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Racconti e novelle

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CAPITOLO V.
Non v'è più dubbio

Virginia Santacroce, la fidanzata di Lodovico Albani, ha di poco oltrepassato il terzo lustro, ed è bella come un angioletto.

Non è sorprendente – a sedici anni poche ragazze son brutte. Ciò che forse recherà meraviglia è il sapere che Virginia Santacroce ha oltrepassato il terzo lustro nella ignoranza completa di certi misteri naturali, che oggidì la più parte delle fanciulle all'età di dodici anni hanno già indovinato per istinto.

È ben vero che Virginia non fu educata in collegio; che nei primi anni ella non venne affidata alla tutela di una badessa pinzocchera; che vivendo in una borgata, ove per caso non erano altre fanciulle di nobile casato, potè scansare le pericolose amicizie e la comunanza non meno pericolosa de' primi sollazzi infantili.

Nondimeno il fatto è meraviglioso, tanto più che alla tavola della marchesa pranzavano sovente il reverendo parroco don Cecilio Speranza e il di lui degno Coadjutore don Domenico Crescenzi, morigerati entrambi e prudentissimi a tutte l'ore del giorno, fuor che nell'ora della digestione.

La semplicità, l'innocenza della giovinetta avevano più che la bellezza affascinato il cavaliere Albani. Ne' più intimi colloqui colla fanciulla, Lodovico non si era permesso mai una di quelle parole, uno di quei motti ambigui, di che sembrano compiacersi i giovani fidanzati alla vigilia delle nozze. Quand'anche gli fosse sfuggita inavvedutamente una allusione meno sentimentale, Virginia non l'avrebbe compresa.

Senza tali premesse, il lettore si troverebbe molto imbarazzato a indovinare per quale accidente il notturno colloquio di Virginia e Lodovico riuscisse fatale ad entrambi.

Oh! perchè non ci è dato assistere a quella scena di sublime tenerezza, a quell'ingenuo abbandono di due anime santamente innamorate! Perchè non ci è dato riprodurre il dialogo vivo, animato, interrotto da lagrime, da sorrisi e baci più eloquenti d'ogni parola?

Ma i due amanti erano celati dietro un cespuglio, e parlavano a voce sì bassa, che la fedele Clementina, stando di sentinella a poca distanza, non riusciva a comprendere un motto.

Il colloquio dei due amanti durò tre quarti d'ora… È verisimile che l'ingenua e timida fanciulla provasse una istintiva ripugnanza a profferire la parola in cui si racchiudeva la spiegazione del grande mistero…

La situazione era molto difficile… Una marchesa di sedici anni, una creatura poetica, innamorata, inebbriata di sublimi e caste illusioni, dover chiedere all'amante, all'essere adorato: è vero e non è vero che tu possegga una… coda?!

Io mi appello a voi, o giovanette dall'anima pura ed ingenua – ditemi – non vi trovereste molto imbarazzate nel formulare una domanda di tal genere?..

La sventurata Virginia, dopo aver lottato per tre quarti d'ora contro sè stessa, finalmente ebbe il fatale coraggio…

Immaginate la sorpresa, lo stupore di Lodovico.

– Ella osa… chiedermi… s'io mi abbia una coda?..

Tutta la poesia, tutte le illusioni, che da parecchi mesi alimentavano nel giovane la fiamma dell'amore, svanirono al suono di quella orribile parola.

Poco dianzi mi sono appellato alle fanciulle dall'anima pura ed ingenua; – ora mi appello a voi, o giovani dall'anima ardente. – Che avreste fatto, come avreste agito nel caso di Lodovico?

Una tale domanda mi dispensa da ogni spiegazione. Come si comportasse il giovine fidanzato, nessuno potè mai indovinarlo. Fatto è che Virginia, balzando poco dopo dal frondoso ricovero, qual se avesse toccata una serpe, gettossi fra le braccia di Clementina mandando un grido di dolore, mentre Lodovico si involava per la porticella segreta.

Il grido di Virginia fu udito.

La marchesa donna Fabia, che stava in quel punto alla finestra cogli occhi fissi alla luna e la mente assorta nella coda, si riscosse, abbassò lo sguardo, e vide fra i platani del giardino correre una figura bianca… Il cuore materno indovinò che quella bianca figura non poteva essere che Virginia.

