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Read the book: «I Vicere», page 33

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Parole dette così, sbadatamente, per continuare a parlare; ma Consalvo ne fu abbagliato. Stanco, infastidito, disgustato dalle chiacchiere dell’onorevole, dalla confidenza con la quale lo trattava, da quell’ignobile pranzo che aveva dovuto ingozzare per forza, egli si vide in un momento schiuder dinanzi, diritta ed agevole, la via che andava cercando, quella che d’un umile faccendiere come Mazzarini faceva un uomo importante, riverito e corteggiato; quella che permetteva di raggiungere la notorietà e la supremazia non in una sola regione o sopra una sola casta ma in tutta la nazione e su tutti. Deputato, ministro – Eccellenza! – presidente del Consiglio, Viceré per davvero; che cosa occorreva per ottenere quei posti? Nulla, o ben poco. Mazzarini aveva parlato delle aspre lotte sostenute nel proprio collegio; ma il duca di Oragua non possedeva un feudo elettorale che, naturalmente, sarebbe passato al nipote? Per farsi conoscere, l’avvocato aveva dovuto crearsi pazientemente, accortamente, una clientela: il principino di Mirabella l’aveva già bell’e pronta. Alla cultura, alla competenza, egli non pensava: se aveva potuto fare il deputato un ignorante come suo zio, egli si credeva capace di reggere i destini della nazione. La forza della memoria, la facilità della parola, la sicurezza dinanzi alla folla che erano mancate al duca e lo avevano tormentato per tutta la vita accrescendo la sua miseria intellettuale, Consalvo le possedeva: a San Nicola, dinanzi ai monaci che s’empivano il buzzo di cibo o al cospetto della folla che veniva ad ascoltar le prediche di Natale; più tardi nelle vie della città, nelle taverne, attorniato da gente d’ogni risma, egli aveva fatto sfoggio d’eloquenza: gli sguardi fissi su lui, il silenzio dell’uditorio aspettante non lo avevano mai sgomentato. Che altro occorreva?

Aveva promesso alla zia di baciare, oltreché le mani a Francesco ii, anche i piedi al Santo Padre: egli soppresse questa seconda visita, poiché gli conveniva mutare non solo le abitudini ma anche le idee. Fin quel momento era stato borbonico nell’anima e clericale per conseguenza, quantunque non credente, anzi scettico sulle cose della religione al punto di non andare a sentire la messa: altro capo d’accusa mossogli da quel bigotto di suo padre. Adesso, per mettersi e riuscire nella nuova via, egli doveva essere liberale e mangiapreti come Mazzarini. Andò tuttavia a visitare lo zio Lodovico. Monsignore l’accolse con l’untuosità consueta, con le fredde espressioni d’un sentimento preso ad imprestito per la circostanza. L’antico Priore di San Nicola pareva conservato sott’aceto; asciutto, senza un pelo bianco, con la faccia liscia, nessuno lo avrebbe giudicato sulla cinquantina. Ed i suoi occhi sfavillarono quando, richiesto dal nipote se sarebbe tornato in Sicilia, rispose piano, modestamente:

«No, pel momento. E i miei nuovi doveri mi tratterranno ancora più a Roma…»

«Che doveri, zio?»

Egli abbassò le ciglia, dicendo:

«Il Beatissimo Padre vuole, senza merito mio, destinarmi alla sacra porpora…»

Furbo, quello lì: arrivato a furia di furberia!… Consalvo se lo propose a modello. Frattanto, invece di fuggire Mazzarini, lo andò cercando, si fece guidare da lui alla Camera ed al Senato per esaminar subito il campo della sua azione futura. Allora comprese che, se ad occupare un posto di deputato gli mancava soltanto l’età, gli occorreva qualche altra cosa per salire più in alto. Pertanto, tornato a casa, nessuno lo riconosceva. Persuaso che gli conveniva studiare, cominciò comprare libri su libri, d’ogni genere e d’ogni grossezza: li divorava da cima a fondo o li spilluzzicava prendendo note, pieno di buoni propositi, sul principio, disposto a fare sul serio. Tutte quelle materie eran tali che non occorreva l’opera del maestro: bastavan la preparazione superficiale che egli possedeva e la naturale intelligenza. Il latino dei monaci, quello studio detestato, adesso gli giovava a qualche cosa. Più tardi, col fervore d’un neofita, con la presunzione degli Uzeda che non conoscevano ostacoli, comperò grammatiche e libri di lettura spagnoli, inglesi e tedeschi per apprendere da sé quelle lingue.

