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Racconti e novelle

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Appena fui nella contrada, mi affrettai ad aprirla Quei caratteri mi erano già noti, e il nome di Amalia spiccava sotto le ultime righe. Non c'era luogo a dubitare; la donna che da parecchi mesi intratteneva corrispondenza d'amore con Arturo Della Valle, era la stessa che a me indirizzava quella lettera. Ecco presso a poco ciò che diceva quello scritto:

Pregiatissimo Signore

«Prima di prendere una determinazione, ho voluto riflettere una intera notte. Prego anche voi di fare altrettanto prima di decidervi ad un passo, dal quale può dipendere il mio ed il vostro avvenire.

»Io vi parlerò colla massima franchezza, nella speranza che voi pure vi comportiate meco colla lealtà che si addice ad un uomo di onore, ad un uomo di spirito quale voi siete.

»Jeri mi avete detto che al leggere le lettere indirizzate al signor Arturo Della-Valle, voi foste preso da invincibile simpatia per la donna che le aveva vergate… Ebbene: a mia volta vi dico, che io pure ho subìto il fascino dei vostri scritti, che vi ho amato per la viva, appassionata eloquenza del vostro linguaggio, pei nobili ed elevati affetti che voi esprimevate.

»Quel signor Della-Valle, voi stesso lo diceste, non era che una statua di granito, dove noi abbiamo deposto dei fiori consacrati ad una divinità misteriosa che tosto o tardi sarebbe venuta a raccoglierli. – Noi ci siamo intravveduti presso il piedestallo della statua… noi ci siamo riconosciuti… ed io tosto ho compreso che voi eravate l'ideale delle mie aspirazioni… il solo… l'unico oggetto del mio amore…

»L'uomo che io vagheggiava… l'uomo che mi aveva affascinato cogli accenti melodiosi della passione non poteva essere quel povero Arturo, così impacciato e melenso che non seppe connettere due monosillabi, quando io gli indirizzai la parola sull'angolo di via Monforte…

»Voi seguiste i miei passi… voi vi dichiaraste autore delle lettere indirizzate alla signora Amalia, ed io non ho esitato un istante a riconoscere che voi dicevate il vero.

»Quella rivelazione mi ha colmato di beatitudine. Il vostro aspetto, il calore del vostro linguaggio non hanno fatto che ravvivare le mie simpatie – il mio cuore da quell'istante si avvinse a voi, e una indefinita speranza mi balenò al pensiero.

»Mi sarò io ingannata?

»Sarà questo un sogno passeggiero come tanti altri?..

»Ciò dipende da voi. Oramai, l'Arturo Della-Valle ha mutato di nome; egli si chiama Eugenio Renzi. La mistificazione è svanita, l'equivoco è dissipato. Noi ci troviamo di fronte a viso scoperto – voi avete detto di amarmi – io vi amo.

»Riflettete bene, ve lo ripeto e ve ne supplico, prima di prendere una risoluzione. Se vi pare che il vostro amore sia qualche cosa di serio e di elevato, non una effimera ebbrezza; se credete che esso possa resistere al tempo ed alle avversità, in tal caso – in tal caso soltanto – dirigete i vostri passi verso il luogo dove ieri ci siamo per la prima volta incontrati… Io sarò là ad aspettarvi, domattina, col cuore ansante di desiderio e di terrore…

»Non è mestieri che voi mi preveniate con una lettera… La vostra apparizione equivarrà ad una conferma d'amore… ad una promessa di eterna felicità. Se non verrete, vorrà dire che anche questa volta io dovrò rinunziare al paradiso sognato, e piangere nelle tenebre l'ultima illusione della mia giovinezza.

Amalia».
*
* *

Sebbene a quell'epoca io fossi uno sventato di prima classe, pure quella lettera gettò nel mio cuore un insolito turbamento. Voi converrete, miei ottimi amici, che il caso era abbastanza singolare per dar a riflettere, e suscitare qualche allarme nel più matto dei matti.

Ammirando la schiettezza di quella donna, io non poteva a meno di essere sorpreso della sua disinvoltura nel mutare di amanti. L'eccentricità di quel carattere mi allettava in sommo grado, ma io temeva in pari tempi ch'essa coprisse una leggerezza di cattivo genere.

