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La favorita del Mahdi

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E dunque?

È prigioniero dello scièk Tell-Afab che sta ora guerreggiando sul lago Tscherkela.

Vivo allora?

Sì, vivo, ma non per questo salvo.

Che avete intenzione di fare?

Dove va l’esercito?

A dare battaglia alle orde del Mahdi sotto El-Obeid, rispose il reporter.

Vengo con voi.

Fate bene. Quando avremo espugnata la città pregherò Hicks pascià che ci dia un centinaio di uomini per andar a liberare Abd-el-Kerim. Presto, amici miei, in sella, e che Iddio ci aiuti a vincere!

CAPITOLO XVI. Il massacro di Kasghill

Erano le sei del mattino del 1° gennaio, quando l’esercito egiziano comandato da Hicks pascià si mise in marcia dirigendosi verso El-Obeid, la capitale del Kordofan, la città forte, o meglio, il quartier generale del Mahdi Ahmed Mohammed.

Si componeva di oltre diecimila uomini fra egiziani e basci-bozuk, nubiani e sennaresi, bene armati, ma affatto demoralizzati, affranti dalle fatiche, dalle sofferenze, dalle malattie, dai torridi calori; di diecimila uomini infine risoluti bensì a espugnare El-Obeid, poichè la presa di questa città era l’unica risorsa che a loro rimanesse per mettere fine a quella interminabile campagna e per evitare un probabile disastro, ma impotenti di sostenere un vigoroso urto delle orde del Mahdi.

L’esercito procedeva diviso in sei quadrati, ma assai lentamente, fiancheggiato sulle ali dei basci-bozuk i quali galoppavano nel massimo disordine colle scimitarre in pugno.

Ogni soldato aveva la baionetta inastata per essere pronto a respingere i primi assalti degli insorti che non dovevano molto tardare.

Faceva un caldo terribile. Il sole versava proprio a piombo, raggi infuocati che rendevano le sabbie così ardenti che il camminare a piedi scalzi, era affatto impossibile. Per di più, un’immensa nuvola di polvere si alzava sotto quelle migliaia e migliaia di piedi o ricadeva qua e là acciecando e soffocando quei disgraziati soldati.

Per due ore l’esercito fiancheggiò il palmeto di Kasegh cercando di tenersi all’ombra, poi entrò in una vastissima pianura sabbiosa, calcinata dal sole, sparsa di arditissime rupi e di magri cespugli.

Che brutto luogo, disse O’Donovan, che cavalcava a fianco di Fathma.

Temete qualche cosa? chiese l’almea.

Non scordatevi Fathma, che oggi è il 1° gennaio.

Che vuol dire ciò?

Ho udito dire che il 1° gennaio il Mahdi ci darebbe battaglia.

Ubbie, amico mio.

Non correte tanto, Fathma. È un bel pezzo che io sento dire che la luna del 1° gennaio è incaricata di vendicare l’Islam.

E ci credete?

Un po’.

Ma io non vedo i ribelli, O’Donovan.

Non è ancora sera, Fathma.

La conversazione finì lì.

L’esercito intanto continuava ad avanzarsi, ma non più coll’ordine di prima, i soldati spossati, trafelanti, arsi vivi, andavano a capriccio, a branchi a drappelli, coi fucili ad armacollo, tentennando come ubbriachi. Uno cadeva qui colpito da una insolazione, e rimaneva boccheggiante sulle sabbie ardenti; un altro cadeva là impotente di fare un passo, un terzo si arrestava più lontano, un quarto, si sbandava cercando invano una goccia d’acqua.

I cavalli, i cammelli ed i muli, abbandonati a sè stessi dai cammellieri, accrescevano ad ogni istante la confusione, rimanendo indietro, avanzando od andando a traverso a urtare le ali dell’esercito.

Invano Hicks pascià sagrava, invano gli ufficiali si spolmonavano, invano lo Stato Maggiore galoppava a dritta, a sinistra, dinanzi e di dietro radunando le disperse compagnie.

Verso mezzogiorno l’esercito entrava nei boschi di Kasghill colla speranza di trovare delle sorgenti ed estinguere l’ardente sete. Era appena entrato che urla terribili scoppiarono in coda al quadrato del colonnello Farquhard. Migliaia e migliaia d’insorti, difesi da grandi scudi e armati di coltellacci, di fucili, di lancie, di scimitarre e baionette, erano improvvisamente usciti dai circostanti boschi caricando furiosamente gli egiziani.

