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Racconti e novelle

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III

La sera del 15 ottobre dell'anno 1837 prendevano alloggio all'albergo d'Europa, allora locanda di San Paolo, in Milano, il signor Cristoforo Montorio e sua moglie Valentina, in compagnia di alcuni parenti ed amici che avevano seguiti i due coniugi in quella spedizione di piacere. La numerosa e lieta brigata cenò di buon appetito, poi tutti se ne andarono al teatro della Scala, con sommo dispiacere del signor Montorio, il quale, per sue particolari ragioni, avrebbe preferito d'andarsene a letto. A un'ora dopo mezzanotte la comitiva tornò alla locanda. Montorio si fece recare un brodo all'uovo, quindi accomiatandosi dai compagni, che non cessavano dal perseguitarlo con mille celie e mille equivoci motti, si chiuse in camera colla sposa.

All'indomani, verso le sette del mattino, Valentina era già desta ed abbigliata per uscire. Ella volle salire sulla cupola del duomo, con nuovo rammarico del signor Montorio, che avrebbe preferito di fare una gita in carrozza. Valentina, leggiera e volubile come una capriola, saliva gli scalini a quattro a quattro, visitava ogni angolo, ogni nicchia, correva dall'una all'altra estremità del grandioso edificio. Montorio la seguiva ansante, cogli occhi fuori dell'orbita, la lingua gonfia e schiumosa; ad ogni tratto egli si fermava per riposare su qualche scalino e si asciugava il sudore, mentre Valentina gli gridava dall'alto: Che fai Montorio? Presto! Io son già quasi alla sommità della cupola maggiore! Che? Dove è andato il tuo coraggio? Hai tu già perduta la lena? – E il poveretto si alzava da sedere, e s'arrampicava per quelle scale tortuose, come un giustiziato salirebbe i gradini del patibolo.

I due coniugi soggiornarono a Milano una settimana. Il povero Montorio era visibilmente dimagrato. L'ultimo giorno, quando Valentina gli propose di salire sull'arco del Sempione, egli senti davvero mancare il coraggio. Confidò la infaticabile compagna al servitore di piazza, e, sdraiandosi sulle erbette, rimase per ben due ore immobile come corpo morto.»

La sposa dall'alto del monumento lo chiamava a gran voce:

– Montorio! Montorio! Io ti credeva men pigro e più robusto…

Il ritorno al villaggio fu men gaio che la partenza. Valentina parve noiata, e, durante il tragitto, per dispensarsi da ogni conversazione, pretestò una forte emicrania. Montorio, al primo muoversi della vettura, si addormentò profondamente; i parenti e gli amici che lo accompagnavano, non lasciarono di notare che, durante il sonno, la sua testa pendeva dal lato opposto a quello della moglie.

Quando i due sposi furono soli nel loro appartamento, Montorio disse a Valentina:

– Sono stanco dal viaggio; io vado a dormire nel mio gabinetto. A Milano abbiamo fatto tante salite!

Rispose la moglie:

– Sta bene. Buona notte!

Verso mezzanotte, una voce di tenore, accompagnata da una chitarra, cantava melanconicamente in lontananza:

 
Fin dall'età più tenera
Tu fosti mia, lo sai;
Tu mi lasciasti, ahi misero!
Anche infedel… t'amai…
 

Valentina era ancor desta; Montorio, russando sonoramente, pareva che dal suo gabinetto secondasse quella canzone con un accompagnamento di contrabasso.

IV

Pochi giorni dopo, Valentina riceveva da Clotilde la lettera seguente:

«Mia buona amica,

«Io ti aspettava il giorno delle mie nozze; invece mi pervenne un laconico biglietto, pieno di frasi tronche e sconnesse. Debbo credere che dopo quindici giorni di matrimonio… tu sii già la più sventurata fra le donne? Via! Fu un quarto d'ora di cattivo umore…! Spero ricever presto un'altra lettera tutta ingemmata di gioconde ed amabile cose. Frattanto, se il sapermi felice può recarti qualche dolcezza, sappi che dal giorno delle mie nozze infino ad oggi, per me la vita fu un seguito di piaceri. Oh, come a torto il matrimonio fu chiamato da alcuni la tomba dell'amore! Se in Alfredo pochi giorni sono io amava il fidanzato, oggi in lui adoro il marito, e col succedersi dei giorni, delle ore, dei minuti, scopro in lui pregi, che vieppiù me lo rendono caro.

