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Racconti e novelle

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VI

Clotilde Leoni a Valentina Montorio

«La mia salute non è gran fatto migliorata. Il medico cerca rassicurarmi con buone parole; ma il suono della sua voce, l'espressione del suo volto, ed il regime che ieri mi ha prescritto, tutto mi fa credere che pochi giorni mi rimangono di vita.

»Non accorarti, mia buona Valentina; io ho già provato quanto vi ha di bene e di male in sulla terra; ho vissuto abbastanza.

»Rammenti la prima lettera che ti scrissi dopo il mio matrimonio con Alfredo? – Allora io ti diceva: «La vita che noi conduciamo potrebbesi paragonare ad un giardino incantato, ove, appena colta una rosa, tosto un'altra ne sbuccia più fresca ed olezzante. Ho paura di esser troppo felice.» – Qual vi è mai creatura umana, che cercando nelle memorie del passato, vi trovi otto giorni di felicità completa e non interrotta? Credilo, Valentina; il sovvenire di quegli otto giorni ha sparso un profumo di felicità sul resto della mia esistenza, e le sciagure che in appresso intorbidarono il sereno della mia anima furono mai sempre consolate da un raggio di felicità: la certezza che Alfredo mi ha amata e mi ama tuttavia.

»Eppure (io n'ho il triste presentimento) quando sarò partita dalla terra, i maligni non lascieranno di scagliare sul mio povero amico i più orrendi anatemi. Taluni spingeranno la calunnia fino ad incolparlo della mia morte precoce. – Povero Alfredo! Sull'orlo della tomba io leverò la mia debole voce in sua difesa; perocchè il suo cuore è onesto e sensibile, e tutti i mali che ci colpirono, furono conseguenza necessaria dell'avermi egli troppo amata – d'un amore, che la corrotta società in mezzo a cui viviamo dovea necessariamente combattere.

»Da quanto ho potuto rilevare dall'ultima tua lettera, la storia de' miei dolori ti è in parte nota. Nulladimeno, perchè non sia indotta in qualche erroneo giudizio sul carattere di Alfredo e sui nostri reciproci rapporti, staccherò una pagina dal libro del mio cuore e te la porrò dinanzi, quasi ultimo ricordo di una amica, che fra poco sarà per sempre divisa da te.

»Alfredo non ha altro torto in faccia alla società se non d'aver sortita dalla natura un'anima eminentemente poetica. La poesia, nel secolo in cui viviamo, è lo stigmate precursore del martirio. Quando ci unimmo in matrimonio, noi non consultammo che il cuore, beati nell'ebrezza di un amore corrisposto, fidammo nelle nostre forze, nella nostra fede, nella santità delle nostre aspirazioni. Elevandoci col pensiero al di sopra delle nubi, abbiamo dimenticato che i nostri piedi erano incatenati alla terra.

»Vivemmo otto giorni felici, nella solitudine del nostro piccolo appartamento. Fin quando l'occhio dei profani non giunse a penetrare nel santuario dei nostri amori, credemmo si potesse per noi realizzare sulla terra la felicità del paradiso.

»Un giorno, Alfredo uscì solo al passeggio. Al suo ritorno lui parve che una leggiera nube gli oscurasse la fronte. – Clotilde, egli mi disse, questo metodo di vita non si può continuare senza esporci al ridicolo del mondo. I maligni interpretano sinistramente il nostro volontario isolamento: dicono che io sono un pazzo geloso, un despota, un tiranno. Vivendo nel mondo, convien concedere qualche cosa ai suoi capricci ed alle sue esigenze. Ho affittato un palco al teatro Re pella stagione corrente, associandomi ad un mio giovane amico, il quale da pochi giorni si è ammogliato. Oggi ha luogo la prima recita; tu mi vi accompagnerai, e d'ora innanzi assisteremo ogni sera allo spettacolo. – Come ti piace, mio buon amico. – E poco dopo, uscimmo per andare al teatro.

»Il dramma era buono, gli attori eccellenti, il nostro palco onorato di parecchi visitatori; la serata fu abbastanza piacevole. Pure… nella mia cameretta, fra i miei ricami, sola con Alfredo, conversando con lui senza testimonii, libera d'ogni atto, d'ogni parola… io mi sarei trovata assai meglio.