La fama della sua conversione si diffuse subito. Stupiti, sospettosi o rallegrati, i parenti, gli antichi amici, gli stessi servi dissero che stava tutto il giorno a tavolino. Associatosi al Gabinetto di lettura, lui, fondatore del club aristocratico, vi andava a discutere di politica e d’amministrazione, a criticare o lodare uomini e cose, a nominare autori e citar opere. Una sera che Giulente e il duca, in casa di quest’ultimo, discutevano a proposito dei dazi di consumo se convenisse meglio al Comune appaltarli o riscuoterli per conto proprio, Consalvo disse la sua, con grande sfoggio di erudizione. Uscendo di lì, Benedetto esclamò con tono scherzoso di protezione:

«Ti faremo consigliere comunale, appena avrai l’età!…»

«Perché? No!…» esclamò egli. «E poi come si fa?»

«Perché? Per avere un posto nella rappresentanza del tuo paese. Quanto al modo, è semplicissimo.»

Innanzi tutto lo presentò al Circolo Nazionale. Alcuni soci fecero qualche difficoltà. Era degli Uzeda liberali o dei retrivi? Più d’uno assicurò che era borbonico come la zia Ferdinanda; che anzi, a Parigi, era andato a far visita a Francesco ii. Ma Giulente si portò garante dei liberi sensi del nipote: all’ex Re aveva fatto, era vero, una visita, ma costretto dai parenti; una visita di pura forma, del resto, che non lo impegnava a niente. Fino a quel momento era stato un ragazzo irresponsabile delle idee che aveva potuto esprimere; adesso, se chiedeva di far parte del circolo, significava che ne approvava il programma. Né conveniva rifiutarlo, perché altrimenti egli avrebbe potuto gettarsi in braccio ai reazionari… Gli scrupolosi si contentarono di quelle assicurazioni, mormorando tuttavia che, secondo una certa versione, il principino aveva augurato al Re spodestato di rivederlo nella reggia di Napoli… Quando Consalvo seppe che correva questa voce, protestò con tutte le sue forze che era una menzogna sfacciata, della quale non capiva l’origine. Ma, preso a quattr’occhi il maestro di casa, che solo poteva averla messa in giro, gli gridò sul muso:

«Tu, bestione, hai scritto che io ho detto a Francesco ii che voglio rivederlo a Napoli e il diavolo che ti porti?»

Imbarazzato e confuso, Baldassarre rispose:

«Eccellenza, sì…»

«E chi t’ha detto una simile bestialità?»

«Me lo disse Padre Gerbini, che l’udì dire a Vostra Eccellenza…»

Alzato il braccio in atto di minaccia, Consalvo ingiunse:

«Un’altra volta che ripeterai simili corbellerie, ti piglierò a scapaccioni, hai capito?»

E fu ammesso al circolo a pieni voti. Allora bisognò sentire donna Ferdinanda! Già ella, subodorato qualcosa dell’apostasia, aveva afferrato pel braccio il nipote, gridandogli: «Bada che non ti guarderò più in faccia! Bada che non avrai un soldo da me!» E Consalvo le aveva risposto facendo l’indiano, protestando la propria innocenza: «Che hanno dato a intendere a Vostra Eccellenza?» Ma Lucrezia le andò un bel giorno a portar la notizia dell’ammissione del nipote al circolo. Schiumava anche lei dall’indignazione; ma, in fondo, andava a denunziare Consalvo alla zia per farglielo cader dal cuore, gliene parlava male per entrar ella nelle sue buone grazie, per vendicarsi della principessa.

«Ah, mala razza!… Ah, Gesuiti!… Ed a me diceva che non era vero!…»

La vecchia non poteva tollerare singolarmente che quel mariuolo avesse tentato d’infinocchiarla spudoratamente.