«Compiuta la cerimonia nuziale, noi ci recammo alla casa di mio padre, e dopo un lieto convito, a cui intervenne una scelta brigata di parenti e di amici, partimmo alla volta di Milano. Alfredo non volle che alcuno ci accompagnasse. Nulla infatti è più incomodo e più imbarazzante per due innamorati quanto la presenza di persone estranee. No, diceva Alfredo, noi non consentiremo all'avida curiosità dei profani lo spettacolo di queste prime, ineffabili gioie! Noi partiremo soli pel nuovo pellegrinaggio d'amore a cui Dio ci ha chiamati; l'oscena celia, l'equivoco motteggiare degli stolti contaminerebbe la purissima atmosfera che ne circonda, o sfoglierebbe le rose della ghirlanda che io ti posi sul capo.

«Mio padre, mia madre, tutti i nostri parenti ed amici si levarono dal banchetto, e ci accompagnarono alla vettura. Mia madre versò un torrente di lagrime; ella non si restava dal baciarmi e dallo stringermi fra le braccia; poi, volle abbracciare anche Alfredo, e, quando la vettura si mosse per partire, ella levò le sue scarne braccia in atto di benedirci.

» – Amatevi, amatevi sempre, figliuoli miei: tali furono le ultime parole della buona vecchia; Alfredo, fate felice la mia figliuola.

»Allora lo sposo mi avvinse fra le sue braccia, e così abbracciati sparimmo allo sguardo dei circostanti.

»Tu pure, o Valentina, avrai provate le celesti emozioni di quel primo abbandono, di quei primi trasporti d'amore. V'ha egli nella vita nostra un istante di maggior felicità? Amarsi, e trovarsi isolati dal mondo intero, liberi, senza paure, fidenti nell'avvenire! Sapere che l'uomo a cui consacrasti il tuo cuore, l'uomo, che stringi fra le tue braccia, sarà per te un compagno inseparabile, l'amico della tua giovinezza, il sostegno de' tuoi vecchi giorni; e intanto, respirare l'alito della sua bocca, fremere con lui di una ebbrezza voluttuosa, e levando gli occhi al firmamento senza trepidanza e senza rossore, poter dire coll'intima convinzione dell'animo: Queste nostre gioie fanno sorridere gli angioli, e lo spettacolo dei nostri amori rallegra gli abitatori del cielo!

»Giungemmo a Milano a due ore di notte. Quando la vettura si fermò presso la nostra abitazione, il portinaio e sua moglie, con un seguito di vispi fanciulletti, mossero ad incontrarci. Viva gli sposi! battendo palma a palma, gridavano i fanciulli. La portinaia ci accompagnò al nostro appartamento. Entrammo in una sala decorata modestamente, ma con molto buon gusto; di là passammo nella camera da letto.

» – Avete voi quanto vi fa di bisogno? chiese la portinaia in atto di congedarsi.

» – Si, rispondemmo ad un tempo Alfredo ed io.

»La buona donna se ne andò; Alfredo chiuse la camera, e noi restammo soli.

»Allora mi inginocchiai dinnanzi ad un'imagine, e proruppi in lacrime dirotte. Erano lacrime di gioia.

» – Vieni, disse Alfredo (e mi condusse nel gabinetto vicino), vieni a salutare mia madre…

»Levando gli occhi, vidi dinanzi a me il ritratto di una donna di circa trentacinque anni; una fisonomia dolce, melanconica – uno sguardo pieno di tenerezza e di bontà.