L’urto fu sanguinosissimo. Gl’insorti, niente atterriti dal fuoco del quadrato, si avventavano sulle punte delle baionette emettendo urla acute, tentando di sfondare quella muraglia umana. Ma fulminati dinanzi e sciabolati a tergo dai basci-bozuk, si ritirarono confusamente gettandosi in mezzo alle fitte boscaglie dove l’inseguimento diventava impossibile.

Hicks pascià fece suonare il segnale della fermata e si fece porre in batteria le mitragliatrici e i cannoni. Era tempo.

Nuove torme di insorti sbucavano dai boschi con impeto disperato sfidando impavidi il vivissimo fuoco della moschetteria e l’uragano di piombo delle mitragliatrici. Alla loro testa marciavano i dervis incoraggiandoli colla voce e coll’esempio e recitando le terribili parole dei Khuatsar che suonano così:

Colpisci senza tema, giacchè colui che tu odi ha meritato la morte.

I sei quadrati avevano un gran da fare a tenere testa a quei furibondi che sprezzavano la morte e non chiedevano altro che di colpire. Ne uccidevano cento e ne sorgevano duecento, ne ammazzavano di più e ne sorgevano mille, duemila, cinquemila, ventimila.

La strage durò tre ore senza interruzione poi vi fu un po’ di sosta. Gli insorti, respinti su tutta la linea, sventrati e mutilati dal fuoco delle mitragliatrici, si ritirarono ma senza abbandonare i boschi di Kasghill.

Hicks pascià, premuroso di giungere a El-Obeid, fece riordinare i quadrati e diede il segnale di rimettersi in marcia. Non aveva, l’esercito, percorso duecento passi, che nuovi insorti apparvero dinanzi e di dietro, a destra e a sinistra, saettando colle loro lunghe lancie i basci-bozuk e massacrando orribilmente i disgraziati che feriti o affranti o colpiti dalle insolazioni rimanevano indietro.

Ogni mezz’ora Hicks pascià era costretto a far suonare l’alt, far mettere in batteria le mitragliatrici e comandare il fuoco.

Alle sette di sera fu giocoforza accampare. L’esercito, sfinito, assetato, arrostito dal sole, acciecato dalla polvere, non era capace di fare due passi innanzi.

I cammelli e i cavalli dei convogli vennero legati gli uni agli altri in modo da formare un’ampio cerchio e attorno a essi i sei quadrati si accamparono.

La notte era oscurissima. Dense nubi, nerissime come se fossero di pece, si erano accavallate in cielo e correvano come cavalli sbrigliati. Colpi di vento umido, di quando in quando scendevano facendo curvare gli alberi della foresta. Al sud lampeggiava e il tuono brontolava.

O’Donovan, Fathma e Omar, divorato in furia il magro pasto, si diressero verso gli avamposti per vedere coi loro occhi come stavano le cose.

I soldati erano tutti in piedi e i cannonieri erano ritti accanto ai loro pezzi. Tutti aspettavano il nemico che aveva silenziosamente circondata la boscaglia e che aspettava il momento propizio per gettarsi sopra i quadrati.

Che brutta notte che si prepara, disse O’Donovan.

Verremo attaccati? chiese l’almea.

Senza dubbio.

Con questa oscurità?

Gl’insorti s’accosteranno più facilmente.

Vinceremo?

Non credo, Fathma. I nostri soldati hanno paura e non possono tenersi in piedi tanto sono stanchi.

In quel momento la luna apparve sull’orizzonte facendo capolino fra due gigantesche nubi. O’Donovan impallidì.

Ecco la luna che vendicherà l’Islam! esclamò. Non aveva ancora finito che alcuni spari rimbombavano agli avamposti.

All’armi! s’udirono gridare le sentinelle.

Il nemico! gridò Omar.

La sua voce fu coperta da urla feroci, da urla di guerra e di morte.

Colpisci senza tema, gridavano quelle voci. Colpisci senza tema giacchè colui che tu odi ha meritato la morte.