«Ma vorranno star freschi tutti quanti!… Voglio vederli crepare, tutti quanti!…»

E andata a prendere, come dieci anni addietro, pel matrimonio di Lucrezia, la solita carta che teneva nell’armadio, la lacerò in mille pezzi dinanzi alla nipote.

«Neanche un soldo! Così!»

Anche Chiara, poiché suo marito s’era venuto a poco a poco accostando alle idee liberali, fiottò contro il nipote e contro il marito. Don Blasco, invece, liberale di data oramai quasi antica, approvò la conversione del nipote; il quale, lasciando che ciascuno di quei pazzi dicesse la sua, fece il suo esordio al circolo, una sera che l’assemblea discuteva intorno ai trattati di commercio. Nella sala, angusta, la gente era stipata e le seggiole si toccavano. Per evitare contatti, Consalvo aveva tirato la sua fuori della fila, distruggendone l’ordine; e, mordendosi i baffetti, stava a sentire con aria di grave attenzione. Ma quando il presidente annunziò: «Se nessuno domanda la parola, metto ai voti le conclusioni della commissione», il principino s’alzò.

«Domando la parola.»

Immediatamente si fece un profondo silenzio, e tutti gli sguardi si diressero su Consalvo. Rivolte le spalle al muro, guardando da un lato l’assemblea, dall’altro la presidenza, egli cominciò:

«Signori, io vi debbo innanzi tutto chieder venia dell’ardimento di cui potrete accusarmi vedendomi, ultimo arrivato fra voi, osare di prender la parola intorno a una grave materia, oggetto di così accurato esame da parte di soci ai quali, volendo ma non potendo dare i nome di colleghi, debbo e voglio dare quello di maestri.»

Il laborioso periodo fu detto con tanta sicurezza, uscì così filato, era così abile ed opportuno, sollecitava tanto l’amor proprio dei precedenti oratori, riusciva così inaspettato sulla bocca d’un giovanotto conosciuto fino a quel momento solo per le sue prodigalità ed i suoi vizi che molti mormorarono: «Bravo!… Bene!…»

Egli continuò. Disse che se il suo ardimento poteva giudicarsi grande, egli sapeva che non meno grande era l’indulgenza del suo uditorio. Qualificò come «modello del genere» la relazione della commissione, la disse «degna veramente d’un Parlamento». Ne citò due o tre paragrafi quasi letteralmente; quel prodigio di memoria sollevò un lungo mormorio ammirativo. Ma forse l’indulgente assemblea aspettavasi che egli esprimesse la propria opinione? E questa egli esprimeva «con peritanza di discepolo ma saldezza di apostolo». Egli era per la libertà; per la libertà «che è la più grande conquista dei nostri tempi»; della quale «non si può mai abusare», perché essa è «correttivo di se stessa». I vantaggi del libero regime erano infiniti, perché «come dice il celebre Adamo Smith nella sua grande opera…» e infatti «opina anche il grande Proudhon…» ma quantunque «il famoso Bastiat non ammetta», pure «la scuola inglese è del parere…» Lo stupore e il piacere erano propriamente grandi, tutt’intorno; Benedetto godeva come d’un personale trionfo, pareva dicesse: «Avete visto? E quand’io vi garentivo?…» Salve d’applausi interrompevano tratto tratto quel discorso che tutti credevano improvvisato con tanta disinvoltura era detto; ma un vero trionfo successe all’argomentazione finale: la necessaria corrispondenza tra la libertà economica e la politica: «le più grandi garanzie di benessere e di felicità, le ragioni d’essere di questa giovane Italia, ricomposta ad unità di nazione libera e forte per virtù di popolo e Re!…»

3

Una notte, mentre al palazzo tutti dormivano, tranne Consalvo curvo sui volumi di Spencer, fu picchiato con grande fracasso al portone: Garino, il marito della Sigaraia, chiamava il principe a rotta di collo perché a don Blasco era venuto un accidente.