» – Eccoti, Clotilde, la sola persona che io abbia finora amato in sulla terra. La poveretta è morta da quattro anni. Ora, dinanzi a questa imagine adorata, rinnoviamo i nostri giuramenti.

»Noi ci inginocchiammo insieme, e proferimmo il giuramento, tenendoci stretti per mano, e terminando la frase con un lungo bacio.

» – Vedi, disse Alfredo rialzandomi; non ti pare che sulle labbra di mia madre spuntasse un sorriso?

»E tornammo alla camera da letto.

»O Valentina: la vita che noi conduciamo da otto giorni potrebbesi paragonare ad un giardino incantato, dove, appena colta una rosa, un altra ne sbuccia più fresca ed olezzante. Ho paura d'essere troppo felice!..

»Non ho veduto ancora un teatro, nè ho visitato alcun monumento di questa bella città. Usciamo rare volte al passeggio, evitando le vie frequentate ed i corsi; Alfredo è occupato a scrivere sei ore al giorno; io gli sto d'accanto lavorando; di tratto in tratto interrompiamo le nostre occupazioni per iscambiarci quattro parole e quattro baci, poi ciascuno ritorna al suo posto. È la vita dei canarini!

»E sai cosa mi ripete Alfredo quasi ogni giorno! – Clotilde: nello stato coniugale, perchè si conservi l'amore, convien conservare innanzi tutto la poesia. La poesia è santa luce del cielo senza di cui ogni cosa scolorisce.

»Ho voluto ripeterti queste parole di Alfredo, perchè tu pure ne tragga profitto.

»Frattanto, abbi un po' di di indulgenza per questa mia lettera, forse troppo lunga e piena di dettagli troppo minuziosi. Ho sfogato il mio cuore, versando in quello di una tenera amica una felicità sovrabbondante.

»Attendo pel ritorno del corriere una tua lettera, che più sarà lunga, più mi riuscirà gradita. Caccia dall'animo i tristi pensieri, ed ama sempre

La tua amica Clotilde Leoni».

Milano, 10 novembre.

V

Ora mi si permetta una breve digressione.

La barchetta errava in balìa delle onde…

In qual anno? in qual mese? in qual'ora? Era di notte, o di giorno? – Si accomodi il lettore come gli aggrada meglio.

La barchetta errava in balìa delle onde, e il pallido raggio della luna, o se più vi piace il limpido chiarore dell'alba, rischiarava la fronte di Luigia.

Chi era Luigia? Una giovinetta di quattro lustri. – Troppo acerba, dirà taluno. – Aggiunga altri sei anni. – Troppo matura, dirà un altro. – Ne levi cinque. – V'è modo di appagare tutti i gusti.

E mentre in estasi d'amore io mi stringeva al cuore la sua mano, ella introdusse dolcemente l'indice e il pollice nella taschetta del mio gilet (altri direbbe panciotto), e dopo averne frugate le più intime nicchie, ne trasse fuori una dozzina di monetuzze di vario conio; poi, liberandosi dal mio fervido amplesso, si diede a contarle sul palmo della mano.

 

– Dodici lire!

Erano proprio dodici lire.

– Gli è quanto basta per tornare a Milano.

– E noi torneremo a Milano?

– Si, mia Luigia; convien cedere alla necessità. Vedi; se una di queste monetuzze ci mancasse, noi saremmo nella imbarazzante posizione di dover o l'uno l'altra far tutto il cammino a piedi, ovvero restar qui in ostaggio fino a quando la fortuna non ci inviasse altro denaro: e tranne il caso poco probabile d'una vincita al lotto…

– Una vincita al lotto!.. Sono già due anni che il venerdì d'ogni settimana io palpito di questa dolce speranza. Un terno!.. oh! un buon terno secco!..

– Cinquemila lire… guadagnate senza fatica…

– Sai tu che la è una bella somma: cinque mila lire!.. Se mai giungessi a possederle!..

