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Il figlio del Corsaro Rosso

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Quando si svegliarono, le loro vesti erano perfettamente asciutte ed il sole già molto alto.

La piantagione era sempre deserta, non essendo ancora giunto il momento di procedere al taglio della preziosa canna.

– Andiamo a fare una prima esplorazione in città, – disse il conte. – Voglio assicurarmi se veramente il consigliere abita là dove ci ha indicato la bella castigliana. Siate prudenti e non commettete gradassate: lo dico specialmente a voi, don Barrejo.

– Sí, prometto di essere tranquillo come un agnello dei Pirenei, – rispose il guascone.

– No, come un montone, – disse Mendoza.

– Vada anche pel montone!…

CAPITOLO X. IL CONSIGLIERE DELL’UDIENZA REALE

Fatta un po’ di toelette, per non sembrare dei veri straccioni, il conte ed i tre avventurieri lasciarono la piantagione, seguendo la riva destra dell’impetuoso fiumicello che aveva servito loro per sfuggire alle guardie della Capitaneria.

Panama si stendeva dinanzi a loro a perdita d’occhio, colle sue superbe chiese e coi suoi magnifici palazzi, formando un gigantesco semicerchio intorno alla meravigliosa baia.

Distrutta da Morgan, la città non aveva tardato a risorgere dalle sue rovine, piú bella e piú vasta di prima. Era stata però ricostruita alcune leghe piú al sud, in una pianura infinitamente piú salubre della prima e anche piú spaziosa, ed il suo porto aveva acquistato una prosperità che tutte le città marittime del centro d’America, del Perú, della Bolivia e del Chili le invidiavano.

Quantunque minacciata continuamente dai filibustieri, sempre in agguato sull’Oceano Pacifico, squadre di velieri e di galeoni giungevano dai porti del sud, portando ricchezze incalcolabili e soprattutto i prodotti delle inesauribili miniere d’oro del Perú e anche di quelle d’argento e non meno inesauribili della California e del Messico.

I tre avventurieri ed il conte, fatta colazione in una fonda, ossia in una piccola trattoria d’una delle innumerevoli borgate della città, le quali s’allungavano in mezzo a floridissime piantagioni, s’avviarono verso i quartieri signorili della città, fingendosi tranquilli borghesi a passeggio.

Mendoza, come sempre, li guidava, essendo pratico della città. Pranzarono in un’altra fonda, non osando ancora accostarsi alla posada tenuta dalla bella castigliana, perché poteva ancora essere guardata da qualche manipolo di guardie e, calata la sera, s’avviarono verso l’immensa piazza dove sorgevano il palazzo del viceré, la cattedrale ed i palazzi dei consiglieri dell’Udienza Reale di Panama.

– Signor conte, – disse il guascone, mentre s’incamminavano verso l’abitazione di don Juan de Sasebo, – verremo noi ricevuti da quel signore? Un Consigliere dell’Udienza Reale deve essere un pesce-cane grossissimo.

– Ci pensavo in questo momento, – rispose il figlio del Corsaro Rosso.

– Suppongo che non avrete l’idea di farvi annunciare pel conte di Ventimiglia, signore di Roccabruna e di Valpenta.

– Sarebbe come mettermi una corda al collo.

– È necessario trovare qualche scusa.

– Voi che siete guascone e che avete sempre delle trovate splendide, gettatene fuori una.

– L’ho qui nel cervello, – rispose don Barrejo.

– Spiegatevi dunque.

Il guascone si fermò a guardare il conte, poi gli disse:

– E perché non potremmo noi farci annunciare come messi dell’Illustrissimo Presidente dell’Udienza Reale di Panama, incaricati di fare ai consiglieri delle gravissime rivelazioni?

– Su che cosa?

– Sui progetti dei filibustieri, per esempio.

– Voi avete una fantasia meravigliosa.

– Me lo diceva anche mio padre, predicendomi che avrei fatto una grande fortuna. Credo però, fino ad oggi, di aver dato piú stoccate che guadagnate piastre. Mio padre era troppo vecchio, povero uomo e non ci vedeva piú bene.