Sciagurata ragazza…! Ella avrà voluto abboccarsi col signor Lodovico… sapere da lui se… Ma quale imprudenza!.. Quel grido mi ha commosso le viscere… Oh! bisogna ch'io sappia sul momento…

E la marchesa uscì da' suoi appartamenti per correre alla stanza di Virginia…

La povera fanciulla si era gettata sul letto come persona affranta… E nondimeno, vedendo entrare la madre, ella ebbe forza di levarsi, di correrle incontro e di gettarsele ai piedi per disarmarne la collera…

Oh! che hai tu fatto… figliuola mia!.. A quest'ora!.. in giardino!.. con un uomo… che forse non è uomo…!

– Per pietà… non rimproverarmi, non affliggermi d'avvantaggio, mia buona madre!.. Confesso che io mi ebbi torto… e te ne chieggo perdono. Quando tu lo dicevi… avrei dovuto credere… senza bisogno di altre conferme… Mi era venuto un dubbio… Mi pareva tanto inverisimile che il mio Lodovico…

– Ed ora?..

– Ora non v'è più dubbio!

– Dunque egli stesso ha confermato?..

– Ma se ti dico, mamma… che non v'è più dubbio!

E all'indomani, per mezzo della solita messaggiera,

Virginia inviò a Lodovico una lettera di formale congedo. Quella lettera non ammetteva repliche.

Due giorni dopo, il cavaliere Lodovico Albani lasciava la borgata di L.

CAPITOLO VI
La calunnia

Scorsa una settimana, in sul sagrato della chiesa, il contino Tiburzio, incontrando ii molto reverendo sacerdote don Cecilio Speranza, ebbe con lui il seguente dialogo:

– Sapete voi, don Cecilio, che è proprio un caso da rimanerne trasecolati?

– Io non ho la fortuna di comprendervi, signor conte!

– Voglio alludere alla istoria del povero Lodovico… all'affare della coda…

– Ebbene? vi par strano che la signora Virginia abbia ricusato di sposare un mostro, un animale di genere neutro… un essere intermedio fra l'uomo e la bestia?

– Non è il rifiuto di Virginia che mi sorprende, colendissimo e reverendissimo signor curato… Ciò che mi reca meraviglia è il sapere che Lodovico abbia realmente una coda…

– Che? non eravate voi sicuro prima d'ora?..

– Io vi giuro, signor don Cecilio, che quando vi ho narrato quella sciagurata istoria della coda, io aveva intenzione di celiare… di fare una burla innocente… Non ho dunque ragione di sorprendermi in veder realizzato un fenomeno, che io non credeva esistesse fuorchè nella mia imaginazione?

Il reverendo cavò di tasca la tabacchiera – fiutò un presa di rapè, levando gli occhi al firmamento – poi, traendo il contino presso il vestibolo della casa parrocchiale:

– Mio buon signore – gli disse con voce melata – se è vero quanto asserite, che la coda del signor Lodovico fu da voi inventata per celia innocente, conviene ammirare in questo fatto la mano sagace della provvidenza, la quale talvolta si serve di un errore per condurre i miseri mortali alla scoperta del vero… Il signor Lodovico era un uomo pericoloso… Le sue massime, i suoi principî potevano scandolezzare gli onesti abitanti della borgata… È bene ch'egli abbia dovuto ritirarsi… Sarà prudente non riparlare dell'accaduto, e lasciar correr l'acqua pel suo letto… Ciò che è fatto è fatto… Ricordatevi bene, signor contino – e don Cecilio fiutò una seconda presa di tabacco – ricordatevi bene, che quando noi preti ci mettiamo la coda, nè anche il diavolo può impedire che essa produca il suo effetto.

Il contino si inchinò profondamente, e, tornando alla propria abitazione, gli ricorse alla mente un testo latino ch'egli aveva appreso in collegio dai reverendi padri gesuiti: calumniare! aliquid semper manet. – Il qual testo parafrasato verrebbe a dire: quando volete rovinare un galantuomo, inventate pure le più incredibili calunnie – e il mondo crederà sempre!

Cugino e Cugina

I

In una bella sera di settembre (non so bene se splendesse la luna) partiva da Monza una carrozza diretta verso Milano.

Sedevano nell'interno quattro persone, tre maschi ed una femmina; e siccome la femmina era più vecchia e più brutta dei maschi, così per evitare la noia del corteggiarla, questi pensarono bene di addormentarsi.

– Come russano questi animali! borbottò fra le gengive la vecchia peccatrice. Poi, lanciando uno sguardo obbliquo al cabriolet, e raccolto il magro ossame in un gran scialle di chachemire, cominciò a russare più sonoramente degli altri.

– La mamma dorme, mormorò Onorina.