– Via; sentiamo qual impiego ne faresti…

– Io amo tanto di fabbricare dei castelli in aria… In primo luogo, mi affretterei a prendere in affitto quattro stanzette al secondo od al terzo piano. La mia povera madre è sempre malata; mio padre fuma le otto ore al giorno, io stiro continuamente; è ben trista cosa lo starcene così appollaiati in una soffitta priva d'aria e di luce, corrotta dalle esalazioni del tabacco e del carbone! Vorrei che il mio piccolo appartamento sorgesse nelle vicinanze dei bastioni; che dalle mie finestre si vedessero gli alberi, la campagna e largo spazio di cielo; sicchè alla mattina, aprendo le imposte, i primi raggi del sole venissero a corteggiarmi; poi, alla notte, attraverso le invetriate, la luna… mi servisse di lampada quando vado a coricarmi.

– La luna, il sole, le stelle si ponno godere a buon mercato, Luigia mia; eppure anche queste bellissime cose in città non sono tanto belle come qui all'aperta campagna. Se io fossi ricco, mi guarderei bene dal circoscrivere la mia esistenza entro il limite impuro di una capitale.

– Oh certo, se fossimo ricchi… io… lo saprei ben io… come si fa per vivere felici.

– Supponiamo che il signor lotto ti favorisca un centinaio di mila lire; vediamo qual uso ne faresti.

– Cento mila lire! tu vedi bene, amico mio, che questi sono sogni; la piccola somma ch'io rischio ogni settimana non potrà mai rapportarmi tanto. Contiamo sul positivo…

– Di positivo in questo momento non havvi per noi che una dozzina di lire, e domani, giungendo alle porte di Milano saremo tutti e due senza un obolo. Poichè siamo in sul fantasticare, tanto è che disponiamo di larghi capitali. Metti dunque ch'io sia un tuo banchiere; per ora ti concedo centomila lire: quando altra somma ti abbisogni, ricorri alla cassa.

– Tu vedrai come io sia buona massaia. La nostra abitazione, per esempio, vorrei fosse posta al piede di quella collinetta là in fondo. Due piani di due camere ciascuno; abbasso la cucina ed una piccola sala; di sopra il tuo gabinetto da studio e la camera da letto. Dal lato destro una gradinata di marmo pulito, che scendesse fino al lago, e al fianco di quella gradinata una folta siepe di rose e gelsomini. A sinistra, un giardino, protetto da alte muraglie e da alberi frondosi; quindi una fertile ortaglia irrigata da un ruscello, che scendendo dalla collina, carezzasse in passando le erbette ed i fiori, e noi rallegrasse col suo mormorio.

– Non dimenticare che l'anno si divide in due stagioni (altre volte in quattro), e convien pensare seriamente a procurarci qualche comodità anche nel rigido inverno. Questo paese è dominato dai venti.

– Da una parte ci protegge la collina, dall'altra faremo alzare un gran muraglione alto dieci metri più della casa..

– E per tal modo non godremo più la vista del lago e delle campagne…

– Non ci pensava. Dunque, abbasso il muraglione!.. quando il vento soffierà gagliardo, chiuderemo le imposte delle finestre, e staremo nelle nostre stanze accanto al camino. Le nostre camere saranno mobigliate con molta semplicità; un letto, un piccolo divano, una dozzina di scranne, gli attrezzi per la cucina, e basta. Nel vestire eviteremo ogni superfluità di lusso; per me, quattro gonnelline di lana e due di seta pei giorni festivi; per te…

– Un cappotto e un pajo di brache di panno bigio l'inverno e la state; con questa sola differenza, che in estate il cappotto e le brache rimarranno tutto il giorno nella guardaroba…

– Quanto al vitto…

– Perdono, Luigia, ma è tempo di ricorrere alla cassa; le centomila lire sono già esaurite nelle prime spese d'impianto. Il proprietario del fondo, l'architetto, i muratori, il mercante di mobili, il tappezziere, il sarto e la modista si sono portati via ogni cosa; anzi, quando avrai ben calcolato, vedrai che ti rimane qualche debituzzo. Se tosto non ti procuri nuove somme, io temo che noi saremo ridotti a morire di fame nel nostro delizioso casino. Via! Eccoti altre centomila lire; usane moderatamente e con profitto.