– Non avete ancora terminata la vostra carriera, – disse Mendoza. – Invece di arruolarvi sotto gli spagnuoli di San Domingo, dovevate correre il mare coi filibustieri del Golfo del Messico.

– Avete ragione, signor basco. Sono stato un imbecille però spero di rifarmi.

Erano giunti sulla immensa piazza della cattedrale. Da una parte giganteggiava il marmoreo palazzo del viceré; dall’altra s’alzava una lunga fila di palazzi, abitati dai pezzi grossi del governo, e dinanzi ai portoni, guardati da un paio di alabardieri negri, brillavano delle immense lanterne.

Il guascone afferrò per una manica il primo soldato che attraversava la piazza, chiedendogli ove abitava il Consigliere don Juan de Sasebo.

– Quel portone, là, di fronte a voi, – rispose lo spagnuolo.

Venite dal Chili o dal Perú voi, per non sapere ove abita un personaggio cosí importante?

– Veniamo dal Messico, il paese degli ignoranti, – ripicchiò il guascone, un po’ seccato.

Il soldato si strinse nelle spalle e proseguí il suo cammino, borbottando:

– Questi avventurieri del Messico si sono incretiniti, bevendo troppo metzcal.

Fortunatamente il terribile’ guascone non l’aveva udito.

Il conte ed i suoi spadaccini si erano diretti verso il palazzo del Consigliere dell’Udienza Reale di Panama e si erano presentati ai due negri che passeggiavano dinanzi e indietro sulla gradinata.

– Il vostro padrone è in casa? – chiese il conte.

– Sta lavorando nel suo gabinetto.

– Andate ad avvertirlo che ho una comunicazione importantissima da fargli, da parte dell’illustrissimo signor Presidente dell’Udienza Reale. Dieci piastre per voi se fate presto.

Uno dei due negri si slanciò come un giaguaro su per la superba gradinata, allettato da quel premio che non doveva guadagnare troppo spesso.

Non era trascorso un minuto che ridiscendeva, saltando i gradini a quattro a quattro, col pericolo di fiaccarsi il collo.

– Seguitemi, caballero, – disse. – Il signor Consigliere vi aspetta.

Il conte sborsò le dieci piastre e salí lo scalone, sempre seguito dai suoi avventurieri.

Attraversate parecchie sale, furono introdotti in un gabinetto illuminato da due giganteschi doppieri d’argento ed ammobiliato con severa eleganza.

Un uomo d’aspetto distinto, sulla quarantina, con una barba nerissima che faceva spiccare vivamente il candore dell’altissimo colletto stocchettato che usavano in quell’epoca i grandi personaggi, passeggiava pel gabinetto, battendo a terra, con una certa nervosità, la punta della guaina della sua spada.

Il conte si era levato il feltro, facendo nel medesimo tempo un leggiero inchino. I tre spadaccini avevano fatto altrettanto, poi si erano appoggiati contro la porta che avevano subito chiusa, per impedire l’entrata a chicchessia.

– Siete voi don Juan de Sasebo? – chiese il conte.

– In persona, – rispose il Consigliere. – Mi hanno detto che voi avete da comunicarmi delle notizie preziose da parte del Presidente dell’Udienza Reale.

È vero, signore.

Parlate, però… – disse, indicando i tre avventurieri.

Vi dirò poi chi sono, – rispose il conte. – Possono assistere al nostro colloquio.

– Allora parlate.

– Sapete che il marchese di Montelimar è stato fatto prigioniero dai Corsari del Pacifico?

– Avete detto? – gridò il Consigliere, impallidendo.

– Che è stato preso a Nuova Granata.

– È stata espugnata quella città?

– Dopo sei ore di combattimento.

– Malgrado il suo robustissimo forte?

– Nulla resiste ai filibustieri, lo sapete bene.

– Sí, sono veri figli dell’inferno, – disse il Consigliere, con collera.

– Lo credo anch’io, don Sasebo.

– Ed ora?