Malgrado queste considerazioni e in onta di un indefinibile presentimento di sciagura, all'indomani mi recai sul luogo del convegno.

*
* *

Allo scoccare delle otto ore, la mia bella misteriosa spuntò dalla stradicciuola che dà sul bastione, e mosse ad incontrarmi con passo accelerato. Ella vestiva colla massima eleganza, e in luogo del velo, questa volta portava in testa un bizzarro cappellino di paglia.

Nell'abbordarmi, mi porse il braccio senza esitazione, con adorabile abbandono. Il di lei volto era sorridente, e gli occhi si fissavano in me colla espressione della più cordiale benevolenza.

*
* *

– Sì, il cuore mi diceva che sareste venuto… Come sono felice!.. usciamo dalla porta… allontaniamoci dalla città… gettiamoci all'aperta campagna… Andiamo a perderci in quel labirinto di stradicciuole deserte, dove esultano i liberi uccelli fra il sorriso delle acque e dei fiori…

E così parlando, mi traeva seco pel braccio, e noi uscivamo dalla città come due amanti che si conoscano da mesi.

*
* *

Non riferirò il lungo ed animato dialogo che ebbe luogo fra noi, sotto l'ombra di non so quanti faggi, al mormorio di non so quanti ruscelli. Vi dirò solo che al contatto di quella donna tutte le mie apprensioni svanirono. La nostra conversazione assomigliava ad un duetto istromentale che esprime dei concetti indefiniti. Ci parlavamo come due esseri che non hanno rapporti col mondo. Eseguivamo delle variazioni, a volta patetiche, a volta brillanti, sovra una sola melodia – la melodia dell'amore.

Così passarono parecchie ore. – Al momento di rientrare in città, noi sostammo presso gli argini del ponte.

– Quando ci rivedremo? – mi chiese ella, coll'accento dell'insaziato desiderio…

– Quando vorrai – le risposi – quando senza comprometterti…

– Ebbene: a che servono le dilazioni?.. Poichè ti ho dato tutto il mio amore io debbo anche accordarti la mia piena fiducia. No! le convenienze, i pregiudizi del mondo non possono impormi – io abborro le ipocrisie. Io mi abbandono a te… ti affido il mio onore la mia riputazione… tutta me stessa. La mia casa ti è aperta – io ti aspetterò tutti i giorni… a tutte le ore… Fra noi da questo momento è tolta ogni barriera… io sfido tutte le dicerie… come sono disposta ad ogni sacrifizio. Se questa sera… se domattina vorrai recarti alla mia casa, io ti correrò incontro a braccia aperte, e noi vedremo rinnovarsi nella intimità del mio piccolo appartamento le ore deliziose che abbiamo passate questa mane sotto la vôlta del cielo sereno…

Tali presso a poco erano le sue parole: ma io non potrei descrivervi l'enfasi della voce e degli accenti. La sua esaltazione pareva toccasse il delirio.

– Amalia, le dissi stringendo colla più viva commozione la sua mano nella mia; io ammiro il tuo entusiasmo e ti sono grato della fede che in me riponi, ma non posso incoraggiarti al sacrifizio de' tuoi doveri e della tua pace. Non accusarmi di freddezza se ti parlo il linguaggio della ragione. Fino ad ora noi abbiamo conversato come due esseri che appartengano ad un mondo ideale, dimenticando, nelle estasi del nostro amore, il triste realismo della vita. Noi stiamo per rientrare nella città, e per riprendere il posto che la società ci ha inesorabilmente assegnato. Prima di separarci è necessario che noi avvisiamo ai mezzi di rimuovere gli ostacoli che potrebbero opporsi alla nostra felicità. Io sono libero come gli augelli dell'aria – ma tu… Amalia!.. Puoi tu dire altrettanto? Puoi tu obliare di avere un marito ed un figlio? Dovrò io, perchè ti amo, fomentare la tua esaltazione fino al punto di renderti ribelle alle convenienze che il tuo stato ti impone, e trascinarti per una via piena di affanni e di umiliazioni? Meno male se non si trattasse che di un marito, ma poichè un figlio ci sta di mezzo…

*
* *

A questo punto della mia patetica allocuzione, una chiassosa risata mi ruppe gli accenti sul labbro.