»All'indomani, Alfredo era pensieroso e preoccupato. – Clotilde, mi disse, la toilette della signora M… che era con noi nello stesso palco, brillava più splendida ed elegante della tua. Io non posso permettere che tu rimanga eclissata dalla tua compagna: tu devi brillare come le altre donne. – Io volli opporre qualche osservazione economica, ma Alfredo con un bacio mi chiuse le parole sul labbro. Da quel giorno io dovetti rivaleggiare in lusso colle dame più eleganti di Milano.

»Venne il carnevale; cominciarono i balli, le feste, i giocondi ritrovi. Io ripeteva ad Alfredo: «Il tempo che noi sacrifichiamo al mondo, è sottratto alle gioie più intense del nostro amore; torniamo alla nostra solitudine: i piaceri, che la società ci ha offerti, son forse paragonabili a quelli che l'amore creava per noi ne' primi giorni del nostro matrimonio? Poi… ricordati, Alfredo, che non siamo ricchi… e procedendo di tal passo saremo condotti a brutti guai.

»I miei pronostici si avverarono, ahi! troppo presto…

»Quando il primo frutto delle nostre nozze, la mia dolce Carolina, venne alla luce, Alfredo ed io versavamo nelle più allarmanti strettezze. Povera innocente creatura! unica figlia dell'amor mio! nello stringerti per la prima volta al seno, alla mia mente si affacciò nel suo più orribile aspetto il pensiero della nostra miseria imminente. Il primo battesimo che tu ricevesti furono le lacrime dei tuoi genitori desolati.

»D'allora in poi fu per me e per Alfredo una serie non interrotta di sciagure.

»La miseria! – Un giovine scapolo può ben sopportarla con rassegnazione, e riderne talvolta in compagnia di sollazzevoli amici, ma un marito… ed un padre! Appena questa lurida nemica penetra nel vostro tetto, colla sua gelida mano ella sfronda ad una ad una le rose della vostra corona nuziale. Svegliandovi ad un tratto dal sogno ridente delle vostre illusioni, voi vi trovate in un abisso di calamità.

»Era il primo anniversario del nostro matrimonio, quando io, Alfredo e la piccola Carolina, abbandonando il nostro elegante appartamento in contrada dei Bigli, ci ritirammo in una oscura stanzuccia al quarto piano nei sobborghi di Porta Vercellina. Oh qual'orribile esistenza da quel giorno in appresso! Alfredo, per non angosciarsi alla vista della nostra miseria, si assentava parecchie ore del giorno, e spesse volte usciva al mattino per non tornare che alla sera a dividere colla sua piccola famiglia una cena frugale. Dal nostro desco era sbandito il sorriso della gioia; dolci colloqui d'amore non rallegravano più le lunghe serate; l'orrore della nostra situazione presente, le incertezze dell'avvenire spandevano intorno al nostro talamo una nuvola tenebrosa, che soffocava ogni piacere.

»Alfredo cercava distrarsi in mezzo alle gioconde brigate de' suoi amici; le ore ch'egli passava al mio fianco erano per lui le più tristi, le più noiose. Gli mossi qualche rimprovero; mi sorsero nell'animo tremendi dubbi sulla sua fedeltà; non potendo spiare i suoi passi, nè osando manifestargli apertamente i miei sospetti per tema di accrescergli noia, io divorava in segreto i miei patimenti. Oh quanti giorni passati nel pianto!

»Quante volte rientrando a tarda ora di notte nel suo tetto coniugale, egli mi trovò sola, intirizzita dal freddo, ad attenderlo sulla soglia dell'oscura cameretta, colla mia figliuola fra le braccia, solo testimonio delle mie lacrime disperate!

»Io caddi malata. Da sei mesi non posso abbandonare il letto. Alfredo passa i giorni e le notti al mio fianco, ed egli pure ha molto sofferto nella salute L'occhio ardente del giovane poeta si è spento nelle lagrime; il riflesso della miseria ha scolorita la sua nobile fronte; si direbbe ch'egli vegeta accanto al mio letto, come un pallido fiore presso una croce del Campo Santo.