– Sono venuto a dirvi di mettere al sicuro la nipote del Gran Cacico del Darien.

– Per ordine di chi?

– Del marchese, don Sasebo, – rispose il conte.

– Avete veduto il mio disgraziato amico? – chiese il Consigliere, in preda ad una vivissima emozione.

– L’ho lasciato ventiquattro ore fa…

– Dove?

– All’isola Taroga.

Eravate caduto anche voi fra le unghie di quei ladroni?

Sí, signor Consigliere.

E siete riuscito a fuggire?

Ho avuto questa fortuna e questi tre uomini mi hanno aiutato validamente. Senza di loro io non sarei qui.

Erano anche essi prigionieri?

Sí e sono tre nobili di Nuova Granata.

E perché il marchese non ha potuto seguirvi? – chiese il Consigliere.

t, strettamente sorvegliato.

Poteva riscattarsi. Io sarei stato pronto a pagare a quei ladroni di mare anche cinquantamila piastre, se le avessero chieste.

– E le avrebbero senza dubbio accettate, se un uomo non vi si fosse opposto.

– Chi?

– Il figlio del Corsaro Rosso, il conte di Ventimiglia.

Don Sasebo aveva mandato un grido.

– Il figlio del famoso corsaro e nipote dei non meno famosi corsari, il Nero ed il Verde, è giunto in America?

– Sí, signor Consigliere.

– Che cosa è venuto a fare qui?

– A cercare sua sorella, la nipote del Gran Cacico che vi è stata affidata.

– Come lo sapete voi?

– Me lo ha detto il marchese.

– E che cosa vorrebbe il conte, per rimettere in libertà il mio povero amico?

– La restituzione di sua sorella.

– E se non si trovasse piú presso di me?

Questa volta fu il signor di Ventimiglia che divenne pallido.

– Possibile! – disse poi. – Il marchese mi aveva assicurato che si trovava con voi.

– Infatti vi era.

– Ed ora?

Invece di rispondere, il Consigliere chiese:

– Credete voi possibile, signore, la liberazione del marchese?

– E come?

– Voi conoscete l’isola di Taroga, giacché m’avete detto poco fa che ci siete stato come prigioniero.

– È verissimo, – rispose il conte, il quale si teneva in guardia, non sapendo dove voleva finire il Consigliere.

– Non potreste assoldare, a mie spese, una dozzina di avventurieri, persone che a Panama non mancano, e tentare la liberazione del marchese?

 

– Ciò che voi mi proponete, signore, è una faccenda molto seria. I filibustieri vegliano e, se ci prendono, non ci risparmieranno.

– Io non conterò le piastre.

– Non voglio dirvi né sí, né no, signor Consigliere, – rispose il corsaro. – Trattandosi però d’una impresa cosí, desidererei che mi accordaste almeno ventiquattro ore per riflettere.

– Anche quarant’otto, se lo desiderate, – rispose don Juan de Sasebo.

– Tornerò domani sera, se non vi spiace, e vi darò una risposta affermativa o negativa. Nel caso che accettassi e che riuscissi a liberare il marchese, che cosa dovrò dirgli della fanciulla che vi ha affidata?

– Che è al sicuro.

– Ma dove? – insistette il conte.

– Non lo dirò che al marchese.

Il signor di Ventimiglia represse con grande fatica un gesto di collera.

– Ci rivedremo domani sera, – disse poi.

– Dove abitate?

– In una piccola posada dei sobborghi, che non so nemmeno come si chiami.

– Vi occorre del denaro?

– Pel momento no, signor Consigliere. Me ne darete se accetterò la vostra proposta.

Don Juan de Sasebo si era alzato, ciò che voleva significare che l’udienza era finita.

Il conte fece un profondo inchino e uscí insieme ai suoi tre spadaccini, non troppo soddisfatto di quel colloquio.

Non era forse ancora uscito dal palazzo, quando un servo entrò nel gabinetto, dicendo:

– Signore, vi è una persona che desidera vedervi.

– Ti ha detto chi è?