I dervis s’avanzavano colla scimitarra in pugno rovesciando sull’esercito egiziano migliaia e migliaia di fanatici. Una terribile grandinata di palle cadde sugli egiziani, molti dei quali stramazzarono a terra mandando urla dolorose. I sei quadrati vacillarono da un capo all’altro e le linee si ruppero in varii luoghi. Alcune compagnie, côlte da invincibile panico, presero la fuga gettando armi e zaini.

Si salvi chi può! urlarono alcuni vigliacchi.

Fuoco! s’udì tuonare Hicks pascià.

Fuoco! ripeterono i comandanti.

Le trombe diedero il segnale di cominciare il fuoco e il combattimento accanito, terribile, sanguinosissimo, cominciò.

Il fracasso diventò ben presto spaventevole. Gli egiziani, assaliti da tutte le parti da migliaia e migliaia di guerrieri, tiravano furiosamente, all’impazzata e assaltavano colla baionetta; i cannoni tuonavano, ruggivano, vomitando veri torrenti di ferro e le mitragliatrici stridevano sui fianchi dei reggimenti tempestando i cespugli, fracassando i tronchi degli alberi, sollevando per ogni dove il terreno, sventrando i cavalli, i cammelli e gli uomini.

Dalle negre boscaglie, avvolte da giganteschi vortici di fumo che il vento sbatteva e lacerava, uscivano senza posa correndo e urlando, drappelli di nudi guerrieri i quali si precipitavano contro le baionette a corpo perduto, sfondando i battaglioni e diradando con ispaventevole rapidità le file.

Gli uomini cadevano a dozzine, a cinquantine, a centinaia, dinanzi, a destra, a sinistra, senza quasi sapere da qual lato venivano colpiti, chi colle braccia tronche, chi colle gambe fracassate, chi colla testa nettamente portata via, chi forato da cento colpi.

Era una carneficina, un mostruoso massacro. Fathma, Omar e O’Donovan, riparati dietro i loro cavalli sventrati dalla mitraglia, guardavano con angoscia l’assottigliarsi di quelle schiere. Mai avevano assistito ad un macello simile; mai avevano visto tanti morti e tanti feriti; mai avevano udito tuonare assieme tanti fucili e tanti cannoni; mai avevano visto tanta rabbia e tanta ostinazione.

 

Alle undici, quando maggiore era la mischia, l’uragano che da alcune ore minacciava di scoppiare, venne ad accrescere l’orrore di quella notte di sangue.

Le cateratte del cielo improvvisamente s’aprirono e una pioggia furiosa si rovesciò sui combattenti mescolandosi ai torrenti di sangue che correvano pei boschi. Il vento cominciò a ruggire, la folgore a scrosciare, i lampi guizzarono illuminando d’una luce livida, infernale, l’orribile macello. Anche il cielo era contro i disgraziati che Hicks pascià conduceva contro il profeta del Sudan.

A mezzanotte urla strazianti s’udirono a destra del quadrato di Hicks e poco dopo un’onda di soldati sfondava uno dei reggimenti precipitandosi all’impazzata verso i muli, i cammelli e cavalli.

O’Donovan arrestò uno di quegli uomini.

Che succede? gli chiese.

Il quadrato del colonnello Farquhard è stato distrutto.

Maledizione! ruggì il reporter.

La situazione diventava spaventevole. I mahdisti, ebbri di sangue e di carneficina, raddoppiavano gli assalti, sfondando una dopo l’altra le linee di battaglia. Di quando in quando si udivano, mescolati agli scrosci delle folgori, al rombo dei cannoni e alle fucilate, le urla strazianti degli egiziani che venivano spietatamente macellati.

Alla una del mattino un altro quadrato veniva sfondato e poco dopo venivano respinti, aperti, spezzati, tagliuzzati gli altri tre.

Più non restava che il quadrato di Hicks pascià ma in quale stato! Non vi erano più ufficiali che si erano fatti ammazzare alla testa dei loro battaglioni; non vi erano più basci-bozuk, distrutti totalmente in due cariche tentate contro quel formidabile nemico; non vi erano più artiglieri, morti accanto ai loro pezzi smontati o scoppiati.

V’erano invece enormi ammassi d’uomini, di cavalli e di cammelli orrendamente scannati, dietro ai quali tiravano ancora i superstiti anneriti dal fumo, ubbriachi di polvere colle dita abbrustolite dalle canne di remington diventate ardenti.