– Mio marito!.. Mio figlio! – esclamò la giovane donna, abbandonandosi senza ritegno alla ilarità che la invadeva. – Ma dunque tu credi… tu puoi supporre?.. Oh vedi un poco i bei pazzi che noi siamo!.. Abbiamo passate due ore a parlarci d'amore, a fabbricarci colla immaginazione un avvenire di gaudio e di felicità, e non abbiamo pensato a liberarci dalle chimere. Via! sta di buon animo, Eugenio mio – il marito, il tremendo marito non esiste. Il marmocchio che rappresentava una parte sì patetica nelle mie lettere, appartiene, per diritto naturale e legittimo, ad un'Amalia che tu non conosci, all'amante del tuo amico Della-Valle. È tempo davvero che noi discendiamo nella vita reale per dissipare ogni equivoco. Noi eravamo in quattro a giuocare la partita. Tu eri il segretario, il consigliere intimo di un Arturo imbecille; io d'altra parte scriveva delle lettere d'amore per conto di una signora Amalia, ammogliata con prole, ma poco ferma nella grammatica e nella ortografia. Tu ti invaghisti di conoscere l'amante del tuo amico. Io, nel leggere le tue risposte appassionate, sentii il bisogno di vederne l'autore. Il caso non poteva meglio favorirci. Domenica scorsa, per una indisposizione subitamente sopravvenuta, la signora Amalia doveva mancare al convegno… Io colsi l'occasione di volo… Spinta dalla passione, venni sul luogo dell'abboccamento… Mi accostai ad Arturo… Fingendomi messaggiera della amica indisposta, gli diressi la parola… Quale disinganno!.. Alle poche e tronche frasi proferite da colui, io mi accorsi d'aver a fare col più volgare degli idioti. Ma tu eri là… tu corresti sui miei passi… tu mi arrestasti… mi stendesti la mano, e alle prime parole da te proferite io conobbi l'autore delle lettere che tanto mi avevano impressionata. Quanto gaudio in quella rivelazione! Io tornai alla mia casa coll'anima inebbriata. Ogni scrupolo, ogni rimorso svanì dal mio cuore. Ti scrissi, ti svelai candidamente la mia passione… ti pregai di usar meco l'uguale franchezza; ed oggi, dopo le espansioni che avvennero fra noi, io mi sento pienamente sicura del tuo amore e beata di affermarti che niuna barriera, niun ostacolo si interpone ai nostri voti. Lascia dunque ch'io mi appoggi al tuo braccio. Noi possiamo entrare in città e attraversare la folla così allacciati, senza incontrare uno sguardo geloso o suscitare un mormorio di riprovazione. Procediamo per la nostra via colla fronte alta e serena; io ti condurrò alla mia casa, dove un'ottima zia ci accoglierà entrambi come figliuoli. Più tardi ti presenterò a' miei fratelli, ai parenti…

 

– Basta!.. basta!.. con comodo… uno alla volta!.. troppa felicità!.. – interruppi io, accelerando il passo colla mia donna sul braccio. A queste frasi concitate e convulse tenne dietro un mostruoso silenzio. Da quel momento io mi sentii accalappiato. Io comprendeva che quel mio adultero amore non poteva avere altra soluzione fuorchè… il matrimonio. Infatti, noi attraversammo la città come due consorti legittimi; io mi lasciai condurre alla casa della giovane donna, strinsi conoscenza colla zia, dichiarai ad essa le mie buone intenzioni… e di là a quattro mesi divenni il consorte legittimo della signora Amalia Ferrarini maestra di prima classe alle scuole di Bassano Porrone!

Autobiografia di un ex-cantante

Or fanno trentadue anni, io era il più bel ragazzo della Valassina. Al paese mi chiamavano il Pirletta, perchè nei balli non v'era alcuno che mi vincesse. Mio padre era fattore del conte Bavoso, e poteva, nella sua condizione, chiamarsi un uomo agiato.