– Mi pare che dormano tutti, rispose Federico. Onorina e Federico erano due ragazzi, la prima di dodici anni, l'altro di dieci, ed erano belli entrambi come due bellissime rose appena sbocciate. Il volto di Onorina, sebbene conservasse le tinte ancora freschissime, avea nondimeno perduta quella vernice infantile, che le donne bionde conservano talvolta oltre i quattro lustri.

I capelli acconciati con qualche ricercatezza, scendevanle, come due ale di corvo, dalla fronte fin sotto l'orecchio, dando alla sua fisonomia una espressione piuttosto severa. Quando una fanciulletta di dodici anni si pettina come una donna di venti, ed assume il contegno d'una piccola matrona, è indubitabile che ella ha già perduta buona dose d'innocenza battesimale. O la notte ne' sogni, o il giorno nei fanciulleschi sollazzi, per qualche malcauta paroluzza sfuggita alla governante in un momento di cattivo umore, ad Onorina si erano già svelati certi misteri, la cui completa ignoranza mantiene sulle guancie degli adolescenti il sorriso dei cherubini. Oh, come è funesta la scienza del bene e del male ad un'Eva di dodici anni!

I garzonetti, meno precoci nello sviluppo delle facoltà organiche ed intellettuali, si dedicano più tardi a certi studi fisiologici, cui il nostro malvagio istinto ci trae naturalmente. Federico, sebbene educato in collegio, non aveva fino a quel giorno sospettato che sulla terra vi fossero altri sollazzi oltre il giocare alla palla e percuotere un paleo. Egli amava Onorina come si ama una gentile cuginetta, la sola che dividesse i suoi trastulli nei mesi delle vacanze. Talvolta, senza malizia veruna, se la faceva montare a cavalcioni sulla groppa, e, sotto una tempesta di frustate che la cattivella non lasciava mai di somministrargli, correva… correva anelante pe' viali del giardino, finchè sfiniti di forze rotolavano entrambi sull'erbetta. Quel giocherello pericoloso non esercitava sull'anima di Federico veruna influenza morale. Troppo egli sapeva investirsi della parte che rappresentava: per Onorina egli era un cavallo e nulla più; tantochè, affaticato dalle corse, e dogliosetto per le frustate ricevute, ogni sera egli si separava da lei per dormire saporitamente, e ricominciare all'indomani gli interrotti sollazzi.

 

II

La vacanza era finita; Onorina e Federico tornavano quella sera a Milano in compagnia dei parenti, che come ho detto più sopra, si divertivano russando nell'interno della carrozza. I due fanciulli occupavano il cabriolet, e pareva non avessero alcuna voglia di dormire e tanto meno di starsene zitti; perocchè l'aria della sera e il moto della carrozza, che ai vecchi dà sonno, ravviva all'incontro lo spirito degli adolescenti, che simili ai verginelli fiori si drizzano e rinverdiscono alla frescura delle rugiade.

– Come le vacanze passano presto! sospirò Onorina, levando gli occhi al firmamento.

– Fra pochi giorni torneremo al collegio…

– Dieci mesi di reclusione… e di studio!

– E tu studii, Federico, quando sei in collegio?

– Oh bella! convien studiare per forza; in caso diverso il rettore mi condanna alla dieta di pane ed acqua… e mi batte con uno staffile…

– Come io, quando si gioca al cavallo.

– Oh! le tue frustate hanno ben altro sapore… Fra noi si fa per divertirsi…

– Eppure… mio bel Federico… bisogna studiare… se vuoi farti uomo. Fra pochi anni non giocheremo più al cavallo… allora tu sarai un giovane, ed io non sarò come adesso… una bambina… Bisognerà pensare a maritarsi.

– Maritarsi… e perchè dunque?

– Perchè le ragazze si maritano? Bella domanda… Ma tu devi aver freddo… mio bel Federico… – E in così dire Onorina gli gittò sulle spalle un lembo del proprio mantelletto; e tutti e due si tacquero per pochi minuti.

– Chi sa… Ho qui in mente un gran pensiero… Se noi… ci sposassimo… Federico?

– Hai tu inteso dire che i ragazzi si sposino?..

– Non dico che ci sposiamo adesso… ma in seguito… più tardi… quando saremo grandi…

– Oh! sì… sì… ci sposeremo… Una volta sposati, non ci manderanno più al collegio…

– Quando un uomo e una donna si sposano, gli è per vivere sempre insieme…

– Ed io starò sempre con te, Onorina?..

– Sempre… sempre… fino alla morte!..

– E giocheremo ancora al cavallo?

Onorina sorrise, e si tacque.

La carrozza fece il suo ingresso in Milano, arrestandosi poco dopo alla porta di una modesta casa in contrada Sant'Andrea. I quattro dormienti si riscossero.