Alle quattro e pochi minuti, Fathma che distesa a terra sparava dove appariva confusamente il nemico, vide Hicks pascià che trovavasi solo, cinquanta passi più innanzi, portare le mani al volto, vacillare, abbandonare la sciabola e precipitare da cavallo.

O’Donovan! gridò ella. Il pascià e caduto.

Il reporter e Omar, che si trovavano alcuni passi indietro riparati da un cannone smontato, a quel terribile grido si slanciarono verso l’almea malgrado le palle che continuavano a fioccare.

Perdio! esclamò l’irlandese. Siamo tutti perduti. Dov’è caduto?

Là in mezzo a quel gruppo di cadaveri.

Accorriamo, amici, e non una sillaba. Se gli egiziani lo sanno siamo tutti morti.

O’Donovan e i suoi compagni, scalarono intrepidamente i cumuli dei cadaveri dal disotto dei quali sfuggivano torrenti di nero sangue, e giunsero là, ove era caduto il pascià.

In sulle prime, fra i vortici di fumo non iscorsero che un cavallo riccamente bardato che s’impennava nitrendo, ma poi in mezzo ai cadaveri dello Stato Maggiore, steso sul dorso, colle braccia incrociate sotto la testa scopersero l’infelice pascià.

O’Donovan, coi capelli irti, tremante, pallido, inondato di freddo sudore, si curvò su di lui e l’alzò. Il pascià aveva la faccia marmorea e alterata, la barba irrigata dal sangue che eragli uscito dalla bocca e la tunica forata da due palle.

Gran Dio! balbettò il reporter. È morto.

Balzò in piedi, afferrò Fathma per una mano e disse:

Fuggiamo o siamo perduti.

Ma dove? chiese l’almea pallida di terrore.

Ho visto una rupe laggiù. La scaleremo.

Ma il nemico circonda il quadrato.

Non importa, venite o sarà troppo tardi. Vieni, Omar.

Il reporter, l’almea e lo schiavo attraversarono il quadrato ingombro di morti e di moribondi, di armi, di cannoni, di cavalli e di cammelli e giunsero ai piedi di una gigantesca rupe che difendeva, verso oriente, le linee egiziane.

Omar, vedi dei nemici sulla cima? chiese il reporter.

No, rispose il negro.

Hai una fune?

Sì, l’ho.

Sei capace di raggiungere quella sporgenza che scorgesi a mezza altezza della rupe?

Sarà cosa difficile, ma lo tenterò.

Sali adunque, ma fa presto. I ribelli stanno per rompere il quadrato e scannare tutti i soldati.

Il negro si liberò dalla casacca, dei calzoni e del turbante, si arrotolò attorno alle reni la fune e cominciò la pericolosa scalata mentre la mitraglia continuava a grandinare e i mahdisti macellavano le schiere egiziane che ancora resistevano ai loro furiosi assalti.

Aggrappandosi agli arrampicanti, appoggiandosi ai cespugli, cacciando le dita nei crepacci della rupe cominciò a elevarsi malgrado la pioggia che lo accecava e le palle che fischiavano ai suoi orecchi.

Ogni qual tratto una scheggia staccavasi dalla rupe e rotolava al basso facendo guizzare Fathma e il reporter che seguivano con viva trepidazione e col cuore sospeso l’ardita manovra del negro. Qualche volta era invece un ramo che spezzavasi e si vedeva Omar dondolarsi sopra l’abisso, sospeso ad un ramoscello o ad una semplice radice.

Dopo cinque minuti di sforzi incredibili, lo schiavo riuscì a raggiungere la prima piattaforma che trovavasi a mezza altezza della rupe.

Legò la fune ad un grosso macigno e gettò l’altro capo ai compagni che se ne impadronirono vivamente.

A voi Fathma, disse il reporter, dominando colla sua voce il rombo dei cannoni, lo scrosciare delle folgori, le urla dei ribelli e le grida strazianti dei moribondi. Presto, presto o sarà troppo tardi.

Fathma non se lo fece dire due volte. Afferrò la fune e si issò nell’aria raggiungendo Omar.

O’Donovan! gridò poi.