»Frattanto, che si dice nella società? Questa perfida cortigiana, al cui capriccio noi abbiamo immolata la nostra felicità, ora per cento bocche versa il vitupero sul nostro capo. – Alfredo è un dappoco, un mentecatto, che secondando i capricci della propria moglie, ha attirato su lei l'infortunio. – Coloro che per pietà gli risparmiano il titolo di mentecatto, lo trattano da libertino, da uomo debole o nullo; nè mancherà, come io più sopra ti ho detto, chi fra pochi giorni andrà ripetendo sommessamente: egli ha ucciso la propria moglie.

»Iniqua, mostruosa calunnia! Sai tu, Valentina, qual fu la vera, la sola cagione dei nostri mali? – Abbiamo creduto che nello stato coniugale bastasse, per essere felici, il colorire la nostra esistenza di una luce di poesia. Ma questa poesia, allorquando non si hanno sufficienti ricchezze per alimentarla, a poco a poco svanisce, e ci abbandona nella tristezza. Forse, in mezzo ai campi, in qualche romitaggio lontano dalla società, la poesia potrebbe supplire alle ricchezze, e l'amore ritrarre da lei un perenne alimento. Ma Alfredo non poteva vivere in un oscuro villaggio. Volendo mettere a frutto il proprio ingegno, onde provvedere ai bisogni della vita, gli fu forza di rintanarsi in queste bolgie cittadine. Egli venne… venne colla fede viva dell'avvenire… sulle ali delle sue poetiche speranze. Ma il poeta è simile ad una farfalla, che dai fiori soltanto può attingere alimento. Guai se questa farfalla, sdegnando le libere aure dei campi e i fulgidi raggi del sole, si lascia sedurre dalla luce artifiziale delle lampade e delle faci! La povera illusa vi perde le ali screziate di mille colori, e perisce miseramente.

»Se la condotta di Alfredo non fu sempre irriprovevole, io sua moglie, sua amante ed amica, sento obbligo di assolverlo da ogni colpa. Egli mi ha amato, e le sventure a cui entrambi soggiacemmo non furono che la conseguenza necessaria di tanto amore.

»Quando io lo vidi per la prima volta, quando le nostre anime sorelle si ricambiarono il primo saluto, rammento che inginocchiata nella mia cameretta ho innalzato al cielo questo fervido voto: «Un bacio solo d'Alfredo e poi che il resto de' miei giorni si consumi pure nel pianto!» Quel voto fu esaudito. Io porto meco nella tomba il suo amore. – L'amore, o Valentina, è una ghirlanda di rose che abbellisce anche i sepolcri.

 

»Le mie ultime parole saranno parole di benedizione per lui. Chiuderò gli occhi nella certezza, che dopo di me, egli non amerà altra donna. Egli verrà a trovarmi nel Campo santo in compagnia della mia piccola Carolina; verrà parlarmi quel linguaggio divino, che i poeti soltanto sanno rivolgere alle donne…

»E quando alcuno al tuo cospetto oserà calunniare colui ch'io scelsi a mio sposo, digli pure che Alfredo fu il migliore dei mariti e che un solo bacio, un solo amplesso di un uomo come Alfredo, è bastato a riempiere il cuore di una donna di tanta felicità, da sopravanzargliene anche nei giorni più amari della vita, e perfino nel sepolcro.

Addio per sempre, e vivi felice!

La tua affez. Clotilde.»

Milano, 16 settembre 1860.