All'età di diciotto anni, l'organista del paese, sentendomi cantare le litanie, scoperse che io aveva una bellissima voce di tenore – una di quelle voci – diceva egli – che possono rendere in un anno da cento a duecentomila franchi.

Una tale scoperta, riferita a mio padre, non destò in lui veruna emozione; ma un giorno, mentre io stava nel giardino ripiantando dei cavoli e cantando alla distesa un'aria paesana, la contessa Bavoso si fermò estatica ad ascoltarmi.

La contessa era maniaca per la musica, e suonava il pianoforte come sanno suonare le contesse. Quando ebbi finito di ripiantare i miei cavoli, sentii chiamarmi a nome.

– Pirletta – mi disse la contessa – l'organista non mi ha ingannata – tu possiedi realmente una voce delle più rare… Tutto sta che alla voce si accoppino le altre disposizioni indispensabili a ben riuscire nell'arte: Quanto alla figura (e mi squadrava dal capo al piede attraverso l'occhialino) non c'è malaccio; ma ho timore che tu manchi di orecchio…

Portai ingenuamente le mani alle orecchie – la contessa sorrise, e, avviandosi verso la villa, mi invitò gentilmente a seguirla, chiamandomi non so ben quante volte imbecille.

Entrati nella gran sala, la contessa Bavoso andò a sedere al pianoforte. «Vediamo, mi disse, fin dove sai montare…»

Io non osava avanzarmi. La contessa si diede a percuotere il cembalo, e, dopo avermi raccomandato di spalancare per bene la bocca, mi invitò a riprodurre colla voce i suoni dei tasti.

Il mio orecchio era perfetto, e la contessa fu talmente sorpresa della mia intonazione, che volgendosi al conte, il quale era entrato nel salotto in sul finire dell'esperimento: «Sarebbe un peccato, gli disse, che tanto tesoro andasse perduto!» Bisogna assolutamente che questo ragazzo si dedichi al canto – e noi penseremo a farlo entrare nel Conservatorio.

Figuratevi la mia meraviglia, la mia gioia! Riferii a mio padre quanto era accaduto – egli crollò la testa di mal garbo, esclamando: «Purchè ci pensino loro!.. purchè io non abbia a sborsare un quattrino!» E quando seppe di là a pochi giorni, che il conte e la contessa si incaricavano di farmi istruire a loro spese, il buon uomo lasciò fare. Dopo tutto, egli avrebbe preferito che io fossi rimasto al paese a dirigere l'allevamento dei bigatti e la fabbricazione dei formaggini.

Io era al colmo della felicità. L'idea di recarmi a Milano, rivestito e ripulito, a fare la mia bella figura di zerbinotto elegante – la speranza di potere, nello spazio di pochi anni, realizzare una bella fortuna, e tornando al paese, acquistare delle possessioni, fabbricarmi un palazzo e menare splendida vita; tutto ciò mi esaltava lo spirito a tal segno, che io correva l'aperta campagna, misurava coll'occhio le terre coltive, sceglieva le posizioni più acconcie per edificarvi i miei castelli – cantava, gesticolava tutto il giorno, pregustando colla mia imaginazione di diciotto anni tutte le voluttà di un avvenire dorato.

E davvero c'era in me la vocazione, c'era la stoffa dell'artista. Vi basti il sapere che già da due anni io era innamorato. Fra le cameriere della contessa Bavoso c'era una brunetta chiamata la Savina, una strega di bellezza e di furberia. Era nata al paese, e da fanciulli avevamo giuocato insieme a gatta cieca, al dammelo e prendilo, al fuori e dentro e ad altri sollazzi innocenti. Ma dopo un anno passato a Milano al servizio della contessa, aveste veduto che arie da gran dama! Quand'ella tornava alla villa, nei due mesi dell'autunno, ci guardava tutti con un fare da sultana come volesse dire: ve' là questi zotici… questi bifolchi!.. Appena degnava rispondere al mio saluto; ed essendomi una volta arrischiato ad offrirle un mazzetto di garofani, mi volse la schiena esclamando: «Levati dalle mani quei guanti di letame se vuoi che le signore accettino i tuoi fiori!»