La sua voce fu coperta da urla terribili. I ribelli avevano sfondato il quadrato e macellavano spietatamente gli egiziani che si erano addossati ai cavalli ed ai cammelli.

O’Donovan! ripetè Fathma,

Il reporter s’avvinghiò alla fune e si issò malgrado le palle che grandinavano fitte fitte. Era giunto a mezza altezza quando fu colpito alla testa da una scheggia di mitraglia. Mandò un grido disperato.

Sono morto!

Fu visto arrestarsi e cercare un appoggio nei crepacci della rupe, ma una nuova scheggia lo colpì al petto. Aprì le mani e precipitò roteando nell’abisso spaccandosi il cranio sulle roccie sottostanti.

Fathma e Omar, agghiacciati dal terrore, si curvarono sull’orlo della rupe cercando di scorgere lo sventurato reporter del Daily-News, ma invano.

O’Donovan! O’Donovan! gridò Fathma con disperato accento.

La sua voce si perdè fra gli urli feroci dei mahdisti.

Scendiamo! gridò ella.

S’aggrapparono agli arbusti per discendere, ma il tempo mancò. Dall’alto della rupe venivano giù precipitosamente dei nudi guerrieri agitando le loro lancie e le loro scimitarre.

Siamo perduti! gridò Omar.

Indietro cani! urlò Fathma, strappandosi dalla cintura l’jatagan.

Gl’insorti anzichè arrestarsi s’avventarono a testa bassa contro l’almea e il suo schiavo, li circondarono, li disarmarono e li curvarono sull’abisso. Già stavano per precipitarli nel vuoto, quando una voce tonante, imperiosa, urlò:

Fermi tutti! Chi li tocca è uomo morto!

Un guerriero riccamente vestito discendeva dall’alto della rupe con rapidità vertiginosa. Giunto sulla piattaforma egli si precipitò ai piedi di Fathma.

Ah! mia povera padrona! esclamò egli baciandole le mani.

Fathma e Omar lo riconobbero subito.

Abù-el-Nèmr! gridarono con gioia.

Sì, amici miei, disse lo scièk. L’Abù-el-Nèmr che voi salvaste dalla morte quando il leone lo ferì nelle foreste del Bahr-el-Abiad e che ora viene a pagare il sacro debito. Amici, voi siete salvi e sotto la mia possente protezione!

Nel medesimo istante che il generoso scièk pronunciava quelle parole, l’ultimo egiziano dell’infelice Hicks pascià cadeva morto sotto le lancie dei terribili guerrieri di Ahmed Mohammed profeta del Sudan.

FINE DELLA PARTE SECONDA

PARTE TERZA. Il Mahdi

CAPITOLO I. I prigionieri

La mattina del 15 maggio 1883, una straordinaria agitazione regnava fra le innumerevoli orde dal Mahdi Mohammed Ahmed, accampate in una immensa e sabbiosa pianura, a corta distanza da El-Obeid la capitale del Kordofan.

Dal tugul, dalle tende, dalle zeribak, dalle tettoie e dalle hose uscivano, vociferando a tutta gola, guerrieri vestiti con stoffe variopinte o semi-nudi, o nudi affatto, slanciandosi all’impazzata fra i cannoni, fra i fucili stretti in fasci, fra i cammelli e i cavalli che ingombravano il campo.

Ora passavan turbe di Baggàra Salem, guerrieri d’alta statura, di forme massiccie, dalle fisonomie feroci, coi cappelli intrecciati e ornati di pezzetti di ambra e di conterie di Venezia; ora di Baggàra Hamran montati su buoi e coi corpi spalmati di grasso di cammello e riparati dietro grandi scudi convessi e coperti di pelle d’antilope; ora di Abù-Rof, bella gente dalla tinta bronzina, lineamenti fieri, il petto racchiuso da scintillanti cotte di acciaio e il capo difeso da un elmetto nasale; ora di guerrieri del Beni-Gerar, terribili predoni propri del Darfur, colle membra cariche di anella d’avorio o di rame; poi attruppamenti di beduini Kababich in uniforme bianca, di negri Megianin, di Aulad-el-Behr, di Hababin; ondate di Sennaresi, di Nubiani, di Arabi, di Scilucchi, di Basci-bozuk rinnegati, tutti armati chi di remington tolti agli egiziani nella sanguinosa battaglia di Kasghill, chi di moschettoni a pietra o a miccia, chi di lunghe spade dritte a due tagli, chi di scimitarre di tutte le lunghezze e larghezze, o di lancie, o di mazze, o di scuri, o di coltellacci, o di randelli ferrati.

