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La caduta di un impero

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Stavano per varcare la immensa arcata quando s’imbatterono nel cacciatore di topi.

«Altezza» disse. «Il nostro rifugio è stato scoperto dai paria che abitavano prima le cloache e ci stringono». «Quanti sono?» chiese Yanez. «Una cinquantina forse». «Armati?» «Hanno delle carabine ma non so se sapranno adoperarle». «E la volta?» «Sempre ardente». «Ed i topi?»

«Io credo che non ve ne siano più in nessuna galleria ed in nessuna rotonda» rispose il baniano. «Noi siamo alle prese colla fame, Altezza». «Se tentassimo la fuga?» «Sarebbe troppo tardi. Ormai siamo come assediati».

«Io non voglio morire così!… Se dovrò cadere sarà colla carabina in pugno, col viso volto al nemico. L’uomo di guerra muore in guerra». «E se Sindhia vi prendesse, Altezza? Pensateci».

«Certo che quell’uomo non mi risparmierebbe» rispose Yanez. «Mi legherebbe ad un cannone e mi farebbe saltare in aria in tanti pezzi. No, spero che non mi prenderà!»

«Dove rifugiarsi, Altezza? Fra qualche giorno anche nella grande cloaca mancherà l’aria».

«Dove? Vi è una moschea che ha le muraglie salde se non le cupole. Andiamo ad occuparla».

«Sì» disse Tremal-Naik. «Andiamo in quella specie di fortezza. I mongoli resistevano a lungo nei loro templi». Yanez fece accendere due torce a vento e guardò il fiume nero.

Si disseccava lentamente, e dalle altissime volte sfuggivano, attraverso a delle squarciature, dei nembi di fumo.

«Se si deve morire, morremo col fucile in mano» disse il portoghese. «Seguitemi, e diamo battaglia alle orde di Sindhia. Tu, cacciatore di topi, mettiti in testa».

«Sono tanto vecchio, Altezza, che se anche una palla mi raggiungesse poco mi importerebbe. Ho vissuto abbastanza».

Il drappello si mosse velocemente. Già qualche sparo si era udito dall’altra parte del fiume nero.

I paria davano già la caccia ai fuggiaschi. Non erano però uomini da temersi per gente così risoluta e decisa.

«Presto, presto!…» gridava Yanez. «Andiamo ad asseragliarci nella moschea. Dall’alto della cupola noi vedremo giungere Sandokan». «Potremo noi resistere?» chiese Tremal-Naik.

«Chi lo sa? Sandokan e Kammamuri dovrebbero essere già qui, secondo i miei calcoli. Aspetto di momento in momento il loro arrivo. Armate tutti le carabine, e se troviamo, all’uscita della grande cloaca, le bande di Sindhia, attacchiamoli».

Il drappello riprese la corsa preceduto dal cacciatore di topi che portava le torce e che galoppava come se avesse vent’anni. Nuvole di fumo passavano e ripassavano sotto la grande volta lasciando cadere qualche scintilla.

Le enormi costruzioni dei mongoli non avevano resistito ai terribili morsi del fuoco e forse stavano per crollare.

Il drappello fuggiva seguendo la banchina destra del fiume nero, temendo che da un istante all’altro succedesse una terribile catastrofe. Già stava per sboccare sotto la grande ultima arcata, quando delle detonazioni rimbombarono in lontananza. Yanez e Tremal-Naik mandarono due altissime grida: «Le carabine dei pirati di Mòmpracem!…» Seguì un breve silenzio, poi un crepitio sinistro seguì quelle scariche. Pareva che delle mitragliatrici facessero udire la loro voce regolare, secca.

Yanez si era fermato un po’ stupito, ma poi disse a Tremal-Naik che lo interrogava collo sguardo: «E perché no? Sul Re del Mare non avevamo noi di quei terribili gingilli?» Tese gli orecchi. Un’altra scarica, fitta, serrata, lacerò la notte.

«Odi, Tremal-Naik?» gridò Yanez. «Sono le nostre carabine malesi, le grosse carabine di mare, che suonano diversamente da quelle usate da voi indiani. Avanti!… Avanti!… Siamo salvi!… Sandokan arriverà coi suoi prodi e rovescerà le bande di Sindhia. La corona dell’Assam non l’ho ancora perduta!…»

FINE