artiglieria a battere la Città da quelle colline, dove stava accampato Pietro Navarra. Fece ancor levar l'acqua del formale, ch'entrava dentro la Città dalla banda di Poggio Reale; ma siccome per l'abbondanza de' pozzi sorgenti, che vi sono dentro, non le recò molto danno, così per altra via riuscì ciò dannosissimo non meno a Napoli, che al suo esercito; poichè l'acqua allagando e stagnando in que' contorni, cagionando mal aria, fece augumentar la peste e le infermità che correvano sino al suo Campo. Si vide perciò la Città miseramente afflitta da crudel peste, dall'artiglieria, che tirava alle sue mura e da grande carestia di farina, carni e vino, essendo obbligati gli assediati di nutrirsi di grano cotto. A tutti questi mali s'aggiungevano i disagi, che l'apportavano gl'istessi soldati spagnuoli e tedeschi, li quali usando insolenze grandissime, rubavano, sforzavano donne, ammazzavano e maltrattavano, alle quali cose i Napoletani non usi, per non avere avuto da molto tempo guerra in casa propria, mal volentieri comportavano simili strazi.

Ma, mentre le cose erano in tale estremità, la fortuna, che sino a questo punto erasi mostrata cotanto propizia a' Franzesi, si vide tosto mutata ai lor danni, ed a favorire le parti di Cesare. Andrea Doria mal soddisfatto del Re di Francia, a persuasione del Marchese del Vasto suo prigioniere, lasciati gli stipendi di quel Re, andò a servir Cesare; per la qual cosa Filippino Doria con tutte le Galee partì da Napoli il quarto dì di luglio. Quello, che poi accelerò più la ruina de' Franzesi, furono le infermità cagionate in gran parte nel loro esercito, dall'aver tagliati gli acquidotti di Poggio Reale per torre a Napoli la facoltà del macinare, perchè l'acqua sparsa per lo piano, non avendo esito corrompè l'aria; onde i Franzesi intemperanti, ed impazienti del caldo s'ammalarono. Si aggiunse ancora la peste penetrata nel Campo per alcuni infetti mandati studiosamente da Napoli nell'esercito. Così cominciarono le cose de' Franzesi a declinar tanto, ch'eran divenuti da assedianti, assediati; ed al contrario in Napoli cresceva ogni dì la comodità e la speranza. Ma si videro nell'ultima declinazione, quando infermatosi ancora Lautrech, per l'infezion dell'aria e per dispiacere di veder quasi tutta la sua gente perduta, a' 15 agosto trapassò di questa vita, in su l'autorità e virtù del quale si riposavano tutte le cose. Fu sepolto nell'istessa Vigna del Duca di Montalto, dove stava accampato, e rimasero esposte le sue gloriose ossa all'ignominia ed avarizia degli Spagnuoli; di che avertito da poi Consalvo Duca di Sessa nipote del G. Capitano con alto magnanimo e pietoso, fecele trasferire in Napoli, e seppellire nella sua Cappella nella Chiesa di S. Maria la Nuova, dove fece loro ergere un superbo tumulo di marmo, ed ancor oggi vi si legge pietoso elogio. Il simile fece questo Signore alle ossa del famoso Pietro Navarro, il quale poco da poi della disfatta dei Franzesi, fatto prigione, essendo morto nelle carceri di Castel Nuovo, gli fece parimente nell'istessa Cappella ergere pari tumulo con iscrizione che ancor ivi si vede349.

La morte di sì insigne Capitano, restando il comando dell'esercito al Marchese di Saluzzo non pari a tanto peso, multiplicò i disordini; e sopraggiunto nel medesimo tempo Andrea Doria, come soldato di Cesare con dodici Galee a Gaeta, i Franzesi rimasi quasi senza gente e senza governo, non potendo più sostenersi, si levarono dall'assedio per ritirarsi in Aversa; ma presentita dagli Imperiali la loro levata, furono rotti nel cammino, dove fu preso Pietro Navarra e molti altri Capitani di condizione; e salvatosi il Marchese di Saluzzo in Aversa con una parte dell'esercito, non potendosi difendere, mandò fuori il Conte Guido Rangone a capitolare col Principe d'Oranges, il quale ne' principj di settembre accordò al Conte queste Capitolazioni.