Tutti quei guerrieri che parevano impazziti, si dirigevano di corsa verso le trincee che difendevano il campo dal lato meridionale e vi si affollavano confusamente sopra, urtandosi, atterrandosi, bisticciandosi per arrivare primi. Mille e mille domande s’incrociavano per l’aria formando un baccano assordante che veniva smisuratamente ingrossato da un furioso strepitare di noggàra e di darabùke, da un rullare di tamburi egiziani e da uno squillare acuto di mille bizzarri istrumenti musicali.

Ma siete sicuri che verranno? chiedevano gli uni.

Ma sicurissimi, rispondevano gli altri.

Avete veduto il cavaliere che recò la notizia?

Coi nostri propri occhi e l’abbiamo udito colle nostre orecchie.

Hanno dunque vinto?

Ma sì, sono vincitori.

Ci sono prigionieri?

Altro che! E prigionieri egiziani. Una cinquantina.

Un centinaio.

Un migliaio.

Che marmellata che faremo. Li massacreremo tutti.

E pianteremo le loro teste dinanzi le porte di El-Obeid a tener compagnia a quella di Hicks pascià.

Benissimo! Bravi! Morte agli infedeli! Guerra ed esterminio.

Morte agli infedeli!

Eccoli! gridò una voce tonante.

Eccoli! ripeterono cinquantamila voci.

Viva lo scièk Tell-Afab! urlarono tutti.

In lontananza scoppiò una scarica di fucili e si udirono strepitare i noggàra e le darabùke. Il più profondo silenzio regnò come per incanto fra quella moltitudine di guerrieri accavallati sulle trincee: tutti gli occhi si fissarono attentamente verso il sud.

Una nube di polvere alzavasi verso quella direzione ed in mezzo ad essa, percosse dai raggi del sole, brillavano lancie, scimitarre e baionette. Un grosso attruppamento di guerrieri si avanzava a passo di corsa verso il campo.

In testa cavalcava un bel negro col petto racchiuso in una cotta d’acciaio, un gran turbante verde sul capo e una magnifica farda d’egual colore pendentegli dalle spalle. Nella mano dritta impugnava una larga scimitarra, una sekkin, e nella sinistra teneva la bandiera del Mahdi che faceva vivamente ondeggiare al disopra della sua testa.

 

Dietro a lui si trascinavano con grandi stenti ventisei prigionieri egiziani, scalzi, laceri, insanguinati, tutti piagati e solidamente legati.

Venticinque erano poveri fantaccini sulle cui spalle grandinavano ad ogni istante colpi di corbach che strappavan a loro urla di dolore. Il ventiseiesimo era invece un tenente arabo di alta statura, di forme eleganti ed insieme vigorose.

Era più triste e in più deplorevole stato degli altri; camminava facendo sforzi sovrumani e teneva il capo inclinato sul petto. Ogni qual tratto però lo rialzava con violenza e allora mostrava una faccia abbronzata, maschia, ardita, ma sulla quale, un attento osservatore, avrebbe scorto le traccie di crudeli dolori, di sofferenze indicibili. Sulla piega delle palpebre si vedevano ancora le umide traccie di recenti lagrime.

All’intorno dei prigionieri si accalcavano confusamente guerrieri Baggàra, Denka e Bongo, che agitavano freneticamente le loro armi, scaricando in aria colpi di fucile e acclamando a piena gola lo sceicco Tell-Afab e Ahmed loro profeta.

Quando la truppa giunse all’accampamento, una oscillazione violenta, burrascosa, si fece sentire da un capo all’altro delle orde stipate addosso alle trincee. Un immenso e terribile grido lacerò l’aria e salì fino alle nubi.

A morte i prigionieri! A morte gli infedeli! Viva Tell-Afab!

I guerrieri del Mahdi si rovesciarono come una fiumana giù per le trincee e andarono a cozzare furiosamente contro i guerrieri dello sceicco Tell-Afab dividendoli in mille differenti gruppi. Ogni arma si tese minacciosamente verso gli egiziani che si erano arrestati tremanti di spavento.