– Presto, Federico, siam giunti, disse il papà diradando la nebbia degli occhi. Gli sportelli della carrozza si aprirono. Federico strinse la mano di Onorina, e baciolla in fronte; alla luce del gaz, avresti veduta una lacrima brillargli nelle pupille. Onorina non piangeva; in età sì giovanile ella conosceva già l'arte della dissimulazione.

– A rivederci… l'anno venturo!

La carrozza da cui Federico e suo padre erano discesi, si allontanò rapidamente; Onorina dall'alto del cabriolet sventolava in segno di addio il suo bianco fazzoletto.

III

Sei anni dopo, nel villaggio di Lambrate, Onorina si univa in matrimonio ad un ricchissimo ex-droghiere milanese, il quale a forza di convertire il cacao in cioccolatte, s'era comperato non so quante pertiche di terreno, e si godea tranquillamente in campagna una rendita annuale di circa trentamila lire. È inutile dire che l'amore non si era per nulla mescolato in quel faustissimo imeneo. Una fanciulla appena uscita di collegio non può innamorarsi di un fabbricante di cioccolatte, che non si distingue dagli altri uomini se non pel suo prosaico nome di Pasquale, e per un ventre enorme, simile ad un otre pieno di stoppa mal digerita. Onorina aveva letto dei romanzi; ella vagheggiava un Arturo o per lo meno un Enrico; ma siccome gli Arturi ch'ella aveva incontrati nel mondo non possedevano altra ricchezza fuori di un bel nome e di una bella capigliatura inanellata, i parenti le ingiunsero di sposare un Pasquale con trentamila lire di rendita.

IV

Passarono tre anni ancora. I due sposi, se non felici, viveano per lo meno tranquilli. Onorina si era abituata al soggiorno della campagna; coltivava i fiori, educava le tortorelle, conversava colle galline e coi gatti, rassegnata ad una vita di annegazione e di solitudine, per la quale nei primi giorni di matrimonio sentiva della ripugnanza. Pasquale, dal canto suo, cercava di soddisfarla in ogni desiderio; egli avea introdotta qualche riforma nelle proprie abitudini; vestiva con ricercatezza, si pettinava di tempo in tempo i favoriti, ed aveva educati, a forza di lardo, un bel paio di mustacchi rosso-bigi, ch'erano la delizia della moglie. S'egli non avea tutt'affatto l'aspetto d'un Arturo o d'un Enrico, nessuno in vederlo avrebbe supposto ch'egli fosse Pasquale Bertoni, il droghiere del vicolo delle Galline.

Cionullameno i due conjugi pativano ancora un difetto; dopo tre anni di matrimonio erano tuttavia senza prole. Onorina per distrarsi dalle noie della campagna, oltre ai gatti ed alle galline, avrebbe amato assai di educare un gentil bamboletto.

V

Un bel mattino, ecco entrar nel cortile un tilbury elegante. Onorina si affaccia al balcone; un giovinotto di circa vent'anni, biondo di capelli, e senza un pelo al mento, la saluta con dolce sorriso.

– Oh! io t'ho ben riconosciuta… io… Come ti sei fatta bella!

– Che?.. voi… siete dunque?

– Voi?.. voi?.. Che significa questo voi?

– Federico!..

– Onorina!

I due cugini si riconoscono, e corrono per abbracciarsi. L'una precipita dalle scale, l'altro ascende con molta fretta… s'incontrano… si urtano; e Pasquale, correndo dietro alla moglie, grida a tutta gola:

– Che furia è codesta? Chi è entrato nel cortile? Chi si è degnato di visitarci?

– Mio cugino Federico.

– Un cugino! ben giunto! Quale onore!.. Presto! Sgozzate due capponi… e intanto, se il signore vuol prendere un cioccolatte…

La parola cioccolatte fa arrossire Onorina. Federico stringe la mano di Pasquale; questi con mille parole e mille gesti gli esprime la sua cortesia, poi corre a dar gli ordini, perchè si allestisca un pranzo sontuoso.

La giornata trascorre rapidamente; Federico intrattiene Pasquale con mille piacevoli baje; parla di politica, di teatri, di scienza, di musica, non lasciando di volgere qualche occhiata alla bella Onorina, che lo contempla e lo ascolta meravigliata. Il pranzo fu servito sontuosamente.

– Oh! qui in campagna si vive pur bene! esclamava il giovinotto con certa affettazione sentimentale. Per un uomo, quale io mi sono, stanco del mondo e delle sue pazze gioie, non vi è soggiorno preferibile a questo.