Orbene: non appena si sparse la nuova che il conte e la contessa Bavoso si erano incaricati di condurmi a Milano per farmi educare nella musica, la Savina mutò improvvisamente di modi a mio riguardo. Una mattina, mentre tutti dormivano ed io era disceso nell'orto a fantasticare sul mio brillante avvenire, quella strega mi venne incontro tutta bella e sorridente per congratularsi della mia buona fortuna. – Spero che a Milano ci vedremo – diss'ella, frugandomi nell'anima colle sue ladre pupille. Naturalmente, tu verrai a trovare la contessa… e poi… Milano è grande. Tutto sta che una volta divenuto gran signore, ti degni ancora di scambiare un saluto con noi… gente bassa… persone di servizio…

Io mi sentiva una maledetta voglia di saltarle al collo e di rassicurarla energicamente del mio amore e della mia eterna fedeltà. Non osai tanto in quel primo abboccamento; ma le occhiate e le assicurazioni di simpatia ch'io m'ebbi dalla scaltra figliuola posero il colmo alla mia esaltazione.

Nel paese, già tutti mi trattavano con rispetto e devozione. L'organista andava ripetendo che di là a dieci anni sarei tornato milionario. Io gli prometteva che, qualora i suoi pronostici si fossero realizzati, avrei fatto costruire un nuovo organo nella chiesa parrocchiale a tutta mia spesa.

Da molti anni si agitava nel consiglio comunale e nella fabbriceria il progetto di un nuovo e grandioso campanile; si aspettava, per mandare ad effetto quel vasto disegno, che il comune e la fabbriceria adunassero il denaro occorrente. Il Sindaco, uomo di larghe vedute, dopo avermi interpellato sulle mie disposizioni, propose al consiglio di differire l'impresa fino a che io fossi in grado di concorrervi co' miei capitali. I consiglieri, non avendo di meglio a suggerire, riconobbero che il sindaco aveva pienamente ragione, e votarono unanimi il seguente ordine del giorno:

«Noi sottoscritti.

»Considerando che le casse del comune e della fabbriceria sono affatto vuote pel momento; abbiamo deliberato di prorogare per dieci anni la erezione del grandioso campanile già da sei lustri ideato e discusso, nella fiducia che in questo lasso di tempo un nostro illustre e benemerito concittadino, il quale fin d'ora si mostra animato dalle migliori intenzioni a tale riguardo, possa adunare e fornire la somma occorrente acciò il grandioso monumento riesca degno in tutto e per tutto della nostra e della ammirazione dei posteri.»

La notizia di questa deliberazione suscitò delle polemiche tra i villani. I più, affidandosi alle promesse dell'organista e d'altri personaggi autorevoli, si tennero persuasi che di là a dieci anni i loro voti sarebbero esauditi. Altri invece accolsero la notizia con una significante crollatina di capo. «Oh! sta a vedere – dicevano – che sarà lui… proprio lui… a fornirci il denaro pel campanile – il Pirletta!..»

Al primo di novembre, si doveva partire per Milano. Il mio equipaggio era completo. Il conte Bavoso mi aveva ceduti i suoi abiti usati, che ridotti pel mio dosso dal sartore del villaggio, mi andavano a meraviglia Abbracciai mio padre colle lagrime agli occhi: mi congedai pulitamente dal curato, dal sindaco, da tutte le autorità del luogo, e salii fra le acclamazioni dei villani dietro la carrozza della contessa. Imaginate il mio tripudio quando vidi la Savina collocarsi al mio fianco, e pensai che durante un viaggio di otto ore avrei potuto intrattenermi con lei nel più stretto dei colloqui possibili!

Non vi descrivo le emozioni di quel viaggio. La Savina mi diè tante prove di amabilità, che io le promisi di sposarla non appena avessi compiuta la mia educazione musicale.

All'indomani del nostro arrivo a Milano, la contessa iniziò le sue pratiche per farmi entrare al Conservatorio. Quella donna otteneva ciò che voleva, ed io venni ammesso senza difficoltà. Il mio primo maestro era un uomo in sui cinquant'anni, e godeva fama di insuperabile nell'arte di formare le voci.