Che lasciasse il Marchese Aversa con la Fortezza, artiglierie e monizione, ed egli e gli altri Capitani, fuor che il Conte, in premio di questa concordia, restassero prigioni. Che facesse il Marchese ogni opera, perchè i Franzesi ed i Vineziani restituissero tutte le Piazze del Regno. Che i soldati e quelli che per l'accordo rimanevano liberi, lasciassero le bandiere, l'arme, i cavalli e le robe, concedendo però a quelli di più qualità ronzini e muli per potersene andare; e che i soldati Italiani non servissero per sei mesi contra Cesare.

Così rimase tutta la gente rotta e tutti i Capitani o morti, o presi nella fuga, o nell'accordo restati prigioni. In pochi dì si resero Capua, Nola e tutti gli altri luoghi di Terra di Lavoro. L'armata vineziana si divise dalla Franzese; quella s'avviò verso Levante e questa verso Ponente. Rimasero solo alcune reliquie di guerra in Apruzzo e nella Puglia; poichè in Calabria d'alcuni pochi luoghi, che si tenevano per li Franzesi, non se ne teneva conto. Il Principe d'Oranges gli discacciò poi interamente da quelle Province, e le Piazze ed i Porti, che i Vineziani tenevano occupati nell'Adriatico furono, nella pace universale, che si conchiuse da poi, restituite.

Ma se bene le cose di Napoli si fossero, cessata ancora la peste, vedute in qualche pace e tranquillità; nulladimanco il rigore del Principe d'Oranges, che volle usare co' Baroni, conturbò non poco la quiete del Regno, e fu cagione dell'abbassamento e della desolazione d'alcune famiglie, siccome dell'ingrandimento d'alcune altre. Il suo predecessore D. Ugo avendo, come si disse, composti molti Baroni e data loro licenza in caso di necessità, di poter alzare le bandiere Franzesi, e d'aprir le porte delle lor Terre al nemico, diede la spinta a molti di farlo; ma il Principe d'Oranges, ora che il Regno era libero e ritornato interamente sotto l'ubbidienza di Cesare, non ammettendo a' Baroni quella scusa, e dicendo che il Moncada non avea potestà di rimettere la fedeltà dovuta dal vassallo al suo Sovrano, si mise a gastigarli come ribelli, ad alcuni togliendo la vita, a moltissimi confiscando le robe, e ad altri, per semplice sospetto d'aver aderito a Franzesi, componevagli in somme considerabili, con connivenza ancora di Cesare, il quale avea sempre bisogno di denari per nutrir la guerra, che si manteneva a spese, ora del Papa, ora d'altri, ora con contribuzioni, tasse e donativi, che si proccuravano a questo fine. Si serviva il Principe del ministerio segreto di Girolamo Morone genovese, Commessario destinato a queste esecuzioni, il quale con molta efficacia ed esattezza adempiva l'uffizio suo. Fece in prima tagliar il capo ad Errigo Pandone Duca di Bojano ed al Conte di Morone350. Il medesimo avrebbe fatto del Principe di Melfi, del Duca di Somma, di Vicenzo Caraffa Marchese di Montesarchio, di Errigo Ursino Conte di Nola, del Conte di Castro, del Conte di Conversano, di Pietro Stendardo e di Bernardino Filinghiero, se gli avesse avuti nelle mani: de' quali il Marchese di Montesarchio, il Conte di Nola e Bernardino Filinghiero morirono di malattia, prima che i Franzesi uscissero dal Regno, e gli altri se n'andarono in Francia. Tutti questi però furono spogliati de' loro Stati.

