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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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I due filibustieri tacevano, però si grattavano di quando in quando con furore.

Erano le zanzare, le jejeus e le zancudos tempraneros, che di tratto in tratto calavano in nuvole fitte sulla scialuppa, punzecchiando ferocemente e dolorosamente i due avventurieri.

Esse sono un vero flagello per quelle regioni e non lasciano tregua. In certe ore del giorno volteggiano le prime; di notte sono le seconde che si mettono in campagna e che montano la guardia, come dicono gl’indiani caraibi.

E come sono dolorose le loro punture! Tanto che i poveri indiani, che non sono vestiti, preferiscono affrontare un feroce giaguaro, piuttosto che imbattersi in una nuvola di zancudos.

Fortunatamente l’alba non era lontana. Le stelle cominciavano a scolorirsi e verso oriente una pallida striscia bianca con delicate sfumature rosa, cominciava a delinearsi al di sopra dei cupi ed immensi boschi della costa d’Altagracia e di La Rita.

Tablazo, una delle due isole che chiudono o meglio riparano la laguna dalle ondate del golfo, si disegnava già colle sue belle e ricche piantagioni di cacao e di canne da zucchero e coi suoi pittoreschi villaggi, fondati sui bassifondi e abitati dagl’indiani.

Quei villaggi, che allora s’incontravano dappertutto lungo le coste del golfo e della laguna di Maracaybo e che oggi sono piuttosto rari, davano un aspetto oltremodo grazioso a quella regione chiamata dai primi scopritori spagnoli Venezuela, ossia piccola Venezia.

Ogni villaggio era formato da una sola abitazione, lunga parecchie centinaia di metri, capace però di contenere qualche centinaio di famiglie o anche più.

Quelle lunghe case, situate a tre o quattrocento passi dalla riva e talvolta anche più lontano, viste in lontananza sembravano case galleggianti, invece erano costruite su solide palafitte, formate da pali di gajac tanto robusti da sfidare la scure e anche la sega e che rimanendo immersi si diceva acquistassero la durezza del ferro.

Sopra i pali quegli abili costruttori avevano formato un’immensa piattaforma di legno leggiero, di bombax ceiba o di cedro nero, poi con bambù intrecciati innalzavano le abitazioni, coprendole con foglie di cenea o di vihai che sostituivano abbastanza bene le tegole o le ardesie.

Non esistevano pareti, regnando tutto l’anno un calore intenso, quindi i naviganti potevano vedere, senza fatica, ciò che accadeva in quelle strane abitazioni, senza prendersi l’incomodo di entrarvi.

La laguna cominciava a popolarsi.

Dei canotti scavati nel tronco d’un cedro odoroso, montati da indiani quasi interamente nudi, scivolavano rapidamente sulle acque, lasciandosi dietro delle lunghe file di grosse zucche che le piccole ondate presto disperdevano; al largo alcune piccole caravelle veleggiavano lentamente, aspettando l’alta marea per approdare nei minuscoli porti dell’isoletta.

«Sotto o sopravvento?» chiese l’amburghese.

«Stringi sempre la costa» rispose Carmaux. «Passeremo fra Zapara e la costa».

Capitolo terzo. La flotta dei filibustieri

Alle otto del mattino, la scialuppa superava di volata lo stretto formato dalla punta orientale dell’isola di Zapara e la costa di Capatarida, entrando nel golfo di Maracaybo.

Quantunque i due filibustieri avessero incontrate due grosse caravelle da guerra ed anche un galeone, nessuno li aveva disturbati, né avevano chiesto loro chi erano e dove si recavano.

Le reti che tenevano lungo i bordi, dovevano aver fatto supporre agli spagnoli che fossero dei tranquilli pescatori e perciò nessuno si era preso la briga di fermarli.

Appena giunti fuori dallo stretto, Carmaux e Wan Stiller misero la prora verso l’est, tenendosi un po’ lontani dalla costa, essendo quella cosparsa di bassifondi, dai quali sorgevano ancora in buon numero dei villaggi di caraibi.