– Vieni qua, il mio bravo giovinotto – diss'egli assidendosi al pianoforte – la tua nobile protettrice mi vuol far credere che tu possegga una bellissima voce. Probabilmente la signora contessa ha voluto dire che i tuoi organi non hanno difetti cardinali. Belle voci non si danno in natura; starei quasi per dire che in natura non esistono voci. I suoni sono opera dell'arte; e l'arte, figliuol mio, è frutto dello studio e di un ben regolato esercizio. In ogni modo, vediamo la tua estensione.

Il maestro prese a toccare il pianoforte, ed io mi diedi a vociare di tutta lena.

La mia voce timbrata e sonora saliva dal do basso al si bemolle acuto con ammirabile facilità. Terminato l'esperimento, il maestro mi rivolse una strana domanda:

– Ebbene?.. Che cosa intendiamo di fare? Vogliamo cantare il tenore, il baritono o il basso profondo?

– A dir vero, signor maestro, l'organista del paese e la illustrissima signora contessa Bavoso mi avevano fatto sperare che cantando da tenore, in pochi anni mi sarei fatto milionario o qualche cosa di simile. Ho promesso al signor sindaco di contribuire per diecimila franchi all'erezione del nuovo campanile…

– Caspita! hai delle idee molto elevate, figliuol mio!.. ma poichè la signora contessa vuole un tenore; tanto fa, le daremo ciò che le abbisogna.

Il maestro serbava nel parlarmi la maggior serietà, ma forse nell'intimo del cuore si burlava de' fatti miei.

Cosa strana! questo professore autorevole e stimato, che aveva la pretesa di creare le voci a totale beneficio dei suoi allievi, mancava affatto di voce.

– Un tenore, diceva egli, colle opere che si scrivono in giornata, non può fare a meno del si naturale, del do ed anche del do diesis. Convien dunque, figliuol mio, che ci mettiamo di proposito a procurarci queste note essenziali. Per conquistare gli acuti non vi è che un solo mezzo: rinvigorire le note più basse, le quali rappresentano nella scala armonica le fondamenta dell'edifizio. Credi tu che si possa elevare una casa di cinque o sei piani quando non si pongano innanzi tutto delle basi massiccie?

Con questa logica da capo mastro il professore mi impose di esercitare quotidianamente le mie quattro note più basse.

Do re mi fa, fa re mi do– tale fu il vocalizzo obbligatorio de' miei primi esercizi. Di là a tre mesi io perdetti il si bemolle; a metà del semestre il la acuto scomparve affatto; alla fine dell'anno, da tenore divenni baritono.

Non debbo tacervi che il mio autorevole maestro si preoccupava mediocremente di questi miei progressi. La sua lezione durava ordinariamente dieci minuti e si chiudeva colla formola di congedo: Bravo! molto bene! benissimo!

Le lezioni delle allieve duravano più a lungo.

Ho notato che tutti i professori del Conservatorio ponevano una cura speciale nella educazione delle ragazze. Allorquando il mio maestro inculcava il solfeggio alle future regine della scena, prendeva la posa di un ispirato e mostrava il bianco degli occhi. – Quelle lezioni lo affaticavano assai. Contuttociò la più parte delle allieve perdevano anch'esse la voce, ed altre cose.

 

Alla fine dell'anno, il mio sol acuto minacciava di ecclisarsi – il maestro se ne avvide, fece un rapporto al direttore dogli studi, ed io fui sottoposto ad un consiglio di professori, i quali fra gli sbadigli firmarono il verdetto della mia assoluta impotenza a proseguire negli studi.

Immaginate la mia sorpresa, il mio disappunto, la mia desolazione!

Mi recai dalla contessa Bavoso. Il sindaco del paese, venuto a Milano per certi suoi affari, era in quel giorno dalla contessa. Mi presentai trepidante come un reo che va incontro al suo giudice – la presenza del sindaco raddoppiava le mie angoscie.

– Bravo! molto bene! benissimo! – cominciò la contessa. – Il bell'onore che vi fate! Ecco la lettera del vostro professore – leggete se vi dà l'animo… E poi… abbiate ancora il coraggio di comparirci davanti!