– Che? Non ricaveremo noi alcun frutto dal denaro che abbiamo impiegato nella compera dell'ortaglia e nella costruzione della casa? Più volte ho inteso ripetere che centomila lire danno una rendita annua di cinquemila.

– Ciò potrebbe realizzarsi quando tu ti risolvessi ad affittare camere mobigliate, od a portare ogni mattina al mercato l'insalata ed i ravanelli della nostra ortaglia. Ma siccome questo casino dev'essere abitato da noi, e tu non aspiri a cangiare la tua professione di modista in quella di erbivendola, converrà pure che tu accetti le centomila lire che io ti offersi, e le impieghi o in compere di terreni, o in qualche speculazione commerciale, perchè ci rendano tanto da provvedere agli altri nostri bisogni. Non farmi la ritrosa; prendi quanto ti occorre, e tiriamo avanti!

– Quand'è così… disporrò anche di queste cinque mila lire di rendita. Sai tu che cinque mila lire, quando si ha una casa ed una ortaglia del proprio, sono perfino di superfluo? – Ecco adunque come io intenderei di regolare i nostri pasti. Alla mattina (ci leveremo allo spuntar dell'alba), alla mattina, caffè, burro e qualche frutto dell'orto; a mezzo giorno un pranzo frugale di tre piatti e la zuppa: alla sera una cenetta di uova e legami secondo la stagione. Faremo la colazione e la cena, sempre a l'aria aperta, sotto l'ombra dei castani, al chiaro della luna, fra il gorgheggio degli uccelli e il mormorio delle onde…

– Il chiaro di luna, il canto degli uccelli, il mormorio dell'onda, torno a ripeterlo, son tutte cose che si hanno a buon mercato, quindi non devono entrare nei nostri calcoli. Frattanto, Luigia mia, sappi che io non ti permetterò mai di passare l'intera giornata presso i fornelli a invigilare le pentole e i tegami, nè vorrei che tu ti occupassi di spiumacciare i letti e scopare le camere. Io voglio che le tue mani conservino la freschezza della neve, la candidezza dell'alabastro, la voluttuosa morbidezza del velluto.

– Una cameriera è dunque indispensabile. Troveremo una contadinella che sia giovane, bella e di mite carattere; con cinque mila lire di rendita possiamo mantenerci noi ed anche una donna di servizio…

– E di soprappiù un cane, un gatto, e se vuoi, anche un papagallo.

– Eccoci adunque installati nel nostro piccolo Eden…

– Togli quella parola installati; mi suona male all'orecchio.

– Eccoci adunque ricoverati nel nostro delizioso romitaggio, in mezzo al silenzio ed alla pace dei campi; liberi, indipendenti, felici, come due tortorelle innamorate.

– Quale esistenza deliziosa!.. Peccato che dugento mila lire di capitale non bastino ancora… Sai tu che accade alle tortorelle innamorate, quando hanno vissuto insieme parecchi giorni?

– Volano pei campi, salgono sui rami degli alberi, scherzano, folleggiano, cantano, si beccano, e poi…

– Poi, viene il giorno in cui una delle tortorelle depone le uova.

– Vedo a che mira il tuo discorso… Tu pensi dunque che noi avremo dei figli…

– Non solo ci penso, ma li desidero con tutto il cuore. I figli sono il vincolo sacro che annoda eternamente due anime innamorate. Talvolta, col lungo convivere insieme, due persone, marito e moglie, per esempio, inaridite le rose della giovinezza o intiepiditi gli istinti del piacere, si addormentano nella indifferenza e nella noia; quindi a poco a poco si scostano, si fuggono, si disgiungono, e l'amore più fervido ed appassionato degenera in reciproca antipatia, sovente anche in odio. Un figlio soltanto può impedire questo doloroso divorzio dei due cuori. Sì, o Luigia; se tu vuoi che il nostro amore duri tutta la vita, implora dal cielo il favore di divenir madre. Forse un giorno, vicini a separarci per sempre, il nostro figliuolo si lancierà in mezzo a noi lacrimoso; ricongiungerà la tua mano alla mia, e mi trasmetterà, come pegno di pace e di conciliazione, il bacio che tu avrai deposto sulle sue labbra innocenti.