A morte gli infedeli! gridavano gli uni.

Al fuoco gli egiziani! urlavano gli altri.

Tagliate a loro la testa!

Ammazzate col corbach quei cani!

A morte!… a morte!…

Lo sceicco Tell-Afab, scorgendo il pericolo che correvano quei poveri diavoli, volse in furia il cavallo e urtando quelli che gli si stringevano d’attorno e calpestando quelli che gli si paravano dinanzi, corse in loro aiuto.

Largo! largo! tuonò lo sceicco.

Morte agli egiziani! vociarono i guerrieri del Mahdi, agitando freneticamente le armi.

Fate largo! ripetè Tell-Afab. Fate largo!

I suoi guerrieri percuotendo a dritta e a manca colle impugnature delle scimitarre, coi calci degli archibusi, colle aste delle lancie, riuscirono a ributtare l’onda dei fanatici e si spinsero innanzi trascinando con loro gli egiziani che non avevano più sangue nelle vene.

Venti volte i guerrieri di Ahmed tentarono di sfondare il cerchio formato dai Baggàra, dai Denka e dai Bongo e venti volte furono ributtati lasciando sul terreno più di uno di loro malconcio. Ciò non impedì però che una lancia spaccasse la testa ad uno dei prigionieri, il quale, lasciato a terra moribondo, dopo essere stato spietatamente calpestato dai Bongo, dai Baggàra e dai Denka, cadde nelle mani dei guerrieri di Ahmed.

Il disgraziato, quantunque ancora respirasse, fu sollevato sulle punte delle lancie e sbranato: la sua testa, infissa in uno spiedo, andò ad ornare la capanna d’un potente sceicco.

Questo incidente diede tempo ai guerrieri di Tell-Afab di giungere in mezzo al campo dove rizzavasi una vastissima zeribak con solide palizzate. I prigionieri furono in fretta e a suon di legnate cacciati là dentro e cinquecento uomini li circondarono colle armi in pugno sia per impedire a loro la fuga, sia per arrestare i guerrieri di Ahmed che già tornavano alla carica vociferando spaventosamente.

Gli egiziani, pallidi, disfatti, tremanti di spavento, si lasciarono cadere a terra girando all’intorno sguardi inebetiti. In piedi non rimasero che il tenente arabo e un vecchio soldato sulla cui giacca stracciata e scolorita scorgevansi ancora dei gradi in gran parte strappati.

Tenente, ripetè, toccandogli una spalla.

L’arabo che pareva assorto in tetri pensieri, non rispose.

Tenente, ripetè, toccandogli una spalla.

Che vuoi? chiese l’arabo volgendosi verso di lui.

Che succederà di noi?

Fra qualche ora le nostre teste andranno ad abbellire le capanne degli sceicchi.

Giusto Allah!

Hai paura della morte tu? gli chiese con accento quasi ironico l’arabo. Per me la morte è un sollievo. Benedirò la scimitarra che mi spiccherà la testa dal busto.

Il vecchio soldato lo guardò con ispavento.

Oh! non dite così! esclamò.

Perchè? Quale speranza, ormai mi rimane? A che vivere quando la vita è un continuo tormento, un continuo strazio? Soffro troppo… ho il cuore spezzato.... bisogna che muoia!

Ma forse non è morta… chissà…

Sulle labbra dell’arabo spuntò un sorriso pieno di amarezza.

Perchè illudermi?.. Son tre mesi che io interrogo quanti uomini mi passano dinanzi, e non udii mai parlare di lei. È morta!.. è morta… oh! io lo sento! esclamò egli.

Ma chi lo afferma?

Il mio cuore, il suo silenzio, tutto!… Povera Fathma!… povera donna!

Egli si prese la testa fra le mani con un gesto di disperazione e un singhiozzo lacerò il suo petto.

Non parliamone più, mormorò egli con voce cavernosa. Il dolore è troppo atroce. Forse nella tomba troverò la felicità che mi fu negata quassù!..

La sua voce fu coperta da uno spaventevole baccano, da un urlo indescrivibile, da un cozzar fragoroso d’armi e da un rullar furioso di noggàra e di darabùke. Alzò la testa che aveva chinata sul petto. Lo spettacolo che si presentò dinanzi ai suoi occhi lo fece vivamente retrocedere, urtando il sergente.