VII

Lettera di Cristoforo Montorio a suo cugino Emanuele Montorio, medico di Saronno

«Carissimo cugino,

»Domani ti attendo senza verun fallo. La tua visita mi è doppiamente necessaria, prima di tutto perchè sono ammalato d'un reuma alla schiena e di un forte raffreddore di testa; poi, perchè questa diavolessa di mia moglie ha bisogno di una tua severa predica, che la riduca al dovere. Altre volte ti ho parlato delle sue stravaganze, de' suoi capricci, delle sue esigenze. L'altra sera ella m'avea preceduto al talamo maritale, ed io poco dopo stava per coricarmi al di lei fianco, allorchè, rizzandosi come una furia e gridando con quanto fiato avea nella gola, mi respinse dal letto. Già da qualche tempo ella muove una guerra accanita al berretto di cotone ed alla flanella di lana che di notte soglio portare indosso fino dalla più tenera età. L'altra sera, essendomi dunque presentato a lei in quell'arnese, mi assalì con tanto impeto e tanta furia, ch'io ne rimasi spaventato; – Oramai non c'è più via di scampo, diss'ella per ultima conclusione; o tu rinunzii alla flanella ed al berretto di cotone, o non accostarti più a tua moglie. – Ma io sono abituato sino da ragazzo a coricarmi colla flanella! – Ora non sei più un ragazzo, rispose più inferocita la megera; scegli: o tua moglie o la flanella. – Anche questa volta ho dovuto cedere; e all'indomani, essendomi svegliato con un reuma alla schiena ed un forte raffreddore di cervello, fui confinato nel mio letto, d'onde non spero di rialzarmi tanto presto! Per pietà, attacca immediatamente la tua rozza al biroccino, e fa d'esser qui domattina. Debbo comunicarti altri segreti coniugali, che da qualche tempo mi tengono in apprensione.

»PS. Figurati che mentre io sono qui inchiodato nel letto con due cataplasmi sulla schiena e una benda sugli occhi, nel salotto inferiore si balla furiosamente! Mia moglie aveva invitati già da tre giorni ad una piccola festa di famiglia non so quanti parenti ed amici, ed oggi, benchè io sia gravemente malato, ella vuol ballare ad ogni costo. L'orchestra si compone di due violini, un trombone e due corni, con che ho l'onore di dichiararmi

Tuo affezionatissimo cugino
Cristoforo Montorio.»

Seregno 18 settembre 1860.»

VIII

Alfredo Leoni a Valentina Montorio

«Vi annunzio con sommo rammarico la dolorosa perdita, che oggi abbiamo fatta della nostra povera Clotilde. Sono troppo oppresso dal dolore per aggiungere altre parole. Questo angelo di bellezza e di bontà si è diviso per sempre da noi. Io non seppi renderla felice; pure io l'ho sempre desiderato ardentemente, e per lei avrei sacrificata la mia vita. Lasciommi un'unica figliuola, un fiore gentile che noi generammo nei primi trasporti del nostro amore, e che, per esser cresciuta fra le lagrime, non è però men bella nè men cara al mio cuore. Qualche giorno, se mi permetterete di farvi una visita, io voglio che voi pure la vediate… la mia Carolina. Ella somiglia a sua madre nel volto; spero educarla in modo che divenga simile a lei anche per le qualità del cuore. Vivrà oscura ed ignorata fin quando ella non sia in età da prendere marito; poi l'unirò a qualche onesto artigiano od a qualche campagnuolo laborioso e dabbene. Una trista esperienza mi ha convinto che il matrimonio è fatto o per gli uomini che posseggono grandi ricchezze, o pei semplici operai e coltivatori dei campi. Chi alla propria sposa altra ricchezza non può offrire se non un cuore pieno di poesia e di amore, diviene necessariamente il peggiore dei mariti.

Vostro devot. amico
Alfredo Leoni.»

Milano, 30 ottobre 1860.»

IX

L'autore a Luigia B…

«Mi congratulo teco di vero cuore pel tuo prossimo matrimonio. Tu non hai voluto aspettare che io venissi al possesso di cinquecento mila lire, e non so darti torto; giacchè dopo quella conversazione poco sentimentale a bordo della nostra favorita barchetta i miei capitali son rimasti stazionari. Dieci lire più dieci lire meno, come tu vedi, si guazza sempre nelle medesime acque.