Il Marchese di Quarata ed altri Baroni volendosi valere della licenza data loro da D. Ugo Moncada, fu ad essi di giovamento per far loro scampare la vita, ma non già per con far loro perdere la roba, la qual si credette, che l'avrebbero certamente salvata, se fosse stato vivo D. Ugo. Nel numero di questi Baroni furono il Duca d'Ariano, il Conte di Montuoro, il Barone di Solofra, l'uno e l'altro di Casa Zurlo, il Barone di Lettere e Gragnano di Casa Miroballo, ii Duca di Gravina e Roberto Bonifacio ultimamente fatto Marchese d'Oira; delli quali, gli ultimi due ricuperarono da poi a maggior parte delli loro Stati e si composero in denari, come ancora il Duca d'Atri, che ricuperò il suo. Si richiamarono questi a Cesare, che non l'ammise alla reintegrazione de' loro Stati, se non col pagamento d'una somma considerabile di denaro, non avendo potuto in conto alcuno, evitar quest'ammenda. Scrissero con tal occasione i primi Giureconsulti, che fiorirono in Italia a favor de' Baroni, e Decio ne compilò più consiglj; pruovando non potersi venire a somiglianti partiti, che apportavano pregiudicio alla loro innocenza; ma fu in darno gettata ogni lor fatica, perchè Cesare avea bisogno di denari per pagare le truppe, e con tal modo sostener la guerra. Parimente avendo l'Aquila tumultuato, ridotta dal Principe d'Oranges all'ubbidienza, la condannò in ducati 100 mila, che per pagarli bisognò vendere sino gli argenti delle Chiese, ed impegnare a due Mercatanti tedeschi, che pagarono anticipatamente il denaro, la raccolta del Zaffarano, oltre d'averla spogliata della giurisdizione che teneva sopra molti Casali, che l'Oranges donò ad alcuni Capitani del suo esercito.

Dappoichè il Principe ebbe confiscate tutte quelle Terre a' loro antichi Baroni, le divise a' Capitani dell'Imperio. Si tenne per se Ascoli, la quale da poi fu d'Antonio di Leva. Melfi con la maggior parte dello Stato del Principe di Melfi fu data ad Andrea Doria. Al Marchese del Vasto fu dato Montesarchio ed Airola, Lettere, Gragnano ed Angri. A D. Ferrante Gonzaga, Ariano. Ad Ascanio Colonna lo Stato del Duca d'Atri, confiscato per la ribellione del Conte di Conversano; ma gli Apruzzesi vassalli del Duca, non volendo dar ubbidienza ad Ascanio, fu occasione che si vedesse meglio la causa del vecchio Duca d'Atri, e ritrovandosi la persona sua fuori d'ogni sospetto di fellonia, gli fu restituito con darsi ad Ascanio l'equivalente sopra altre Terre.

Le Terre della Valle Siciliana, ch'erano possedute da Camillo Pardi Orpino, furono date a D. Ferrante d'Alarcone, e dopoi anche il Contado di Rende del Duca di Somma. All'Ammiraglio Cardona, Somma. A D. Filippo di Launoja Principe di Sulmona, figliuolo del Vicerè D. Carlo, gli fu dato Venafro già del Duca di Bojano Pandone. A Fabrizio Maramaldo, Ottajano. A Monsignor Beuri Fiamengo, Quarata, che era stata del Marchese Lanzilao d'Aquino. Al Segretario Gattinara, Castro. A Girolamo Colle, Monteaperto. A Girolamo Morone esecutore indefesso de' rigori del Vicerè, in premio della sua severità, la Città di Bojano. E ad altre persone, altre Terre, che la memoria dell'uomo non si può ricordare. Alcuni di questi pretesi felloni ottennero, che le lor cause si fossero vedute per giustizia, siccome ottenne Michele Coscia Barone di Procida, e quella trattatasi in Napoli a' 4 maggio del seguente anno 1529 riportò sentenza conforme a quella del Marchese di Quarata, cioè, che perdesse la roba, ma non la vita; onde Procida fu confiscata, e fu data al Marchese del Vasto351.

339Istor Fior. l. 5. An. 1521.
340Istor. Fior. l. 5. Ann. 1527.
341Guic. l. 18.
342Vedi Apologia Tomo V parte seconda cap. II.
343Giorn. del Rosso pag. 12.
344Gior. del Rosso pag. 16.
345Giorn. del Rosso, pag. 17.
346Rosso pag. 18.
347Giornali del Rosso, pag. 19.
348Rosso pag. 28 et 29.
349V. Engen. Nap. Sacr. p. 494 et 496.
350Giornali del Rosso, pag. 49 et 50.
351Rosso pag. 56.