Il monaco, floscio come un otre sgonfiato, rantolava. La vigilia aveva fatto una solenne scorpacciata e cioncato largamente: spogliato e messo a letto da donna Lucia, s’era addormentato di botto; ma, nel mezzo della notte, un sordo tonfo aveva fatto accorrere tutti quanti, e allora s’era visto il Cassinese disteso, quant’era lungo, in terra, senza più sentimento. La Sigaraia, le figliuole, la serva non la finivano di raccontar la disgrazia; ma Garino, che, lasciata l’ambasciata al principe e chiamato un dottore, era tornato di corsa a casa, aveva la ciera rannuvolata e non diceva verbo. Mentre il medico dichiarava di non poter fare nulla, perché il colpo era fulminante, e le donne ricominciavano a contristarsi, e ad invocare la Bella Madre Maria e tutti i santi del Paradiso, Garino prese per un braccio il principe appena arrivato e lo trascinò in una stanza remota.

«Eccellenza, siamo rovinati! Ho frugato da per tutto, e non c’è niente! Rovinata Vostra Eccellenza e rovinati noi! Dopo tanti anni che l’abbiamo servito! E quelle creature anch’esse! Sua Paternità non doveva farci un simile tradimento!»

«Avete cercato bene?»

«La casa sottosopra, Eccellenza; che appena successe la disgrazia presi le chiavi e frugai da per tutto… nell’interesse di Vostra Eccellenza.. Ma potevo credere a una cosa simile? Dopo che Sua Paternità aveva promesso dodici tarì al giorno alle ragazze? È un tradimento! Sono rovinato! E Vostra Eccellenza pure… Io credevo che il testamento fosse scritto da anni, dall’altra volta che gli prese il capogiro…

«L’avrà forse dato al notaro?»

«Ma che notaro! Sua Paternità non voleva sentirne, e anzi quando il notaro Marco gli parlò in proposito… per amicizia a noi… gli rispose brusco che il testamento l’avrebbe fatto da sé e chiuso nella sua cassa!… Ma non c’è niente in tutta la casa… Se avessi saputo una cosa simile!…» E tacque, guardando il principe.

«Che avreste fatto?»

«Avrei scritto io il testamento, secondo le sue intenzioni… per darglielo a firmare… La firma ce l’avrebbe messa in mezzo minuto… Potevo anche…»

Ma in quel punto chiamarono di là. Il dottore, tanto per contentare «la famiglia», aveva ordinato che si cavasse sangue al fulminato e gli s’attaccasse qualche mignatta alle tempie; Garino scappò per eseguire gli ordini del dottore, e il principe si mise a girare per la casa.

Faceva giorno quando venne il salassatore. L’operazione non giovò quasi a nulla; solo gli occhi del moribondo s’aprirono un momento; ma né un muscolo si scosse, né una parola uscì dalla bocca serrata. Col giorno venne la principessa. Gli altri parenti non sapevano ancora nulla, e cominciarono ad arrivare più tardi, uno dopo l’altro; entravano un momento nella camera dell’agonizzante e poi passavano nella stanza attigua, girellonando, cercando il momento di prendere a parte il principe, per dirgli in un orecchio:

«C’è testamento?»

«Non so… non credo…» rispondeva il principe. «Chi pensa a queste cose per ora?»

Invece non pensavano ad altro, divorati dalla curiosità, dalla cupidigia dei quattrini del monaco. Dopo la vecchia principessa, don Blasco era il primo Uzeda danaroso che se ne andava; Ferdinando non era contato: aveva poca roba e quella poca era stata carpita dal principe. Il Cassinese, invece, tra i due poderi, la casa e i risparmi lasciava quasi trecentomila lire, e tutti speravano di rasparne qualcosa. Se non c’era testamento i due fratelli Gaspare ed Eugenio e la sorella Ferdinanda avrebbero ereditato; e la zitellona, dopo una vita d’inimicizia, aspettava d’arraffar la sua parte. Tutti gli altri, al contrario, aspettavano un testamento che li nominasse. Il principe dichiarava piano all’orecchio dello zio duca che non sperava nulla per sé, ma qualcosa per Consalvo, e di mezz’ora in mezz’ora spediva al palazzo qualcuno dei camerieri della parentela, accorsi coi padroni, perché chiamassero suo figlio. Ma il principino dapprima aveva risposto che era a letto, poi che dovevano dargli il tempo di vestirsi, poi che stava per venire, e finalmente gli ultimi messi non lo trovarono più. Se n’era andato al Circolo Nazionale per assistere all’adunanza d’una commissione incaricata di studiare il piano regolatore della città. Arrivò finalmente quando attaccavano le mignatte all’agonizzante. Il principe non gli rivolse neppure la parola e prese invece in disparte Garino che in quel momento tornava per la quarta o la quinta volta. Poi il marito della Sigaraia entrò nella camera del moribondo, che sua moglie e le ragazze non lasciavano un momento. Invece di giovare, le sanguisughe affrettarono la catastrofe; Garino affacciossi sull’uscio, annunziando:

«Il Signore l’ha chiamato con sé!»

Tutti entrarono nella camera del morto. Era immobile, stecchito, con gli occhi chiusi, con le tempie butterate dai morsi delle mignatte. L’odore nauseante del sangue appestava la camera, come una beccheria; e c’era per terra e sui mobili una confusione straordinaria: panni disseminati qua e là, catinelle piene d’acqua, caraffe di aceto. La Sigaraia, dischiusa immediatamente la finestra perché l’anima del Cassinese potesse volarsene difilata in Paradiso, disponeva, singhiozzando, due candele sul comodino. Le ragazze piangevano come due fontane e Lucrezia pareva avesse perduto il suo secondo padre; ma i pianti e le preci a poco a poco cessarono; e allora, asciugatisi gli occhi, Lucrezia disse, molto tranquillamente:

«Adesso che lo zio è in Paradiso potremmo vedere se c’è testamento.»

Nel silenzio di tutti, il principe, come capo della casa, fece un gesto di consenso. Ma donna Lucia, che finiva d’accendere le candele, si voltò e disse:

«C’è testamento, Eccellenza. La sant’anima, per sua bontà, me lo diede a serbare. Vado a prenderlo subito.»

Si potevano udir volare le mosche mentre la donna consegnava al principe una busta aperta, e questi, per deferenza, la passava allo zio duca. Il duca diede un’occhiata al foglio dove c’erano poche righe di scritto, e senza leggere, annunziando il contenuto dei brevi periodi a mano a mano che li scorreva, disse:

«Erede universale Giacomo… esecutore testamentario… un legato di duecent’onze l’anno a don Matteo Garino…»

«Nient’altro?… E nient’altro?…» domandarono tutt’intorno.

«Non c’è altro.»

Donna Ferdinanda s’alzò e si mise a leggere il foglio prendendolo dalle mani del principe a cui il duca l’aveva passato; ma Lucrezia, venendo a metterlesi a fianco, le disse:

«Vostra Eccellenza mi lasci vedere.» Il principe pareva del tutto disinteressato. Le due donne che stavano chine sul documento scambiarono sottovoce qualche parola; poi Lucrezia annunziò, forte: «Questo testamento è falso.»

Tutti si voltarono. Il principe, con estremo stupore, esclamò:

«Come falso?»

«Falso?» saltò su Garino, che se ne stava nel vano d’un uscio.

«Ho detto che è falso,» ripeté Lucrezia, dando uno spintone a suo marito che voleva leggere anche lui il foglio. «Questa non è scrittura dello zio; la scrittura dello zio la conosco.»

«Lasciami vedere!…» e Giacomo considerò attentamente i caratteri, mentre tutti gli altri gli s’affollavano intorno, esaminandoli anch’essi.

«T’inganni,» disse il principe freddamente; «è scrittura dello zio.»

Degli altri nessuno espresse un’opinione. Con tono di fine ironia, Lucrezia replicò:

«Allora, vorrei sapere quando l’ha scritto. Stanotte? C’è ancora la sabbia attaccata!»

La Sigaraia intervenne:

«Eccellenza, Sua Paternità scrisse il testamento ieri l’altro, perché, poveretto, il cuore gli parlava e gli diceva che la sua fine era prossima…»

«E perché non ne avete detto nulla?» domandò allora donna Ferdinanda.

«Eccellenza…»

«Io ne fui avvertito,» affermò il principe.

«Ma a noi dicesti che non credevi ci fosse testamento…»

«Avresti potuto farcelo sapere,» ribatté donna Ferdinanda.

«Ma che!» riprese Lucrezia, dando un altro spintone a Benedetto, il quale le faceva qualche osservazione prudente all’orecchio. «È un testamento falso, si vede dalla freschezza della scrittura e anche dalla firma. Lo zio firmava “Blasco Placido Uzeda”, col secondo nome preso in religione…»

Garino allora credette di dover dire la sua:

«Eccellenza, allora Vostra Eccellenza crede…»

«Voi state zitto!» esclamò Lucrezia, sprezzantemente, superba di fare atto d’autorità dinanzi a tutta la parentela.

«Vostra Eccellenza è la padrona…» continuava nondimeno il Sigaraio, con aria dignitosa, «ma non può offendere un galantuomo. Allora l’ho fatto io, il testamento falso?»

E a un tratto la Sigaraia scoppiò in pianto:

«Quest’affronto!… Maria Santissima!…»

Il duca, il marchese, Benedetto intervennero tutti insieme:

«Chi ha detto questo?… State zitta, in un momento simile… Silenzio, vi dico: che è questo modo?»

«Tu accetti il testamento?» insisteva Lucrezia, rivolta al fratello.

«Sicuro che l’accetto!»

«Allora ce la vedremo in tribunale! Intanto chiamate l’autorità per mettere i suggelli…»

E la Sigaraia che si strappava i capelli, di là, inginocchiata dinanzi al morto:

«Parlate voi!… Ditelo voi se è vero!… Una simile ingiuria!… Dopo tant’anni che v’abbiamo servito!… Parlate voi dal Paradiso, con la bocca della verità!…»

E la lite scoppiò, più feroce di tutte le precedenti. Donna Ferdinanda non scherzava, all’idea che le avevano tolto la sua parte della successione; ma Lucrezia era implacabile per la rivincita da prendere su Graziella che l’aveva trattata male e anche un po’ perché sperava sull’eredità dello zio come un mezzo di mettere in piano l’amministrazione della propria casa: dacché la teneva lei, non c’erano quattrini che bastassero. Il marchese, bonaccione, voleva evitare lo scandalo; ma Chiara, per fare il contrario di ciò che egli voleva, si schierò contro Giacomo con la zia. A poco a poco tutto l’amor suo pel marito s’era rivolto al bastardo; e poiché Federico era sempre vergognoso della paternità clandestina e non voleva riconoscerla, l’odio antico per il marito che le avevano imposto s’era venuto ridestando in lei. La sua testa di Uzeda sterile aveva concepito e maturato un disegno: lasciare Federico, adottare il bastardello e portarselo via; avendo bisogno di quattrini, sperava nella sua parte dell’eredità di don Blasco. Ella, Lucrezia e donna Ferdinanda si nettavano quindi la bocca contro quel falsario di Giacomo, contro quel ladro che voleva la roba del monaco come aveva carpito le Ghiande alla felice memoria di Ferdinando: contro quello sbirro di Garino, anche, che aveva proposto ed eseguito il colpo, ché al tempo in cui esercitava l’onorato mestiere di spia s’era provato ad imitare le scritture dei galantuomini, per rovinarli dinanzi alla polizia. Ma il più bello che era? Che un ladro aveva rubato l’altro; giacché Garino, il quale doveva farsi lasciare dodici tarì al giorno, soltanto, aveva calcato la mano, mentre c’era, portando il legato a duecento onze l’anno! Né il principe poteva fiatare, perché altrimenti si sarebbe dato la zappa sui piedi!…

Garino e la Sigaraia giuravano e spergiuravano che era tutta un’infamia inventata dalla parentela, la quale non aveva mai potuto andare d’accordo. A chi volevano dunque che la buon’anima lasciasse? Alla sorella ed ai fratelli, che aveva amato come il cane i gatti? L’erede naturale era il principe, il capo della casa! Quanto ad essi, niente di più naturale che la sant’anima si fosse disobbligata dei loro buoni servigi; anzi, per dire la verità, chi si sarebbe aspettata quella miseria di duecento onze, dopo quanto avevano fatto per lui?…

O fatto o non fatto, donna Ferdinanda spedì la prima carta bollata in cui impugnava il testamento e domandava una perizia al tribunale. Il principe si strinse nelle spalle, ricevendola. Per lui, niente era più «doloroso» delle liti in famiglia; e a tutte le persone che incontrava esprimeva il suo profondo rammarico per la condotta della zia e delle sorelle. Ma che poteva farci? Poteva rinunziare all’eredità? Eran esse le ostinate, le prepotenti e le pazze!… In casa, però, egli era divenuto più irascibile di prima. Contegnoso in presenza di estranei, sfogava dinanzi alla moglie, ai figli ed ai servi la contrarietà e l’acredine. Teresa, veramente, non gli dava nessun appiglio, sempre docile e obbediente; la principessa anche lei chinava il capo al soffio della bufera; ma egli se la prendeva tutti i momenti col figliuolo, attribuendo all’apostasia politica di costui l’inasprimento di donna Ferdinanda.

«S’è messo in urto con sua zia che gli voleva tanto bene, cotesto imbecille, cotesto buffone! Perderà l’eredità, per andare a dir buffonate al circolo e al quadrato! E mi fa piovere una lite sulle spalle! Io domando e dico se mi poteva capitare maggior disgrazia d’avere un figlio così bestia e birbante!…»

Ma, oltre quella, egli aveva tante altre ragioni di cruccio. Più che mai infervorato nelle sue nuove idee, deciso colla cocciutaggine di famiglia a percorrere la strada prefissa, Consalvo spendeva adesso a libri un occhio del capo. Ne faceva venire ogni giorno, intorno ad ogni soggetto, dietro una semplice indicazione del libraio, senz’altro criterio fuorché quello della quantità, con la stessa smania di sfoggiare e di far le cose in grande che, prima, quando l’eleganza degli abiti era il suo unico pensiero, gli faceva comperare i bastoni a dozzine e le cravatte a casse. Era umanamente impossibile, non che studiare, ma neppur leggere tutta quella carta stampata che pioveva al palazzo, le opere in associazione, le voluminose enciclopedie, i dizionari universali; e ad ogni nuovo arrivo il principe montava peggio in bestia.

«Vedi?…» rispondeva Consalvo a Teresa, quando la sorella andava a parlargli il linguaggio della pace e dell’amore. «Vedi? S’è proprio messo in capo di contrariarmi in tutto e per tutto. Che faccio di male? C’è cosa che più raccomandano, oggi: lo studio? il sapere? No: neppur questo!…»

E quando il principe se la pigliava direttamente con lui, e gli rimproverava il dissidio con la zia e lo sciupio dei quattrini:

«Io penso con la mia testa,» rispondeva freddamente il figlio. «Ciascuno è libero di pensarla come crede. Mia zia non può impormi le sue idee… e se spendo qualche cosa a libri, domando altro?…»

Ogni domenica c’era un’altra lite per la messa. Consalvo si seccava di andare a sentirla, sorrideva d’un ambiguo sorriso allo zelo religioso del padre: costretto a confessarsi, recitava al vecchio Domenicano una filastrocca di bislacchi peccati. Punzecchiava anche la sorella pel fervore che ella metteva nelle devozioni; voltava le spalle alle tonache nere che bazzicavano per la casa. Il principe aveva fatto costruire, nel camposanto del Milo, un monumento di marmo e bronzo sulla sepoltura della prima moglie: negli anniversari della morte andava lassù con la principessa e Teresa, faceva dire molte messe pel riposo dell’anima della defunta, portava grandi corone di fiori sulla tomba. Consalvo non andava mai insieme con la famiglia: o un giorno prima, o un giorno dopo. Ad ogni pretesto addotto dal figlio, il principe lo guardava fisso; poi si lasciava condurre via dalla moglie, la quale lavorava a mettere pace, ad evitar liti. E adesso l’urto era più tra figlio e padre che tra figliastro e madrigna; Consalvo si piegava piuttosto ad una buona parola della principessa che alle ingiunzioni del principe.

Un giorno annunziò che aveva preso un professore di tedesco e d’inglese. Il padre, dopo averlo guardato bene in viso, gli domandò:

«Mi spiegherai una volta che diamine vuoi fare?»

Consalvo, dopo averlo guardato anche lui:

«Quel che mi pare,» rispose.

A un tratto il principe diventò rosso come un gambero e, levatosi da sedere, quasi una molla lo avesse spinto, si precipitò contro il figliuolo, gridando:

«Così rispondi, facchino?»

Se la principessa e Teresa non si fossero slanciate a trattenerlo, e se Consalvo non fosse andato subito via, sarebbe finita male. Da quel momento la rottura fu totale. Per ordine del principe, il giovanotto non venne più a prender i pasti con la famiglia: cosa che, se dispiacque alla principessa e più alla sorella, fece a lui grandissimo piacere. Egli vide il padre un momento ogni giorno, per dargli il buon giorno o la buona sera; né costui lagnossi più del mutismo e della solitudine in cui si chiudeva il figliuolo, anzi evitò egli stesso d’incontrarlo. Prima del famoso viaggio, quando i vizi e i debiti del giovanotto procuravano al principe stravasi di bile, moti nervosi e vere malattie, un dubbio era sorto nella testa di quest’ultimo: suo figlio era forse iettatore? E il dubbio adesso facevasi strada, quantunque egli non osasse manifestarlo. Ma perché, dunque, tutte le volte che egli affrontava una discussione col figliuolo, gli veniva il mal di capo o gli si guastava lo stomaco? Perché, durante la lunga assenza di Consalvo, egli era stato benissimo? In un altro ordine d’idee, quella conversione politica che aveva acceso il furore di donna Ferdinanda e coonestata l’impugnazione del testamento, non era un’altra prova di malefico influsso? Rivangando nella propria memoria, il principe trovava altre ragioni di credere a quel funesto potere: una vendita andatagli male quando il figliuolo aveva detto: «Sarà difficile ottenere buoni prezzi»; una scossa di terremoto prodottasi dopo che il giovanotto aveva osservato: «L’Etna fuma!…» Pertanto egli era adesso contento di non averlo più vicino; se lo incontrava per le scale, o traversando le stanze, rispondeva con un cenno del capo al suo saluto e tirava via; se c’era una necessità qualunque di stargli da presso, in salotto, quando venivano visite, gli parlava il meno possibile, scappava appena poteva.

L’unico mezzo di rimetter la pace in famiglia era che il giovane prendesse moglie e andasse a far casa da sé. Tanto e tanto, aveva ventitrè anni, e tra gli Uzeda gli eredi del principato s’ammogliavano presto. I lavapiatti, i pettegoli, i curiosi, tutti coloro che s’occupavano dei fatti dei Francalanza come se fossero i propri, aspettavano con impazienza il matrimonio di lui e di Teresa, discutevano i partiti possibili. Per Consalvo c’era l’imbarazzo della scelta: il barone Currera, il barone Requense, il marchese Corvitini, i Cùrcuma, tanti altri avevano figliuole straricche in età d’andare a marito; per Teresa la cosa era più difficile. Giovani a un tempo ricchi e nobili tanto da poterla sposare, non c’erano altri che i due figli della duchessa Radalì. La duchessa, sacrificati i suoi più begli anni per amor del primogenito, gelosa di lui, non gli aveva ancora dato moglie, non trovando buono nessun partito e se lo teneva cucito alle gonne, quasi potessero rubarglielo; invece lasciava libero Giovannino, perché al giovane non venisse voglia d’ammogliarsi. L’eredità dello zio lo aveva fatto ricco quanto il fratello maggiore, ma tra loro due c’erano differenze che andavano considerate. Michele non era di fisico molto vantaggioso, a ventisei anni aveva pochi capelli ed una corporatura troppo pingue; ma era il primogenito, possedeva tutti i titoli della casa; il secondo, che godeva solo di quello non trasmissibile di barone, era fra i giovani più graziosi ed eleganti. Quantunque andassero poco dagli Uzeda dacché c’era una ragazza da marito – anzi a causa di ciò – , le voci d’un possibile matrimonio trovavano credito; ma il principe, se gli domandavano che cosa ci fosse di vero, dichiarava che prima doveva ammogliarsi Consalvo, e la principessa si guastava addirittura. «Queste ciarle mi dispiacciono, non per niente, ma perché potrebbero venire all’orecchio di Teresina, e io sono molto gelosa: il mio sistema è che le ragazze non debbano saper certe cose né udire certi discorsi!…»