»Mi dici che il tuo fidanzato, fra l'altre belle qualità che lo distinguono, è anche un po' sordo, un poco miope, e mediocremente imbecille. Di nuovo mi congratulo, figliuola mia; quel tuo uomo ha tutte le disposizioni per formare un eccellente marito. Pochi giorni sono ho visitato in Seregno il signor Cristoforo Montorio, che, prima di ammogliarsi, avea presso a poco le stesse qualità. Sua moglie da circa venti anni si è adoperata a perfezionarlo; tanto che a quest'ora egli è cieco, sordo, e completamente imbecille. E sai tu quanti figli ebbe il signor Cristoforo? Sedici; tutti belli, tutti sani e robusti. Gli uomini di tal fatta sono creati per ristorare le perdite della società; e siccome sta scritto che il numero degli imbecilli vada di generazione in generazione ingrossando, così madre natura ha in grado eminente dotati costoro della facoltà procreatrice. Fanne tuo pro, Luigia mia, e vivi lieta.

Il tuo sempre fedele amico!

Milano, 31 luglio 1866.

A. Ghislanzoni.»

Il Reddivivo

I

Enrico Lanfranchi dormiva già da sei mesi nel cataletto, quando, una bella sera d'estate si riscosse, all'improvviso, rimosse il coperchio della cassa, si levò in piedi, e gittato dalle spalle il logoro lenzuolo onde era involto, uscì passo passo dal Campo santo.

Era proprio una bella sera d'estate. Una pioggia abbondante aveva rinfrescato l'atmosfera; i passerotti correvano pipilando dal giardino alle tettoie, e dagli alberi scossi leggermente da un fresco venticello cadevano i goccioloni come un nembo di perle. Chi non è pago di questo schizzo, vi aggiunga una fetta di luna, una dozzina di stelle, tre o quattro rossignoli che gemano d'amore, un ruscelletto che mormori fra l'erbe – ed avrà il quadro compiuto.

Cionullameno, per un reddivivo, quella non era una serata troppo propizia. Grazie alla cortesia degli eredi (che sogliono seppellirci pressochè ignudi sia la state come il verno), il povero Lanfranchi, attraversando le vie del nativo villaggio senz'altro indumento che quello del proprio epidermide, dibatteva le gengive, come un ragazzetto di cinque anni che s'avvia alla scuola sotto la fiocca del mese di gennaio.

Gli antichi (confessiamolo a nostra vergogna) trattavano i loro morti più generosamente di noi. Nella cassa del morto essi collocavano eccellenti pasticci freddi, bottiglie di vecchio falerno, pietre preziose e monete di vario conio, onde se mai quei tapinelli si fossero desti alla vita, avrebbero trovato di che confortarsi lo stomaco, e provvedersi una tunica per far buona comparsa nel mondo. Dal modo che noi usiamo trattare coi nostri morti si direbbe che abbiamo una paura terribile di vederli un giorno o l'altro ricomparirci dinanzi. Diffatti, appena uno de' nostri congiunti ha esalato l'ultimo soffio, noi ci diamo premura di involgerlo in un lenzuolo, di legargli i piedi e le mani: quindi, dopo poche ore, di inchiodarlo ben bene in una solida cassa, e gittarlo in una fossa profonda, dalla quale, s'egli avesse la vitalità, la forza e l'energia d'un Ercole, non potrebbe evadere per verun modo. Per buona sorte, le leggi hanno prescritto l'indugio delle ventiquattr'ore; senza di che, io credo sarebbe maggiore il numero de' sepolti vivi che non quello dei morti.

– Quand'uno è morto non è possibile ch'ei torni al mondo, dirà taluno crollando il capo.

Dite piuttosto quand'uno è sepolto: ed anche su tale proposito potrei farvi qualche eccezione… Ma, via! non perdiamoci in digressioni, e narriamo la nostra istoriella.

II

Chi era Eugenio Lanfranchi? Un uomo di trentacinque anni, bello della persona, onesto, cortese, vero modello d'ogni virtù. Morendo, egli aveva lasciato sulla terra una sposa ancor giovane ed avvenente, un fratello ed una sorella che molto lo avevano amato e che già da sei mesi si struggevano in lacrime e vestivano a lutto.