Io lessi, e rimasi oltremodo meravigliato in vedere le strane cose che in quel foglio si dicevano sul conto mio. Mi si accusava di poca assiduità alle lezioni; si attribuiva il progressivo e non logico deperimento della mia voce a qualche vizio secreto, a qualche disordine organico prodotto dalla crapula o da altri abusi più gravi.

Fui preso da indignazione. – Signora contessa! esclamai coll'accento più vivo – mi meraviglio che questi signori mettano in giro tali calunnie… Io non ho mancato mai alle lezioni, e la mia condotta fu sempre quella di un onesto figliuolo. Il maestro pretendeva fabbricarmi una voce da tenore, rinforzandomi i bassi – io mi sono uniformato a' suoi consigli, e mentre lavoravo a consolidare i fondamenti dell'edifizio, il tetto è crollato. Quel signor fabbricatore di voci non ha fiato in corpo per sè – ed io, quando entrai al Conservatorio, ne aveva tanto da gonfiarli tutti quanti… Insomma…

– Insomma! Insomma! mi interruppe la contessa. – Voi siete un disgraziato., voi tornerete al paese a zappare le rape… Non si perdono il si bemolle e il la naturale senza qualche sconcerto dell'organismo, prodotto dai disordini e dai vizi. – So quello che mi dico… so quello che voi stesso ignorate… Il signor sindaco qui presente porterà la notizia a vostro padre… e voi partirete quando vi farà comodo.

Ciò detto, la contessa mi fece cenno d'uscire. Il sindaco, per rinforzare l'apostrofe della contessa, mi annichilì con un motto spietato: – Avremo un bel campanile… al paese!

Attraversando l'anticamera sentii afferrarmi pel soprabito da una mano tenace.

Mi volsi – era la Savina.

– Ho inteso tutto… Cos'è questo bemolle che hai perduto? Voglio saperlo…

– Lasciami in pace… Savina…

– No!.. voglio saperlo… Dio sa quante ne hai fatte!..

– Savina… ti dico!..

– Sento gente… va pure… Ci rivedremo domenica… all'ora della dottrina.

Uscii dalla casa Bavoso coll'animo in tempesta.

Dopo essermi aggirato per le vie di Milano, dibattendo molti progetti, entrai in una bottega da caffè dov'erano soliti a convenire alcuni artisti e studiosi di canto a me noti. Vedendomi accorato, mi interrogarono. Narrai ciò che mi era accaduto. Un signore di età matura che aveva prestato orecchio al mio racconto: «un altro Maccabeo!» esclamò con biblica amarezza – poi, voltosi a me direttamente: «Io conosco la contessa Bavoso, mi disse-è una pianista di gran talento e una dama di cuore – peccato ch'ella viva sotto la pressione del Conservatorio! – in ogni modo io non ho ancora disperato di convertirla… Chi sa! sareste voi disposto, figliuol caro, a fornirmi i mezzi per un'ultima prova?»

La mia situazione era tale che le parole di quell'uomo, tuttochè enigmatiche, mi apersero il cuore alla speranza.

– Se ti rimane un filo di voce, proseguì egli, a cui si possano riannodare dieci o dodici note, io mi incarico di restituirti in sei mesi ciò che i Bramini del Conservatorio ti hanno rubato nel corso di un anno.

Ciò detto, mi porse il suo biglietto di visita, e mi fece promettere che il dì seguente, verso le dieci ore del mattino, mi sarei recato da lui. Immaginate la mia gioia, quando uno degli astanti, un certo Zilgo, tenore in aspettativa, mi avvertì che quel mio nuovo protettore era il più insigne maestro di canto dell'Italia e dell'Universo, il solo che sapesse realmente creare le voci o ridonarle al primiero stato in caso di deperimento.

All'indomani fui esatto al convegno. Venni introdotto in una grande sala debolmente rischiarata. Il maestro sedeva al pianoforte – una dozzina di allievi d'ambo i sessi lo circondavano in vario atteggiamento. Al mio entrare, il maestro si levò in piedi, e, additandomi ai circostanti con un gesto da Geremia, si diè a cantarmi l'antifona: Venite ad me, vos qui egrotatis; hic salus! hic vita! hic bonum!