Siamo perduti! mormorò egli. Ecco la morte.

I guerrieri del Mahdi, che a poco a poco si erano addensati attorno alla zeribak scagliando tremende occhiate sui prigionieri, si erano improvvisamente gettati sui cinquecento Diuka di Tell-Afab, impegnando una sanguinosissima battaglia.

Gli egiziani, che avevano subito compreso il motivo dell’attacco, erano balzati in piedi gettando urla disperate, stringendosi l’un contro l’altro, facendo sforzi sovrumani per ispezzare i legami e vendere almeno cara la vita.

Coraggio! gridò il tenente arabo. Tutti attorno a me!

Sette od otto lancie, scagliate dagli insorti, caddero nel mezzo della zeribak. Alcuni egiziani, spezzati i legami, raccolsero quelle armi e le impugnarono disponendosi in cerchio intorno ai compagni inermi.

Era tempo. I guerrieri di Tell-Afab, dopo una debole resistenza, oppressi dal numero strabocchevole degli assalitori, avevano gettato le armi dandosi a precipitosa fuga. I guerrieri del Mahdi, scalata la palizzata, si riversarono giù nella zeribak mandando urla feroci.

L’urto che successe fra questi e i prigionieri fu tremendo. Più di venti uomini caddero al suolo, chi colla testa spaccata fino al mento, chi passato da parte a parte dalle lancie, chi orribilmente mutilato, senza gambe o senza braccia. Il suolo s’inzuppò di sangue per trenta passi all’ingiro.

Assaliti e assalitori, spumanti d’ira, mugulando come belve, si mescolarono confusamente menando all’impazzata le armi, adoperando i pugni, le unghie, i denti, strangolandosi, straziandosi le carni, atterrandosi e calpestandosi rabbiosamente. In un momento non si scorse più che un attruppamento di persone che ondeggiavano per di qua e per di là, che avanzavano o che indietreggiavano, che cadevano o che si rialzavano empiendo l’aria di spaventevoli clamori, di urla, di lamenti, di rantoli.

Ogni qual tratto da quel gruppo di combattenti uscivan dei guerrieri tutti coperti di sangue, che dopo di aver barcollato rotolavano al suolo per non rialzarsi più. Talvolta era invece un egiziano, livido, esangue, colle vesti a brani, che veniva quasi subito raggiunto, sbranato a colpi di scimitarra o inchiodato a colpi di lancia contro le palizzate.

Da cinque minuti la sanguinosa pugna durava, rianimata dall’arrivo di nuovi guerrieri ohe volevano «bere sangue egiziano», quando in lontananza si udì improvvisamente una voce metallica, imperiosa gridare:

Fermi tutti! Ahmed, nostro profeta, lo comanda.

A quel comando dell’inviato di Dio, la pugna tutta d’un colpo cessò. Le armi si arrestarono in aria o caddero a terra, poi il gruppo di guerrieri si sciolse colla rapidità del lampo. Ognuno volse le spalle fuggendo a rompicollo, scalando le palizzate e confondendosi fra le orde che si pigiavano attorno alla zeribak.

Sul campo insanguinato non rimasero che quattro uomini colle vesti a brani e imbrattate di sangue: il tenente arabo che stringeva convulsivamente in mano una scimitarra e tre egiziani che non si reggevano più sulle gambe.

Attorno ad essi c’erano quaranta o cinquanta moribondi che si dimenavano urlando e altrettanti morti, fra i quali uno scièk di colossale statura colla testa quasi staccata dal busto.

Fermi tutti!.. Ahmed nostro profeta lo comanda! ripetè la voce metallica e imperiosa di prima.

All’entrata della zeribak comparve lo scièk Tell-Afab seguito da dodici Abù-Rof della guardia del Mahdi, montati su bianchi cavalli.

Egli si diresse verso i prigionieri che lo aspettavano a piè fermo, risoluti ancora a vendere cara la loro vita. Scorgendo lo scièk disteso ai piedi del tenente arabo, un lampo di collera balenò ne’ suoi occhi e le sue labbra si contrassero mostrando i denti candidi come l’avorio.