Anche in quel luogo si vedevano galleggiare moltissime grosse zucche, fra le quali nuotavano e giuocherellavano un bel numero di anitre e di gallinelle acquatiche, senza manifestare alcuna paura per quei galleggianti.

«Dimmi un po’, Carmaux» disse Wan Stiller. «Servono a nutrire i pesci tutte quelle zucche? Ne sai qualche cosa tu?»

«No, servono a prendere gli uccelli acquatici, mio caro amburghese».

«Scherzi?»

«Parlo da senno. Come tu sai tutti gli uccelli marini sono assai diffidenti e non si lasciano quasi mai accostare dalle scialuppe. I caraibi gettano dunque un gran numero di zucche che sono legate le une alle altre, con liane lunghissime, per abituare i volatili alla loro presenza. Quando credono giunto il buon momento, degli abili nuotatori si gettano in acqua, colla testa cacciata entro una zucca nella quale prima praticano alcune aperture per poter vedere liberamente».

«Comprendo» disse Wan Stiller, ridendo. «Protetti dalla zucca s’avvicinano ai volatili e li tirano sott’acqua».

«Precisamente» rispose Carmaux, «e ti posso dire anche che fanno delle caccie abbondanti e che non tornano mai ai loro villaggi senza portare, appesi alla cintura, otto o dieci volatili. Quando poi…»

Uno sternuto sonoro gl’interruppe la frase. Don Raffaele aveva aperti gli occhi, e faceva sforzi disperati per alzarsi e per rompere i legami che gli imprigionavano le mani ed i piedi.

«Buon giorno, señor» disse Carmaux. «Pare che fosse veramente di prima qualità, quell’Alicante».

Il disgraziato piantatore lo guardò con due occhi strambuzzati, poi digrignando i denti, disse con voce rauca:

«Siete due malandrini».

«Malandrini! Oibò! V’ingannate, señor» rispose Carmaux. «Siamo più galantuomini di quello che credete e potrete persuadervene frugando le vostre tasche, appena vi avremo sciolte le mani.

«Che cosa volete dunque da me? Perché m’avete rapito? Suppongo che non mi ripeterete la storiella del signor presidente dell’Udienza reale di Panama».

«Veramente quel signore non c’entra più» disse Carmaux. «Vi condurremo però dinanzi ad una persona che è non meno potente e che del pari non scherza».

«Chi è costui?»

«Un altissimo personaggio, che pare s’interessi assai della sorte della figlia del Corsaro Nero e che farà di tutto per salvarla».

«Toglierla al governatore!… Eh, via, quell’uomo non se la lascerà sfuggire».

«La vedremo, quando i cannoni smantelleranno le fortezze di Maracaybo» rispose Carmaux. «Venti anni or sono quegli stessi pezzi hanno spazzato via la guarnigione».

Don Raffaele era diventato spaventosamente pallido.

«Sareste dei filibustieri, voi?» chiese con voce strozzata.

«Per servirvi, señor».

«Misericordia!… Sono un uomo morto!…»

«Non mi sembra, almeno per ora» disse Carmaux, ironicamente.

«Chi è il vostro capo?»

«Morgan».

«L’antico luogotenente del Corsaro Nero!… Il vincitore di Portobello?»

«Lo stesso».

«Povero me!… Povero me!…» sospirò il disgraziato.

«Oh! Non spaventatevi tanto, señor» disse Carmaux. «Il capitano Morgan non ha mai mangiato alcuno e passa per un buon gentiluomo».

«Sì, un gentiluomo che ha fatto massacrare tutti i frati e tutte le monache di Portobello».

«Già, è l’inferno che ci ha vomitati» disse l’amburghese ridendo. «Così almeno dicono i vostri frati.

«Señor, lasciate andare le vostre collere, e accettate un crostino. Abbiamo qui un po’ di biscotto, una bella anitra arrostita ieri mattina e anche un paio di bottiglie di vino spagnolo, che non varranno meno di quelle del taverniere.

«È poca cosa per un signore pari vostro, ma per il momento non abbiamo di meglio da offrirvi».

Carmaux trasse dalla cassa le provviste, ne fece tre parti uguali e slegò le braccia al prigioniero, dicendo:

Don Raffaele, a cui la brezza marina aveva messo indosso un certo appetito, pur brontolando e roteando gli occhi, si mise a mangiare e non rifiutò un paio di bicchieri di Porto offertigli con gentilezza un po’ ironica da Carmaux, né un eccellente sigaro di tabacco di S. Cristoforo regalatogli dall’amburghese.

A mezzodì la baleniera si trovava già nelle acque del golfo Caro, formato da una parte dalla costa venezuelana e dall’altra dalla penisola di Paraguana.

L’amburghese, che teneva sempre il timone e che si regolava su di una bussola tascabile, mise la prora verso il capo Cardon, che già si delineava vagamente sull’orizzonte.

Il golfo era deserto, poiché di rado le navi spagnole ardivano spingersi lontane dai porti ben difesi, se non erano in buon numero e per lo meno scortate da qualche nave d’alto bordo, per paura di venire catturate dai terribili corsari della Tortue.

La baleniera continuò tutto il giorno ad inoltrarsi verso settentrione, favorita da una brezza sempre fresca e dalle acque che erano appena mosse. Nel momento in cui il sole tramontava, giungeva dinanzi alla baia d’Amnay, rifugio in quell’epoca affatto disabitato e molto di rado frequentato dalle navi, che non vi cercavano un approdo se non in causa di qualche violentissima tempesta.

«Ci siamo» disse Carmaux, volgendosi verso don Raffaele.

Il disgraziato piantatore, che dopo la colazione si era chiuso in un ostinato silenzio, sospirò a lungo, senza rispondere.

La scialuppa manovrò per alcuni minuti in mezzo ad alcune catene di scoglietti a fior d’acqua, poi si cacciò arditamente nella baia, alla cui estremità si vedevano delle masse oscure sormontate da alte alberature ed antenne.

«Che cosa sono? Delle navi?» chiese don Raffaele che erasi fatto smorto.

«È la flotta del capitano Morgan» rispose Carmaux.

«Una flotta?»

«Che farà buona prova contro i forti di Maracaybo».

Dietro una punta rocciosa era comparsa improvvisamente una grossa fregata, che si trovava ancorata dinanzi alle altre navi, in modo da sbarrare l’entrata della baia,.

«Ohè!» gridò Carmaux, facendo portavoce colle mani.

«Chi vive?» gridò una voce alzatasi sul ponte della nave.

 

«Fratelli della Costa: Carmaux e Wan Stiller. Calate la scala!»

La baleniera accostò la nave sotto il tribordo e si ormeggiò all’estremità della scala di corda, che era stata subito gettata dagli uomini di guardia.

«Señor, coraggio» disse Carmaux, sciogliendo le corde che stringevano le gambe del piantatore.

«Sì, ne avrò per morire» disse don Raffaele con voce cupa.

Quantunque si sentisse tremare le gambe, si aggrappò alla scala e dopo una mezza dozzina di sospiri, gli uni più profondi degli altri, si trovò sulla nave ammiraglia della flotta corsara.

Alcuni uomini, armati fino ai denti e muniti di lanterne, accorsero subito circondandolo e guardando con viva curiosità.

«Il capitano?» chiese Carmaux.

«È nella sua cabina».

«Fate chiaro. Venite, señor e non tremate tanto».

Prese il piantatore per un braccio e, parte spingendolo e parte tirandolo, lo condusse nel quadro, introducendolo in un salotto che era illuminato da una lampada d’argento e che aveva le pareti coperte d’armi da fuoco e da taglio.

Un uomo di mezza età, di statura piuttosto bassa, ma robustissimo, dall’aspetto fiero, cogli occhi nerissimi e vivaci, stava seduto dinanzi ad un tavolo tenendo dinanzi a sé delle carte marine, che stava esaminando con profonda attenzione.

Vedendo entrare i due uomini s’alzò quasi di scatto, chiedendo:

«Che cosa mi porti, mio bravo Carmaux?»

«Un uomo, signore, che potrà dirvi quanto desiderate sapere sulla figlia del cavaliere di Ventimiglia».

Una rapida emozione alterò per un istante i fieri lineamenti del terribile corsaro.

«È là, è vero?» chiese a Carmaux.

«Sì, capitano».

«Nelle mani degli spagnoli?»

«Prigioniera del governatore».

«Grazie, Carmaux: esci e lasciami solo con quest’uomo».

Capitolo quarto. Morgan

Morgan, dopo la scomparsa del suo comandante, il Corsaro Nero, non aveva abbandonato il golfo del Messico, né i filibustieri della Tortue.

Dotato d’una forza d’animo straordinaria, d’un coraggio a tutta prova e di larghe vedute, non aveva tardato a farsi largo fra i Fratelli della Costa, i quali si erano ben presto accorti che quell’uomo avrebbe potuto condurli a grandi imprese.

Possessore ancora d’una discreta fortuna, raccolti gli avanzi dell’equipaggio della Folgore, si era subito messo in mare, accontentandosi dapprima di assalire le navi isolate, che commettevano l’imprudenza di solcare senza scorta, le acque di San Domingo e di Cuba.

Quella crociera, più pericolosa che fruttifera, durava daparecchi anni con varia fortuna, quando gli venne offerto il comando di una squadra composta di dodici navi fra grosse e piccole, con un equipaggio di settecento uomini, per tentare qualche grossa impresa a danno degli spagnoli.

Morgan non aspettava che l’occasione di aver forze sufficienti, per realizzare i suoi grandiosi progetti.

Salpò quindi dalla Tortue annunciando che va ad assalire Puerto del Principe, una delle più ricche e anche delle meglio difese città dell’isola di Cuba.

Un prigioniero spagnolo che era a bordo della sua flotta, con un coraggio temerario si gettò in acqua e, riuscito a prendere terra, corse ad avvertire il governatore di quella città del pericolo che la minacciava.

Il governatore aveva sottomano ottocento soldati valorosissimi e sapeva di poter contare sulla popolazione.

Marciò sui corsari ed impegnò un disperato combattimento, ma dopo quattro ore i suoi soldati volgono in fuga, lasciando sul campo di battaglia fra morti e feriti più di tre quarti di loro.

Lo stesso governatore era caduto.

Morgan, imbaldanzito della vittoria, assaltò la città e, nonostante la difesa opposta dagli abitanti, se ne impadronì e la saccheggiò con poco profitto però, perché gli abitanti avevano avuto tempo di nascondere nei boschi le loro migliori cose.

Saputo da una lettera che era stata intercettata, che un grosso corpo di spagnoli accorreva da Santiago per cacciarli dalla città, i filibustieri si guastarono col loro capo, che accusavano di averli condotti ad una impresa più pericolosa che fruttifera.

Una rissa nata fra i marinai francesi ed inglesi, che formavano gli equipaggi fece nascere una viva discordia. I primi si separarono da Morgan; i secondi invece, che disponevano di otto navi, giurarono di seguirlo ovunque egli volesse condurli.

Si parlava molto in quell’epoca dell’opulenza di Portobello, una delle più belle città dell’America centrale, che riceveva tesori immensi da Panama, ma che era anche una delle meglio fortificate e delle meglio guardate.

Nella mente audace di Morgan, nasce l’idea di piombare su quella città e di tentarne l’espugnazione.

Quel progetto sembrava così temerario che i filibustieri crollarono la testa quando li avvertì del suo disegno.

«Che importa» disse allora il fiero corsaro, «se piccolo è il nostro numero, quando grandi sono i nostri cuori?»

Come resistere a quell’uomo? E la squadra, fidando nell’abilità del suo ammiraglio, veleggiò verso Portobello. Era l’anno 1668.

Morgan approdò di notte a qualche miglio dalla città; lasciò un piccolo numero a guardia dei legni; fece salire il grosso sulle scialuppe ed i filibustieri s’accostarono silenziosamente ai forti.

Quattro marinai che servivano da perlustratori, s’impadronirono d’una sentinella spagnola e la portano a Morgan, il quale riuscì a ottenere le notizie che gli erano necessarie per predisporre l’assalto.

Poi la fece condurre sotto uno dei forti perché invitasse la guarnigione ad arrendersi, se non voleva essere tagliata a pezzi.

Portobello aveva due castelli, ritenuti da tutti inespugnabili, presidiati ognuno da trecento soldati e armati di un buon numero di cannoni. Morgan assaltò il primo, dopo un sanguinoso combattimento vi penetrò alla testa dei suoi, rinchiuse la guarnigione in un recinto, mise una miccia al magazzino delle polveri e fece saltare spagnoli e castello insieme!…

Lieti di quel primo ed insperato successo, i filibustieri corsero verso la città, per assalire il secondo ma vennero accolti da un fuoco così terribile, che cominciarono a dubitare dell’esito dell’ardita impresa.

Morgan fece uscire dai conventi e dalle chiese tutti i frati e tutte le monache e procuratesi dodici lunghe scale, li obbliga a piantarle essi medesimi nei fossati, servendosi di loro come di baluardo per proteggere i propri uomini.

Gli spagnoli, sordi alle grida strazianti dei monaci e delle monache, fermi nel volersi difendere, non cessarono il fuoco, e fecero una strage completa di quei miseri e di quelle disgraziate.

Nondimeno i filibustieri non si perdettero ancora d’animo, riuscirono a salire sulle mura, allontanando con granate i difensori e si impadronirono anche del secondo castello.

La lotta non era però ancora finita, poiché un terzo forte dominava la città ed era quello on cui si era rinchiuso il governatore.

Morgan intimò la resa, promettendo al presidio salva la vita. L’intimazione ebbe per risposta una salva di cannonate.

I filibustieri, che sono ormai risoluti a tutto, non ostante le perdite tremende che subivano, e l’eroica difesa del presidio, scalarono anche quelle mura colla sciabola alla mano e, incredibile a dirsi, riuscirono a prendere anche il terzo castello. Il governatore e tutti gli ufficiali vi avevano lasciata la vita. I superstiti furono risparmiati.

Così in un solo giorno quel terribile corsaro, senza artiglierie e con quattrocento soli uomini, riusciva a espugnare una delle più cospicue città dell’America, che era l’emporio maggiore delle colonie spagnole dopo Panama, in fatto di metalli preziosi.

Il bottino fu immenso; eppure Morgan ebbe ancora l’audacia di mandare due prigionieri al presidente dell’Udienza Reale di Panama, coll’incarico di chiedergli cento mila piastre per il riscatto della città!…

Quel presidente aveva millecinquecento uomini. Andò per scacciare i corsari e… fu battuto e costretto a tornarsene sulle rive dell’Oceano Pacifico!… Però, sperando di ricevere nuovi rinforzi, intimò a Morgan di lasciare la città.

Morgan gli rispose che se non la riscattava l’avrebbe incendiata e avrebbe ucciso tutti i prigionieri. E le centomila piastre furono mandate.

Il riposo non era fatto per l’allievo del Corsaro Nero.

Risvegliatasi in Europa la guerra contro la Spagna, nel 1669, chiese patente di corso al governatore della Giamaica, il quale non solo gliela accordò, ma gli offerse anche il comando di un vascello di trentasei cannoni, perché assalisse le colonie spagnole.

Morgan andò ad incrociare nelle acque di San Domingo, con la speranza di fare grossi bottini, ma la nave gli saltò in aria con trecento dei suoi uomini, ed egli si salvò per miracolo.

Il fuoco alle polveri era stato impiccato da alcuni francesi che aveva fatto incatenare, perché si erano messi ai servigi della Spagna a danno degl’inglesi.

Avendo però costoro un vascello poderoso come quello che gli era stato affidato dal governatore della Giamaica, Morgan coi marinai superstiti se ne impadronì e tornò trionfante alla Tortue per organizzare una grossa spedizione.

Già aveva radunati parecchi legni montati da ben novecento filibustieri e si preparava a rivolgersi verso le città del Venezuela che promettevano ricchi saccheggi, quando si sparse la voce che la figlia del suo antico capitano, del Corsaro Nero, era giunta nelle acque del Golfo del Messico e che gli spagnoli l’avevano catturata, per vendicarsi del male che aveva fatto suo padre, diciassette anni prima, ai possedimenti del grande Carlo V.

Come abbiamo già detto, Morgan non aveva più avuto notizie del terribile corsaro. Solo aveva molti anni prima ricevuto un anello che recava le armi intrecciate dei signori di Ventimiglia e di Roccabruna e dei duchi di Wan Guld, lo stemma della donna che amava e solo delle vaghe voci erano giunte, a lunghi intervalli, alla Tortue, sparse da filibustieri provenzali e savoiardi, che asserivano essersi quell’intrepido gentiluomo ritirato nei suoi castelli del Piemonte, dopo aver sposata la figlia del suo implacabile nemico.

Un marinaio olandese, che montava la nave catturata dagli spagnoli e nella quale si trovava la figlia del Corsaro Nero, sfuggito miracolosamente alla rabbia degli assalitori, aveva portato alla Tortue la notizia del suo arrivo in America e della sua cattura, provocando una enorme sensazione fra i filibustieri, che non avevano ancora scordato il fiero cavalier di Ventimiglia, che per tanti anni li aveva condotti alla vittoria.

Soprattutto Morgan, che conservava una vera venerazione per il suo antico capitano, era stato profondamente colpito. Fino allora aveva ignorato che il Corsaro Nero avesse avuto dal suo matrimonio una figlia e che fosse morto sulle Alpi in difesa del suo forte Piemonte e dei Duchi Savoiardi.

Fatto cercare il marinaio olandese e avuta la conferma che sulla nave catturata si trovava realmente la figlia del suo capitano, apprese che era stata condotta prigioniera a Maracaybo. Allora non ebbe più che una sola idea: andare a salvarla, a costo di devastare tutte le città spagnole del Venezuela.

La proposta, fatta ai filibustieri della squadra, gente ruvida e feroce se vogliamo, ma di gran cuore, era stata senz’altro accettata e le navi erano salpate, mettendo risolutamente la prora al sud.

Disgraziatamente una fiera tempesta le aveva assalite, prima di avvistare le coste venezuelane, disperdendole in varie direzioni, e di quindici, solamente otto erano riuscite a rifugiarsi nella baia di Amnay. Di là Morgan aveva inviati Wan Stiller e Carmaux, i due marinai fidati del Corsaro Nero, a Maracaybo per avere notizie più precise sulla sorte toccata alla figlia del gentiluomo piemontese o perché gli portasse qualche prigioniero che gli fornisce più dettagliate informazioni…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Uscito Carmaux, Morgan si era messo ad osservare con un certo interesse il piantatore, che si teneva appoggiato ad una parete, pallido come un cencio di bucato e tremante come se avesse la febbre terzana.

«Voi siete?» gli chiese finalmente, con voce secca.

«Don Raffaele Tocuyo, señor capitano».

«È vero che la figlia del cavaliere di Ventimiglia, o meglio del Corsaro Nero, è prigioniera a Maracaybo?»

«L’ho udito a raccontare».

«Dove si trova?»

«Nelle mani del governatore: l’ho già detto ai vostri uomini».

«Narratemi quanto sapete».

Il piantatore, con voce tremante, non si fece pregare e gli raccontò quanto aveva già detto ai due filibustieri che lo avevano fatto prigioniero.

«È tutto?» chiese Morgan, piantandogli addosso uno sguardo scrutatore.

 

«Lo giuro, capitano».

«Non sapete dove si trova rinchiusa?»

«No, ve lo assicuro» rispose don Raffaele, dopo un po’ di esitazione che non isfuggì al corsaro.

«Eppure un uomo che frequenta la casa del governatore, dovrebbe saperne di più».

«Non sono il suo confidente».

«È giovane la figlia del Corsaro?»

«Mi hanno detto che non deve avere più di sedici anni e che somiglia a suo padre».

«Di quali forze dispone il governatore di Maracaybo?»

«Ah!… Signore…»

Morgan corrugò la fronte ed un lampo minaccioso brillò nei suoi occhi nerissimi.

«Non sono abituato a ripetere la medesima domanda» disse con voce breve e tagliente come la lama d’una spada.

Batté le mani e Carmaux e Wan Stiller, che dovevano essersi messi di guardia nella corsìa, furono pronti ad entrare.

«Conducete sul ponte quest’uomo» disse Morgan.

«Che cosa volete fare di me, signore?» chiese don Raffaele spaventato. «Io sono un povero uomo inoffensivo».

«Lo saprete subito».

I due filibustieri lo presero per le braccia e lo condussero in coperta. Morgan li aveva seguìti.

Gli uomini di guardia vedendo comparire il comandante erano accorsi portando parecchie lanterne.

«Un cappio dal pennone d’artimone» disse loro Morgan, a mezza voce.

Un marinaio salì sulle griselle, scomparendo in mezzo alla velatura.

«Parlerete ora?» chiese Morgan, volgendosi verso il prigioniero, che era stato collocato presso l’albero di mezzana.

Don Raffaele non rispose. Il buon sangue spagnolo si era ridestato in lui e non si sentiva l’animo di commettere un tradimento.

Ad un tratto vacillò e mandò un urlo terribile.

Un gherlino era sceso silenziosamente dall’alto e Carmaux, ad un cenno di Morgan, aveva gettato al collo del piantatore il cappio, dandogli una stretta.

«Issa!» gridò Morgan.

«No… no… dirò tutto!» urlò il piantatore, portandosi le mani al collo.

«Vedete che ho degli argomenti irresistibili» disse il corsaro, ridendo ironicamente.

«Vi sono seicento soldati» disse don Raffaele, precipitosamente.

«È vero che il forte della Barra lo si giudica imprendibile?»

«Così si dice».

Morgan alzò le spalle.

«Anche quelli di Portobello si ritenevano inespugnabili, eppure li abbiamo presi» disse. «Voi mi assicurate che la figlia del cavalier di Ventimiglia è la?»

«Lo ripeto».

«Voi tornerete questa notte istessa a Maracaybo con una lettera per il governatore. Badate che io saprò trovarvi e punirvi se non eseguirete ciò che vi dico. Qui una lanterna».

Strappò da un libbriccino una pagina, si levò da una tasca una matita, s’appoggiò alla murata e scrisse alcune righe.

«Cacciatevi bene queste parole nel vostro cervello onde possiate ripeterle al governatore, nel caso che smarriste il biglietto» disse poi, rivolgendosi a don Raffaele.

«Al signor Governatore di Maracaybo.

«Vi accordo ventiquattr’ore per mettere in libertà ed inviarmi la figlia del cavaliere di Ventimiglia e della duchessa di Wan Guld, il cui padre fu un tempo governatore di Maracaybo e suddito spagnolo.

«Se non obbedite, spianerò la città e se occorre anche quella di Gibraltar.

«Rammentatevi di ciò che hanno saputo fare i filibustieri guidati dal Corsaro Nero, da Pietro l’Olonese e da Michele il Basco, diciott’anni or sono.

Morgan

«Almirante della squadra della Tortue».

«Carmaux, fa preparare una scialuppa montata da otto uomini ed inalberare la bandiera bianca. Condurranno questo señor a Maracaybo».

«Dobbiamo accompagnarli io e Wan Stiller?»

«Avete bisogno di riposo: restate a bordo. Andate señor e badate che la vostra pelle è ormai segnata. Sta in voi a salvarla».

Ciò detto tornò nella sua cabina, mentre il povero piantatore scendeva nella scialuppa che era stata già calata in acqua.