– Qual dolce sorpresa pe' miei cari parenti, qual gioia nel rivedermi! Mia moglie! Mio fratello, mia sorella… essi che mi amano tanto… essi che al letto di morte mi prodigavano tante cure, e piangevano inconsolabili nel darmi l'ultimo addio! Sarà una festa di famiglia… Mi correranno incontro, mi opprimeranno di baci e di carezze… Ah! non vorrei che la consolazione soverchia fosse causa di qualche malanno! Bisognerà ch'io mi presenti colle cautele dovute… Mia moglie sopratutto…! La mia tenera Carlotta… Da dieci giorni ella ha cessato di visitare la mia tomba… Forse il soverchio dolore ha consunto le sue forze… e, sola, estenuata dalla malattia, implora dal cielo il favore di scendere con me nella tomba, per starmi a lato eternamente… Ma io giungo in tempo… Solleva, il capo illanguidito o troppo sensibile creatura; ravvisa il tuo sposo… il tuo amante… l'oggetto de' tuoi desideri…

Con tali pensieri, il nostro reddivivo s'è avvicinato alla porticella del giardino, di quel giardino, ove, nelle ore melanconiche del tramonto, egli veniva a sedere ogni giorno presso la sposa adorata, inebriandosi delle sue carezze e de' suoi baci.

Una voce soave e melanconica ferisce il suo orecchio. Quella voce ha proferito il nome di Enrico.

– Il mio nome! Ella pensa dunque al suo sposo! Ella confida al salice piangente ed al ruscello i dolorosi segreti dell'anima… Ella invoca la mia ombra, e cerca un sollievo ai mali presenti nelle dolci memorie del passato! Enrico incurva la persona, mette l'occhio al buco della serratura, e vede infatti sua moglie seduta sur un banco di pietra, presso un salice piangente.

Ma non è già al salice piangente ed al ruscello che Carlotta confida i propri dolori. Un raggio di luna che in quel momento rischiara la scena, mostra al curvato esploratore un pajo di pantaloni di tela russa, entro cui si agitano due nerborute gambe da acrobatico, e più in alto un gilet di seta disteso sovra un torace atletico, quindi una ciarpa di raso azzurro, e una barba di becco che serve di appendice ad una bellissima testa di venticinque anni.

– Enrico! torna a ripetere la donna con voce più fioca.

– Lunge una volta queste lugubri memorie! A che giova il piangere eternamente i trappassati? Dimenticate, e pensate all'avvenire di felicità che ci attende.

– Ah! già troppo io l'ho dimenticato quel povero Enrico! E dire che non per anco sei mesi son trascorsi… Ed io aveva giurato di conservargli il mio amore… la mia fede!..

– Siate ragionevole, via! Carlotta… Se vostro marito tornasse al mondo, egli non potrebbe rimproverarvi d'aver ceduto alle attrattive di un amore fondato sulla onestà e mosso da rette intenzioni. Voi siete giovane, voi avete un'anima sensibile, appassionata… Perchè seppellire in eterna vedovanza tanti tesori di bellezza e di virtù? Trovaste un uomo che seppe apprezzarvi ed amarvi… un uomo che giura di rendervi felice. Egli sarà il padre dei vostri figli… egli ravviverà la vostra esistenza, vi darà il coraggio e la forza per adempiere ai santi doveri di donna e di madre…

– Voi mi parlate un linguaggio sì vero, sì insinuante… Lasciatemi! basta… Ogni vostra parola è nuova esca all'incendio che mi arde nel cuore. Lasciatemi… ve lo ripeto.

– Non vi lascio, se prima non mi promettete…

 

– Quale promessa?.. mio Dio! Ma non vedete?.. io sono più morta che viva… Voi abusate della mia debolezza… Sì… sarò vostra… malgrado i giuramenti fatti. Sarò vostra malgrado i rimorsi che mi straziano l'anima, malgrado la certezza che questa nostra unione debba essermi sorgente di gravi sciagure…

– Carlotta!

– Giacomo!..

– Questa tua promessa mi dischiude il paradiso… Dimmi ancora che mi ami…

– Ma non te l'ho ripetuto mille volte, che dal giorno che ti vidi, conobbi che prima d'allora io non aveva mai amato…?

– Ho inteso quanto basta – mormora Enrico allontanandosi dalla porticella. Da uomo prudente è meglio ch'io mi ritiri… Se indugiassi ancora un minuto, potrei udire o vedere qualche cosa di peggio.

E il poveretto se ne va a capo chino, riflettendo alla propria posizione, e studiando a qual miglior partito gli convenga appigliarsi.