– La mia casa è a vostra disposizione, s'affrettava a rispondere il buon droghiere. Se vi degnate di rimanere qualche tempo fra noi, sarà per me e per mia moglie un vero favore.

– Basta! Vedremo. E volse furtivamente alla cuginetta una scelleratissima occhiata.

VI

Finito il pranzo, Pasquale fu il primo a levarsi da mensa.

– Voi mi perdonerete, signor Federico, se vi lascio per poche ore. Mia moglie vi terrà compagnia. Presto, Onorina! Perchè non accompagni il cugino… a vedere la vigna?

Federico balzò in piedi, offerse il braccio alla bella cuginetta, e tutti e due se n'andarono a passeggiare nella vigna.

Giunsero ad un magnifico pergolato, ov'erano due sedili di marmo coronati di ellera e di muschio. – Sedettero.

– L'ultima volta che ci siamo veduti, disse Federico, eravamo fanciulli. Dieci anni sono già trascorsi. Qual cambiamento in dieci anni! Hai tu dimenticata quella notte… l'ultima che abbiamo passata insieme? Ci recavamo a Milano… in compagnia dei nostri parenti… i quali erano nell'interno della carrozza.

– Mia madre dormiva…

– Dormivano tutti..

– Noi eravamo nel cabriolet, l'uno accanto dell'altra. Io avevo freddo… tu mi copristi con un lembo del tuo mantello.

– Che età felice era quella!..

– Tu mi dicevi: Federico, ho qui in mente un gran pensiero… Se noi ci sposassimo!

– E rammento che tu mi rispondesti…

– Ebbene? qual fu la mia risposta?

Onorina sorrise, e tacque.

Un'ora dopo, i due cugini, l'uno al braccio dell'altro, rientravano in casa lentamente. Pasquale finiva in quel momento di saldare non so quali partite ai suoi affittaiuoli.

– Ebbene, diss'egli a Federico, che ne dite della nostra vigna?

– Superba… deliziosa, incantevole!

– Resterete voi qualche tempo presso di noi?

– Purchè mi promettiate di trattarmi senza cerimonie…

– Tutti i giorni come oggi, Federico. Io attenderò ai miei affari, voi attenderete ai vostri… senza che l'uno dia impaccio all'altro. Sta bene?

– A meraviglia!

VII

Federico si trattenne circa un mese alla campagna, ed Onorina fu molto lieta di visitare tutti i giorni la vigna col suo bel cuginetto. Rammentando i bei giorni dell'infanzia, i primi innocenti sollazzi, le illusioni, le speranze, le promesse, è probabile ch'essi provassero infinito piacere, giacchè più volte rimasero nel favorito boschetto fino a notte avanzata.

Nel momento in cui Federico montava nel tilbury per tornare a Milano, Pasquale, dandogli una buona manata sulla spalla: voglio sperare, gli disse, che questa primavera sarete ancora dei nostri.

– Ve lo giuro!

– Buon viaggio!

– Buon viaggio! ripetè Onorina con voce fioca.

Questa volta Federico si congedava colle pupille asciutte, mentre invece la cuginetta lasciava sfuggire dalle palpebre una lagrimuzza mal frenata. A vent'anni gli uomini perdono affatto l'abitudine di piangere; le donne sembra invece che l'acquistino.

Del resto, i due cugini si rividero la primavera seguente. Pasquale fu sempre il buono, l'ingenuo, l'onesto Pasquale; Onorina e Federico si recarono costantemente sotto il pergolato a pascersi di rimembranze infantili.

Mi viene assicurato che Onorina è al giorno d'oggi la più felice, la più invidiabile delle spose. Essa ha due figli, che pajono due bottoni di rosa, e pone in educarli ogni sua compiacenza. Pasquale li ama anch'egli coll'eguale tenerezza, e sovente, recandoseli in grembo, e compartendo a quelle guancie rubiconde i più affettuosi baciozzi, dice alla moglie:

– Si direbbe, che quel nostro cugino ci ha portato fortuna! Dal giorno ch'egli è venuto a trovarci la vigna ha prosperato, la raccolta dei bozzoli è andata bene, s'è fatta sempre buona quantità di frumento, e poi abbiamo avuto anche due figli, che sono belli quanto lui. Dimmi Onorina: non ti pare che gli somiglino?

– A lui? – risponde Onorina, sorridendo – guardali bene… e vedrai che sono il tuo ritratto.

Pasquale, sentendosi dar sul muso le naticuzze rotonde de' suoi due figliuoletti; – è vero, risponde – hanno proprio la mia faccia!