– Oh si!.. voglio avere un figliuolo!

– Uno?.. e se ne avessimo dodici, Luigia mia?

– Dodici figli! Misericordia!.. Ciò non è possibile… – È tanto possibile l'averne dodici come l'averne uno. Prendiamo la cifra media; supponiamo che essi non oltrepassino la mezza dozzina. Ad ogni modo, il nostro casino non sarebbe abbastanza capace…

– No, certo. Io non vorrei che i miei figliuoli stessero ammucchiati l'uno sull'altro, come i passerotti nel loro nido… Ciascuno dovrebbe avere la propria cameretta o il proprio letticciuolo.

– Io veggo che ci converrà fabbricare di bel nuovo… e la sarà una fabbrica un po' dispendiosa. Dimmi: ti bastano altre duecento mila lire?

– Via! si faccian le cose senza risparmio; queste nostre creature non devono soffrire alcun disagio; non basta metterli al mondo, i figliuoli, bisogna anche pensare a renderli felici.

– La loro educazione mi preoccupa seriamente. L'educazione è la prima base d'ogni felicità umana.

– E come si fa in questo romitaggio ad avere dei buoni maestri? Io vorrei che le ragazze fossero istruite di buon'ora in ogni donnesco lavoro, che apprendessero l'italiano, il francese, la musica, il ballo, il disegno; e tutto ciò sotto la sorveglianza della madre. Ai maestri confiderei l'incarico della loro coltura intellettuale, ma il cuore di quelle mie creature vorrei educarlo io.

– E i figli maschi?.. onde crescano sani, robusti, degni della stima universale, decoro ed ornamento della famiglia, e quanto si possa desiderare virtuosi e felici, molte cose devono apprendere. Cominciamo dagli esercizi ginnastici: il ballo, la scherma, l'equitazione, sono arti che esigono un istitutore speciale per ciascheduna, e, ben calcolati i vari rami dello scibile umano in che i nostri figliuoli dovrebbero essere versati, la loro educazione verrebbe a costare circa ventimila lire all'anno.

– Questi tuoi calcoli mi spaventano. Basta per oggi; abbandoniamo le regioni immaginarie; rinunziamo al nostro bel casino, ai piaceri della vita campestre… e torniamo alla realtà. Io credo che la vera beatitudine sia riposta nell'amore. Per amarsi non è necessario di possedere un casino in riva al lago, nè una rendita di cinque mila lire. La vera felicità, anzichè un riverbero degli oggetti che ne circondano, è una emanazione di noi stessi, che ha la sua sorgente nell'intimo dei nostri cuori. Amiamoci; e una povera soffitta nuda d'ogni ornamento, esposta alle intemperie delle stagioni, fredda, oscura, tappezzata di ragnateli, sarà per noi un paradiso di delizie!

Luigia mi gettò al collo le braccia, poi, dopo breve silenzio… Amico, mi disse… quand'è che ci sposeremo?..

– Quando sarò padrone di quattrocentonovantanove mila novecento ottantotto lire, che aggiunte alla somma che oggi possediamo, faranno appunto un capitale di L. 500.000. – Concedo che due amanti possano vivere beati anche in una soffitta; ma un marito ed una moglie…

– Alfredo Leoni non ha forse detto a sua moglie che la sola poesia, nello stato coniugale, mantiene sempre vivo l'amore?

– È vero; ma per mantenere questa poesia, ci vogliono per lo meno ventimila lire di rendita all'anno. Vuoi tu sapere come sia finita la istoria di Alfredo e di Clotilde? Io ti servo sul momento; leggiamo quest'altra lettera: