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Le due tigri

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Capitolo VIII. L’ONI-GOMON

Il barbaro costume di abbruciare sui cadaveri dei mariti le vedove indiane, se è interamente abolito dagl’indiani che hanno abbracciata la fede mussulmana, sussiste sempre nelle caste dei bramini, dei Thugs ed in quelle militari, non ostante gli sforzi prodigiosi tentati dagl’inglesi in quest’ultimo secolo per sradicarlo.

L’impero è cosí vasto, che la polizia anglo-indiana non riesce sempre a intervenire a tempo e non sempre viene a saperlo, giacché i parenti del defunto prendono le piú grandi precauzioni per ingannare le autorità.

Oggi quest’uso è abbastanza raro, specialmente nel Bengala, ma nelle provincie settentrionali e nell’alto corso del Gange si rileva ancora un numero considerevole di oni-gomon.

Dobbiamo anzi aggiungere che nei primi lustri del secolo scorso, quei sacrifici si erano cosí spaventosamente moltiplicati, non ostante le leggi rigorose emanate dal governo anglo-indiano, che in un solo anno, ossia nel 1817 furono consumati nel solo Bengala ben 700 di quei terribili olocausti.

Oggi per evitarli, o almeno per attenuarne il numero, il governo esige che la vedova che abbia il desiderio d’immolarsi, comparisca prima dinanzi ai magistrati e ne ottenga l’autorizzazione, la quale non viene concessa se non quando la sua decisione si mostra irremovibile.

La maggior parte però si rifiutano di lasciarsi abbruciare. Lasciarsi è la vera parola, perché i bramini le costringono colla violenza e quando quelle povere creature, alla vista delle fiamme sono colte dal terrore e tentano di fuggire, i parenti del morto le respingono nel fuoco a colpi di bastone o le legano al cadavere del marito.

Quante in tal modo ne furono arse nel secolo scorso, violentemente!… Ben poche furono quelle che vennero salvate all’ultimo istante dai paria, che trovandole belle le hanno strappate alle fiamme ancora in tempo per poi sposarle, non temendo quei disgraziati, disprezzati da tutte le caste, di disonorarsi prendendo una vedova.

La condizione delle donne indiane che hanno la sventura di perdere il marito è d’altronde tale, che buon numero di esse preferiscono la morte.

Se hanno dei figli sono meno stimate di tutte le altre donne; se non ne hanno, diventano in certo modo oggetto d’obbrobrio.

Il lutto di quelle sventurate che non hanno avuto il coraggio di bruciarsi sul cadavere del marito, dura fino alla loro morte.

Sono costrette a radersi il capo una volta al mese, non portare piú gioielli, non vestire abiti di tela bianca, non ingiallirsi né ungersi piú alcuna parte visibile del corpo; è perfino vietato a loro di tracciarsi sulla fronte i distintivi della casta a cui appartengono, di masticare il betel o di fumare, di assistere alle feste di famiglia. Che piú? Si sfuggono come appestate, perché gli indiani credono che l’incontro d’una vedova porti sfortuna.

Eppure bisogna che si rassegnino, giacché per quanto sia disprezzata, essa lo è sempre meno di colei che si rimarita: in questo caso diverrebbe l’oggetto di disprezzo assoluto da parte di tutte le caste, eccettuata da quella dei poveri paria.

Il drappello che s’avanzava attraverso la jungla si componeva d’una quarantina di persone fra cui una giovane donna, la moglie del defunto, che era sorretta da due sacerdoti.

Precedevano il corteo, quattro suonatori che portavano dei djugo, specie di tamburo di terracotta di forma cilindrica, composti di due parti, ciascuna delle quali è coperta d’una pelle che si può allentare o restringere per mezzo d’una cordicella; seguivano alcuni mussalchi ossia portatori di torce, poi altri uomini che portavano sulle spalle un palanchino su cui si trovava il defunto, abbigliato con vesti ricchissime ricamate in oro ed ultima la disgraziata vedova circondata dai parenti piú prossimi e che portavano recipienti contenenti probabilmente l’olio profumato da versarsi sul rogo.

Il vecchio manti era nel numero che precedeva la vedova recitando delle preghiere assieme ai sacerdoti.

La vedova era una bella giovane che non doveva avere ancora quindici anni; aveva già i capelli rasi e non portava piú al collo il cordone a cui era appeso un gioiello che tutte le donne maritate usano portare quale indizio della loro qualità.

Si reggeva a malapena, e piangeva e gridava disperatamente, maledicendo il suo destino, mentre i sacerdoti che la sostenevano la incoraggiavano a mostrarsi forte, promettendole che il suo nome sarebbe stato celebrato in tutta la terra e cantato in tutti i sacrifici e assicurandola che andava a godere una felicità immensa e che sarebbe diventata la sposa di qualche dio in ricompensa della sua virtú e del suo sacrificio.

Non opponeva alcuna resistenza e si lasciava trascinare senza proteste. Certo dovevano averle dato da bere non poco bang() per abbatterla completamente e impedirle di tentare la fuga.

Giunto il corteo sulla spianata che stendevasi dinanzi alla pagoda, alcuni uomini che erano armati di coltellacci, abbatterono rapidamente un certo numero di grossi bambú formando una catasta alta mezzo metro che subito annaffiarono abbondantemente d’olio di cocco profumato, poi sopra vi deposero il cadavere del thug.

I mussalchi si erano già collocati ai quattro angoli colle torce accese, pronti a dar fuoco alla pira, mentre i suonatori percuotevano con furore i loro tamburi ed i parenti cantavano le lodi del defunto e l’eroismo e le virtú della vedova.

Il manti si era accostato alla pira tenendo in mano una torcia, intanto che la disgraziata vedova, con voce rotta dai singhiozzi dava l’ultimo addio ai parenti i quali, colle lagrime agli occhi, si rallegravano invece dell’eterna felicità che essa andava ad incontrare.

A un tratto una fiamma guizzò, propagandosi rapidamente a tutta la pira e avvolgendo il cadavere.

Il manti aveva dato fuoco ai bambú impregnati d’olio: il momento terribile del barbaro sacrificio era giunto.

I sacerdoti avevano afferrata rapidamente la vedova e la spingevano brutalmente verso le fiamme, mentre i tamburi rullavano con fracasso indiavolato ed i parenti gridavano a piena gola per stordire maggiormente la vittima.

La disgraziata si era lasciata spingere senza opporre resistenza, ma quando si vide dinanzi a quella cortina di fuoco lo spirito di conservazione si ridestò ad un tratto. Mandò un urlo orribile:

– No!… No!… Grazia!…

Poi con una forza che non si sarebbe mai supposta in quel giovane corpo, con una scossa disperata atterrò uno dei sacerdoti e si trasse indietro di alcuni passi, dibattendosi furiosamente per liberarsi anche dall’altro.

I parenti però accorrevano in aiuto dei sacrificatori. Il manti aveva intanto raccolto un tizzone acceso e stava per scagliarsi contro la vittima per incendiarle le vesti, quando si udí una voce tuonante a gridare:

– Fermi o vi fuciliamo come cani!…

La Tigre della Malesia era improvvisamente comparsa sulla soglia della pagoda circondata dai suoi pirati e dai suoi amici, i quali avevano già puntate le carabine.

Un urlo di spavento si era alzato fra i Thugs, poi, passato il primo istante di sorpresa, tutti si erano sbandati lasciando a terra la vedova.

– Addosso al manti! – aveva gridato Sandokan, slanciandosi innanzi.

Il vecchio stregone, che forse era il solo che aveva riconosciuto il comandante del praho, era stato il primo a darsi alla fuga, cacciandosi in mezzo alla folta jungla.

In pochi salti però Sandokan e Tremal-Naik gli erano piombati addosso, mentre Yanez faceva fare ai pirati una scarica in aria per spaventare maggiormente i parenti del morto ed i loro compagni, i quali fuggivano invece attraverso il bosco di cocchi.

– Fermati, vecchio briccone! – gridò Tremal-Naik, puntando la canna della carabina sul petto dello stregone, il quale tentava di estrarre un pugnale che portava nella fascia.

Sandokan l’aveva già afferrato per le spalle e l’aveva costretto a cadere in ginocchio.

– Chi siete voi e che cosa volete da me? – gridò il manti, tentando, ma inutilmente di sottrarsi alla stretta poderosa della Tigre. – Voi non siete policeman, né cipayes per arrestarmi.

– Chi sono? Vecchio stregone, saresti per caso diventato cieco? – chiese Sandokan, lasciandolo rialzare. – Non mi conosci piú dunque?

– Io non ti ho mai veduto.

– Eppure tre sere or sono hai tentato di farmi strangolare dai tuoi amici, presso la pagoda di Kalí, subito dopo la festa del fuoco.

Non te ne ricordi?

– Tu menti! – gridò lo stregone con suprema energia.

– Dunque non sei tu quello che hai scannato il capretto e acceso il fuoco sacro a bordo del mio praho? – chiese Sandokan ironicamente.

– Io non ho mai scannato capre. Tu mi prendi per qualche altro personaggio.

– Vieni con noi manti…

– Manti hai detto? Io non lo sono mai stato.

– Troverai nella pagoda una persona che ti darà una solenne smentita.

– Infine che cosa volete da me? – gridò il vecchio, digrignando i denti.

– Vederti il petto, innanzi a tutto, – disse Tremal-Naik, rovesciandolo improvvisamente a terra e premendogli il ventre con un ginocchio.

– Fa’ portare una torcia, Sandokan.

Quella domanda era inutile. Yanez, dopo un simulato inseguimento per allontanare i sacrificatori tornava verso Sandokan assieme a Sambigliong, che si era munito d’una delle torce abbandonate dai mussalchi.

– È preso? – gridò il portoghese.

– E non ci sfuggirà neanche piú, – rispose Sandokan. – E la vedova?

– L’abbiamo salvata a tempo e pare che sia anche assai lieta di essere ancora viva. L’abbiamo portata nella pagoda.

– Accosta la torcia, Sambigliong, – disse Tremal-Naik lacerando d’un colpo solo la casacca di tela che copriva il petto del prigioniero.

Il manti aveva mandato un urlo di rabbia e aveva tentato di ricoprirsi, ma Sandokan fu lesto ad afferrargli le braccia, dicendogli:

 

– Lascia che vediamo dunque se sei un vero thug, innanzi a tutto.

– Lo vedi? – disse Tremal-Naik.

Sul petto dell’indiano vi era un tatuaggio di color azzurro, raffigurante un serpente colla testa di donna, circondato da alcuni segni misteriosi.

– È l’emblema degli strangolatori, – disse Tremal-Naik. – Tutti gli affigliati a quella setta di assassini l’hanno.

– Ebbene, – gridò il manti, – se sono un thug che v’importa? Io non ho ucciso nessuno.

– Alzati e seguici, – disse Sandokan.

Il vecchio non se lo fece ripetere due volte. Appariva assai abbattuto e preoccupato, pur lanciando sguardi feroci contro gli uomini che lo circondavano.

Fu condotto verso la pira su cui terminava d’incenerirsi il cadavere e dove si erano radunati i marinai del praho, dopo d’aver disposte qua e là delle sentinelle.

– Surama, – disse Yanez alla giovane bajadera che era uscita dalla pagoda. – Conosci quest’uomo?

– Sí, – rispose la fanciulla. – È il manti dei Thugs, il luogotenente del «figlio delle sacre acque del Gange».

– Vile danzatrice! – gridò il vecchio, dardeggiando sulla bajadera uno sguardo carico d’odio. – Tu tradisci la nostra setta.

– Io non sono mai stata un’adoratrice della dea della morte e delle stragi, – rispose Surama.

– Ora che non puoi negare di essere l’anima dannata di Suyodhana, – disse Tremal-Naik, – mi dirai dove si sono raccolti i Thugs che un tempo abitavano i sotterranei di Rajmangal.

Il manti guardò il bengalese per alcuni istanti, poi gli disse:

– Se tu credi che io ti dica dove hanno nascosta tua figlia, t’inganni. Puoi uccidermi, ma io non parlerò.

– È la tua ultima parola?.

– Sí.

– Sta bene: vedremo se saprai resistere a lungo.

Il manti udendo quelle parole era diventato pallidissimo, e la sua fronte si era coperta d’un freddo sudore.

– Che cosa vuoi fare di me? – chiese con voce strozzata.

– Ora lo saprai.

Si volse verso Sandokan e scambiò sotto-voce alcune parole.

– Lo credi? – chiese la Tigre della Malesia, facendo un gesto di dubbio.

– Vedrai che non resisterà molto.

– Proviamo.

Capitolo IX. LE CONFESSIONI DEL MANTI

A un gesto di Sandokan, il malese Sambigliong che doveva aver già ricevute precedentemente delle istruzioni, si era diretto verso un grosso tamarindo che si innalzava a trenta o quaranta passi dal rogo fra le rovine della cinta della vecchia pagoda.

Teneva in mano una lunga corda, un po’ piú grossa dei gherlini e che aveva già annodata a laccio.

La gettò destramente attraverso uno dei piú grossi rami e lasciò scorrere il nodo scorsoio fino a terra.

Intanto alcuni marinai avevano legate strettamente le braccia al manti e passate sotto le ascelle due corde sottili e resistentissime.

Il vecchio non aveva opposta alcuna resistenza, tuttavia si capiva, dall’espressione del suo viso, che un indicibile terrore l’aveva improvvisamente preso.

Grosse gocce di sudore gli colavano dalla rugosa fronte e un forte tremito scuoteva il suo magro corpo. Doveva aver già compreso quale atroce supplizio stava per provare.

Quando lo vide ben legato, Tremal-Naik gli si accostò, dicendogli:

– Vuoi dunque parlare, manti?

Il vecchio gli lanciò uno sguardo feroce, poi disse con voce strangolata.

– No… no…

– Ti dico che non resisterai e che finirai per dirmi quanto noi desideriamo sapere.

– Mi lascerò piuttosto morire.

– Allora ti faremo dondolare.

– Qualcuno vendicherà la mia morte.

– I vendicatori sono troppo lontani per occuparsi di te in questo momento.

– Un giorno Suyodhana lo saprà e proverai le delizie del laccio.

– Noi non temiamo i Thugs, e ce ne ridiamo di Kalí, dei suoi settari e anche dei loro lacci. Per l’ultima volta vuoi confessarci dove si trova ora Suyodhana o dove hanno nascosta mia figlia?

– Va’ a chiederlo al «padre delle sacre acque del Gange», – rispose il manti con voce ironica.

– Va bene: avanti voialtri.

I quattro malesi spinsero il vecchio verso l’albero.

Sambigliong gli passò il laccio attraverso il corpo stringendolo un po’ sotto le costole, in modo che la funicella gli comprimesse il ventre e quindi gl’intestini, poi gridò:

– Ohe! Issa!

I malesi afferrarono l’altra estremità della fune che era passata sopra il ramo e il manti fu sollevato per un paio di metri.

Il disgraziato aveva mandato un urlo d’angoscia. Il nodo sotto il peso del corpo, si era subito stretto in modo da penetrargli quasi nelle carni.

Tutti si erano radunati intorno all’albero, compresi Yanez e Sandokan, i quali assistevano a quel nuovo genere di martirio senza battere ciglio.

Anzi il portoghese, come sempre, aveva acceso la sua ventesima o trentesima sigaretta e fumava placidamente.

– Spingete, – comandò freddamente Tremal-Naik ai quattro malesi che avevano legato il manti.

– Fatelo dondolare senza preoccuparvi delle sue grida.

I pirati si misero due da una parte e due dall’altra e diedero la prima spinta.

Il manti strinse i denti per non lasciarsi sfuggire alcun grido, però si vedeva che doveva soffrire atrocemente sotto quella stretta che a causa del dondolamento aumentava sempre.

Aveva gli occhi schizzanti dalle orbite e il suo respiro era diventato affannoso come se i polmoni, pure compressi, non potessero quasi piú funzionare.

Alla terza spinta che gli fece penetrare la funicella nelle carni, il disgraziato non poté piú frenare un urlo di dolore.

– Basta! – gridò con voce rauca. – Basta… miserabili.

– Parlerai? – chiese Tremal-Naik, accostandoglisi.

– Sí… sí… dirò tutto quello… che vorrai… sapere… ma fammi togliere il laccio… Soffoco…

– Potresti pentirti e mi seccherebbe dover ricominciare il supplizio.

Fece arrestare il dondolamento, poi riprese:

– Dove si trova Suyodhana? Se non me lo dici, non faccio allentare il nodo scorsoio.

Il manti ebbe un’ultima esitazione, che non ebbe che la durata di pochi secondi. Ora non si sentiva in caso di resistere piú a lungo a quello spaventevole supplizio inventato dalla diabolica fantasia dei suoi compatriotti.

– Te lo dirò, – rispose finalmente, facendo una smorfia orribile.

– Dimmelo dunque.

– A Rajmangal.

– Negli antichi sotterranei!

– Sí… sí… basta… m’uccidi…

– Una risposta ancora, – disse l’implacabile bengalese. – Dove hanno nascosto mia figlia?

– Anche quella… la vergine… a Rajmangal.

– Giuramelo sulla tua divinità.

– Lo giuro… su Kalí… Basta… non ne posso… piú.

– Calatelo, – comandò Tremal-Naik.

– Non resisteva piú, – disse Yanez gettando via la sigaretta. – Questi diavoli d’indiani possono dare dei punti all’Inquisizione della vecchia Spagna.

Il manti fu subito calato e liberato dal nodo scorsoio e dalle corde. Attorno al ventre aveva un solco profondo, azzurrognolo che in certi punti sanguinava.

I malesi furono costretti a farlo sedere, perché il disgraziato non si reggeva piú sulle gambe.

Ansava affannosamente e aveva il viso congestionato.

Tremal-Naik attese qualche minuto onde riprendesse fiato, poi riprese:

– Ti avverto che tu rimarrai nelle nostre mani, finché noi avremo le prove di non essere stati da te ingannati. Se avrai detto la verità, un giorno tu sarai libero e anche largamente ricompensato delle due delazioni; se avrai mentito non risparmieremo la tua vita e ti faremo soffrire torture spaventevoli.

Il manti lo guardò senza fare nessun gesto. Vi era però nei suoi occhi un terribile lampo d’odio.

– Dov’è l’entrata del sotterraneo? Ancora presso il banian? – chiese Tremal-Naik.

– Questo non te lo posso dire, non essendomi piú recato a Rajmangal dopo la dispersione dei settari, – rispose il manti. – Credo però che non sia piú quella.

– Dici il vero?

– Non ho forse giurato su Kalí?

– Se tu non sei piú tornato a Rajmangal, come sai che mia figlia si trova colà?

– Me lo hanno detto.

– Perché me l’hanno presa?

– Per fare di quella bambina la «Vergine della pagoda». Tu hai rapito la prima; Suyodhana ti ha preso la figlia che ha nelle sue vene il sangue di Ada Corishant.

– Quanti uomini vi sono a Rajmangal?

– Non sono molti di certo, – rispose il manti.

– Una parola ancora, – disse Sandokan, intervenendo. – I Thugs posseggono delle navi?

Il vecchio lo guardò per qualche istante, come se cercasse d’indovinare il motivo di quella domanda, poi disse:

– Quand’io ero a Rajmangal non avevano che dei gonga. Non so quindi se Suyodhana in questi ultimi tempi abbia acquistata qualche nave.

– Quest’uomo non confesserà mai tutto, – disse Yanez a Sandokan. – D’altronde ne sappiamo abbastanza e possiamo andarcene prima che i sacrificatori tornino con dei rinforzi. Ah! E della vedova, che cosa ne faremo?

– La manderemo a casa mia, – disse Tremal-Naik. – Si troverà meglio che fra i Thugs.

– Allora partiamo, – disse Yanez. – Che siano già giunti gli elefanti a Khari?

– Fino da ieri, ne sono sicuro.

– Saranno belli?

– Splendidi animali, senza dubbio, già abituati a cacciare le tigri. Sono stati pagati cari ma meriteranno quella somma.

– Andiamo dunque a cacciare nelle Sunderbunds, – concluse Yanez. – Vedremo se le tigri del Bengala valgono quelle delle foreste malesi.

Due uomini presero il manti sotto le braccia e la truppa, a un cenno di Sandokan, abbandonò il piazzale, dove finivano di consumarsi, sugli ultimi tizzoni, le ossa del thug.

La foresta dei cocchi fu attraversata senza incontrare nessuno e verso le due del mattino la spedizione prendeva posto nelle due scialuppe, aumentata del manti e della vedova.

Avendo la corrente in favore, il ritorno fu compiuto in brevissimo tempo. Un’ora dopo infatti tutti erano a bordo del praho.

Il manti fu rinchiuso in una delle cabine del quadro e per maggior precauzione gli fu collocata una sentinella dinanzi all’uscio.

– Quando partiamo? – chiese Tremal-Naik a Sandokan, prima di rientrare nelle loro cabine.

– All’alba, – rispose il pirata. – Ho già dato gli ordini opportuni onde tutto sia pronto prima dello spuntare del sole. Domani sera potremo trovarci a Khari?

– Certo, – rispose Tremal-Naik. – Non vi sono che dieci o dodici chilometri dalla riva del fiume a quel villaggio.

– Una semplice passeggiata. Buona notte ed a domani.

Cominciavano a tramontare le ultime stelle quando l’equipaggio del praho era tutto in coperta per prepararsi alla partenza.

Mentre issavano le immense vele, Sambigliong che dirigeva la manovra s’avvide, con una certa inquietudine, che anche le due grab ancoratesi il giorno innanzi, si preparavano a lasciare l’ancoraggio.

Le loro tolde eransi rapidamente coperte d’uomini i quali alzavano precipitosamente le vele latine e spiegavano i fiocchi, come se avessero avuto timore che la brezza dovesse da un momento all’altro mancare o che la corrente del fiume cambiasse direzione.

Il malese che aveva pure i suoi sospetti su quelle due misteriose navi, le quali portavano equipaggi quattro o cinque volte piú numerosi di quelli che sogliono avere quei velieri, rimase profondamente turbato da quelle manovre precipitose.

– Qui gatta ci cova, – mormorò. – Che il padrone abbia ragione di aver diffidato di questi vicini? Non ci vedo chiaro in questo affare.

Stava per dirigersi verso poppa, onde scendere nel quadro e avvertire Sandokan, quando questi comparve.

– Padrone, – gli disse. – Anche le due grab salpano con noi.

– Ah! – si limitò a dire il pirata.

Guardò tranquillamente i due velieri che stavano ritirando le ancore, poi disse:

– E la partenza improvvisa di quelle due navi t’inquieta, è vero mio bravo tigrotto?

– Non mi sembra naturale, padrone. Sono giunte l’altro ieri, non hanno caricata nemmeno una balla di cotone ed ecco che vedendo noi rimetterci alla vela, s’affrettano ad imitarci. E poi guardate quanti uomini hanno a bordo! Mi sembra che siano aumentati.

– Fra tutte e due hanno almeno il doppio dei nostri; se sperano però di darci delle noie, s’ingannano.

Se vorranno seguirci fino alle Sunderbunds, faremo giuocare le nostre artiglierie e vedremo a chi toccherà la peggio. Alla ribolla, Sambigliong e bada a non urtare qualche nave.

Le immense vele erano già state alzate con due mani di terzaruoli per diminuire di qualche po’ la loro superficie e le ancore di prora e di poppa apparivano allora a fior d’acqua. La Marianna, presa dalla corrente e spinta dalla brezza mattutina, cominciava a muoversi.

 

Una delle due grab si era messa già in marcia, scivolando fra le numerose navi che ingombravano il fiume e l’altra si preparava a seguirla.

Sandokan, dal cassero, le osservava attentamente, senza dare alcun segno d’inquietudine. Non era uomo da preoccuparsi anche se quelle due navi avevano equipaggi piú numerosi ed erano armate di cannoncini.

Si era misurato con altri avversari ben piú poderosi e formidabili per avere qualche timore.

Una mano che gli si posò sulla spalla, lo fece volgere.

Yanez e Tremal-Naik erano saliti sul ponte, seguiti da Kammamuri.

– Che tu abbia ragione? – gli chiese il portoghese. – O che si tratti d’un puro caso?

– Un caso molto sospetto, – rispose Sandokan. – Sono certo che ci seguono, per vedere se noi andiamo a gettare le ancore in qualche canale delle Sunderbunds.

– Che vogliano assalirci?…

– Nel fiume, non credo; in mare forse. Ciò però mi seccherebbe, quantunque abbia piena fiducia in Sambigliong.

– Dobbiamo sbarcare prima di giungere alla foce del fiume, – disse Tremal-Naik. – Khari dista dal mare molte leghe.

– Se potessi liberarmi di quei due spioni! – mormorò Sandokan. – Passeremo la notte a bordo e non sbarcheremo prima di domani mattina, cosí potremo meglio accertarci delle intenzioni di quei due velieri.

Sono risoluto a chiedere ai loro equipaggi delle spiegazioni, se questa sera si ancoreranno ancora presso di noi.

Fingiamo per ora di non occuparci di essi onde non metterli in sospetto e andiamo a prendere il thè. Ah! E la vedova?

– La lasceremo nel mio bungalow di Khari, – rispose Tremal-Naik. – Farà compagnia a Surama.

– La bajadera può esserci necessaria nelle Sunderbunds, – disse Yanez. – Preferisco condurla con noi.

Sandokan guardò il portoghese in certo modo, che questi arrossí come una fanciulla.

– Oh! Yanez, – disse ridendo. – Il tuo cuore avrebbe perdute le sue corazze?

– Invecchio, – rispose il portoghese, con aria imbarazzata.

– Eppure io credo che gli occhi di Surama ti faranno ritornare giovane.

– Bada, – disse Tremal-Naik. – Le donne indiane sono pericolose piú di quelle bianche. Sai con che cosa sono state create, secondo le nostre leggende?

– Io so che sono generalmente bellissime e che hanno degli occhi che bruciano il cuore, – rispose Yanez.

– Narrano le vecchie istorie che quando Twashtri creò il mondo, rimase molto perplesso nel creare la donna e dovette pensare a lungo, prima di scegliere gli elementi necessari per formarla. Ti avverto che parlo della donna indiana e non di quella bianca o gialla o malese.

– Udiamo, – disse Sandokan.

– Prese le rotondità della luna e la flessuosità del serpente, lo slancio della pianta rampicante e il tremolio della zolla erbosa, il fascino del rosaio, il colore vellutato della rosa e la leggerezza delle foglie; lo sguardo del capriuolo e la gaiezza folle del raggio di sole; il pianto delle nuvole, la timidezza della lepre e la vanità del pavone; la dolcezza del miele e la durezza del diamante; la crudeltà della tigre e la freddezza della neve; il cicaleccio della gazza e il tubare della tordella.

– Per Giove! – esclamò Yanez. – Che cosa ha preso ancora quel dio indiano?

– Mi pare che abbia fuso sufficienti materie ed elementi, – disse Sandokan. – Mio caro Yanez, le donne indiane hanno perfino un po’ della crudeltà delle tigri!…

– Noi siamo le tigri di Mompracem, – rispose il portoghese, ridendo. – Perché dovremmo o almeno dovrei io aver paura d’una fanciulla che ha… un po’ di pelle di tigre indiana?

Scoppiò in un’allegra risata, poi diventando improvvisamente serio, disse:

– Ci seguono sempre, Sandokan.

– Le grab? Le scorgo: ma vedremo se domani galleggeranno ancora.

– Che cosa vuoi fare?

– Lo saprai questa sera, – rispose Sandokan con accento minaccioso. – Lascia che ci seguano per ora.

Il praho era uscito dal caos di navi e di barcacce che ingombravano il fiume, e veleggiava con sufficiente rapidità verso il basso corso.

Le due grab lo seguivano sempre, a una distanza di tre o quattrocento passi l’una dall’altra, tenendosi verso la riva opposta.

Verso il tramonto, dopo esser passata dinanzi alla stazione dei piloti di Diamond-Harbour, la Marianna entrava in un ampio canale formato dalla riva e da un isolotto boscoso lungo qualche miglio.

Era il posto scelto da Tremal-Naik per sbarcare, trovandosi di fronte alla via che doveva condurli a Khari.

L’equipaggio aveva appena gettato le ancore, quando, verso l’estremità settentrionale del canale, si videro improvvisamente apparire le due grab.

Sandokan, che si trovava in coperta, vedendole aveva corrugata la fronte.

– Ah! – diss’egli. – Ci seguono anche qui? Ebbene, vi darò il vostro conto. Artiglieri: smascherate i pezzi e gli altri ai posti di combattimento.

Offro battaglia!