Gli allievi di canto replicarono in coro la salmodia – ed io ristetti ombroso a guardarli, credendomi vittima di una crudele burletta.

Il maestro mi mosse incontro, mi prese per mano, e mi condusse al pianoforte.

– Come vedi, figliuol caro, tutti si rallegrano con te… La pecora smarrita si è rimessa sul buon cammino… Volgiti intorno… Tutte queste signorine avvenenti e intelligenti, tutti questi giovani bene organizzati e predestinati, non rappresentavano, pochi mesi sono, che dei naufraghi, respinti, come tu lo fosti, dall'arca fatale del Conservatorio, e abbandonati semivivi alle branche voraci dell'oceano. – Io ho raccolti questi naufraghi nel mio battello da salvataggio; ho riscaldati questi morenti colla fiamma dell'arte unica e vera – dell'arte divina!.. Quelli che ieri gemevano, oggi cantano – quelli che starnutivano, oggi trillano – i ranocchi divennero usignuoli – le cicale si mutarono in capinere. – Lasciamoli dunque in pace. – Abbandoniamo questi avventurati che già toccano le porte del cielo, per soccorrere all'ultimo arrivato, all'infelice che stava per soccombere. – Vieni qui, figliuol caro – e voi altri, schieratevi in giro – voglio che tutti assistiate alla diagnosi… Egli è sul cadavere che si studiano i problemi dell'esistenza; gli è dai morenti che si imparano i segreti della conservazione.

Gli allievi si scostarono dal pianoforte, e andarono a sedere in una specie di anfiteatro all'estremità della sala.

Il maestro cominciò a palpeggiarmi la testa – quindi scese colle mani alle altre parti del corpo parlando di tal guisa:

– Abbiamo un occipite pronunziatissimo… buon principio!.. Sviluppo massimo di sensualità… di forza procreatrice! l'arte non è che amore – non si può essere artisti veri, artisti grandi, senza una straordinaria suscettività, o dirò meglio, irritabilità dell'organo simpatico. Gli è ciò che ho detto più volte a mademoiselle Guardinaire: – tu diverrai la Cleopatra delle cantanti in grazia del tuo occipite. – Sui parietali non c'è che dire – il frontale è in ottimo stato! Questo solido ripercussore delle note acute presenta tutte le condizioni desiderabili – abbiamo un edmoide ed uno sfenoide pienamente conformi a quelli di Rubini e di Zilgo – larghe narici, canali ampi, torace adiposo, clavicola ferma, scapula rilevata, osso sacro sporgente – in una parola lo scheletro di Lablache, di Filippo Galli e di… Zilgo. Vediamo ora (ed è quello che più importa) come si sta di visceri… Esaminiamo prima di tutto se i mantici funzionano, e qual grado conservino ancora di forza coibente e deprimente.

Ciò detto, il professore tirò il cordone di un campanello e una grossa domestica entrò nella sala con un soffietto nella mano, domandando: «c'è forse qualcuno che ha bisogno di fiato?»

– No – rispose il maestro seriamente – apporta gli ordigni per la prova dei mantici.

Non comprendo, ripensandoci adesso, come io fossi in allora tanto ebete da prestarmi a quelle buffonesche esperienze. – Di lì a poco, la grossa fantesca rientrò nella sala, recando sulle braccia una dozzina di volumi. Il maestro mi ordinò di sdraiarmi supino sovra un canapè, soprappose al mio stomaco quattro volumi, e in quella difficile posizione mi fece ripetere più volte la scala ascendente e discendente. Mademoiselle Guardinaire, il tenore Zilgo, una giovane inglese assai brutta, e da ultimo, tutti gli scolari mi si fecero d'attorno, per istudiare, com'essi dicevano, il grande fenomeno della respirazione. Tutti parevano sorpresi della potenza straordinaria de' miei polmoni; la fantesca batteva le mani dalla meraviglia, esclamando: scommetto che se io gli monto sopra, costui con un do di petto mi slancia alla soffitta!