– Il signor marchese di Montelimar.

Il Consigliere aveva fatto un salto.

– Tu devi aver udito male.

– No, padrone, – rispose il negro.

– È impossibile che il mio amico sia giunto.

– Mi ha detto che è il marchese di Montelimar.

– Introducilo subito, subito.

Il servo uscí ed un istante dopo entrava, seguito dal marchese.

– Tu! – esclamò il Consigliere, correndogli incontro ed abbracciandolo. Non sogno io?

– No, amico, – rispose l’ex-governatore di Maracaibo. – Qualche volta si scappa anche ai filibustieri.

– E sei giunto solo da Taroga?

– Insieme ad una dozzina di prigionieri.

– Ed io che avevo impegnato un avventuriero per liberarti?

– Chi è?

– Quello che mi avevi mandato per aver notizie sulla nipote del Gran Cacico del Darien.

– Io! – esclamò il marchese. – Che cosa mi narri tu, don Juan?

– Come!… Non lo hai mandato?

– Io non ho dato a nessuno questo incarico, – rispose il marchese.

– Chi è dunque quell’avventuriero?

– Un uomo solo può avere interesse a sapere che cosa è avvenuto e dove si nasconde la nipote del Gran Cacico del Darien. Si trova sempre presso di te?

– No, – rispose il Consigliere.

– Dove l’hai mandata adunque?

– Da parecchie settimane corre qui voce che i filibustieri abbiano intenzione di tentare un audace colpo di mano sulla città e sapendo io, che mi trovavo a Panama quando la presero d’assalto, di quanto siano capaci quei terribili ladroni di mare, l’ho fatta condurre, sotto buona scorta, a Guayaquil, una città che non si può prendere facilmente.

– E hai fatto bene, – rispose il marchese, – poiché un giorno quella fanciulla varrà milioni e milioni di piastre, che intendo d’intascare io. Se poi il figlio del Corsaro Rosso la vorrà, se la prenda pure senza piastre.

– Che cosa mi narri tu, amico?

– È l’unica crede delle favolose ricchezze del Gran Cacico e, quando il vecchio sarà morto, diventerà la padrona di montagne d’oro, che si dice siano nascoste in caverne note solamente agli intimi del selvaggio monarca.

– È dunque ancora vivo il Gran Cacico?

– E gode ottima salute, malgrado i suoi ottanta o novant’anni.

– Tu dunque credi che quell’avventuriero?…

– Non sia altri che il signor di Ventimiglia, – rispose il marchese. – Un bell’uomo, giovane ancora, vero tipo d’italiano, coi capelli e baffi neri, la pelle leggiermente abbronzata…

– Sí, è lui! – esclamò il Consigliere.

– Era accompagnato da tre uomini?

– Sí, tre figure di spadaccini.

– Le sue anime dannate. Tornerà qui?

– Domani sera.

– Al mio posto che cosa faresti, don Juan?

– Lo farei arrestare ed appiccare al piú presto.

Il marchese scosse il capo.

– No, – disse poi. – Si verrebbe a sapere che la bella indiana che io ho adottata è la figlia del Corsaro Rosso; si potrebbe anche venire a sapere che io ho un motivo per tenerla presso di me e molte altre cose ancora. No; si può spacciarlo senza rumore.

– Che cosa vuoi dire, amico?

– Non avresti sottomano qualche terribile spadaccino? Uno famoso veh, perché si dice che il conte sia una lama terribile. Un agguato, una disputa, una buona stoccata ed eccomi sbarazzato da quell’importuno.

Il Consigliere pensò un momento, poi disse:

– L’ho trovato.

– Chi è?

– Lo chiamano: El Valiente, ma pare che sia un avventuriero dell’Europa centrale, poiché massacra orribilmente la nostra lingua. Mi sono servito di lui una volta, in una certa circostanza e non ho avuto da lagnarmi della sua abilità.

– Una lama scelta?

– Terribile.

– Costosa?

– Un cinquanta piastre.

– Ne darei anche mille, purché riuscisse ad abbattere il figlio del Corsaro Rosso.

– Tu dimentichi una cosa.

– Quale.

– Ed i tre avventurieri che accompagnano il conte?

– Troveremo un pretesto qualunque per trattenerli qui. Si potrebbe vedere questo Valiente?

Subito?

Se fosse possibile sarebbe meglio.

So dove abita: manderò un uomo a cavallo ad avvertirlo di venire subito.

Guardò l’orologio appeso al muro, uno di quegli orologi altissimi, chiusi in una cassa.

– Non sono che le nove, – disse. – Fra dieci minuti può essere qui, aspettami.

Il Consigliere uscí per dare gli ordini, poi rientrò, dicendo:

– Il messo è già a cavallo; intanto ceneremo, poiché m’immagino che avrai fame, caro amico.

– È da ieri sera che non mangio, – rispose il marchese.

Don Juan de Sasebo lo fece passare in un vicino salotto, ammobiliato con molto gusto e dove una tavola era pronta, con bellissimi piatti d’argento finemente cesellati.

Erano già alle frutta, quando un servo negro entrò, dicendo al Consigliere:

– Padrone, El Valiente è qui.

– Sei riuscito a scovarlo?

– In una taverna vicina alla sua catapecchia.

– Conducilo qui subito.

Il negro uscí rapidamente ed un momento dopo El Valiente si trovava dinanzi al marchese ed al Consigliere dell’Udienza Reale.

Era quell’uomo il vero tipo dell’avventuriero e spadaccino. Era un uomo alto, grosso, forte come un giovane toro, con lunghi capelli biondastri ed una barba invece rossastra, un naso che somigliava al becco d’un pappagallo e due occhi grigiastri che avevano il lampo dell’acciaio.

Alla cintura portava una spada francese, lunga e sottile ed uno di quei pugnali chiamati: misericordie.

– Mi avete fatto chiamare, Eccellenza? – chiese, facendo un goffo inchino e levandosi il feltro adorno d’una lunga penna di struzzo, ormai rosa dal tempo e dalle intemperie.

– Sí, perché ho ancora bisogno di voi, – rispose il Consigliere.

– Qualche altra persona vi darebbe noia?

– Precisamente.

– Si manda allora all’inferno, – disse lo spadaccino. – Laggiú vi è posto per tutti.

– Anche per voi, – disse il marchese.

– Può darsi, Eccellenza, ma molto tardi, io spero.

– Badate però che l’uomo che dovete spacciare è un gentiluomo che ha il pugno molto saldo.

Un sorriso di sprezzo contorse le labbra del brigante.

– Ho mandato all’altro mondo non pochi gentiluomini, Eccellenza, e piú facilmente di quello che credete. Si vantano tutti famosi spadaccini ed invece non sono che dei pessimi dilettanti, incapaci di fare una buona cartocciata o di parare il colpo delle cento pistole.

– Un colpo famoso, a quanto si dice, – disse il marchese.

– Terribilissimo, Eccellenza. Se non si para, e si para assai difficilmente, si va diritti all’altro mondo, senza un minuto di ritardo. Dov’è l’uomo che devo spacciare?

– Correte troppo, Valiente, – disse il Consigliere.

– Quando devo dare delle stoccate ho sempre fretta, – rispose il bandito.

– Non ucciderete prima di domani sera, – disse il marchese.

– Si può pazientare per venti ore: cosí avrò il tempo di esercitarmi pel colpo delle cento pistole.

– Riuscirà?

– Pochi lo conoscono, Eccellenza. Solo i famosi spadaccini ne sanno qualche cosa.

– E quello è uno dei buoni.

Il bandito alzò le spalle.

– Bah!… Avrà da fare con me.

– Quanto il prezzo?

– Cinquanta piastre per anima, è la mia tariffa. Non lavoro mai per meno. I tempi sono pessimi e si guadagna poco anche ad ammazzare delle persone» rispose El Valiente.

– Ve ne offro invece mille, purché il gentiluomo domani sera sia morto.

Il Valiente corrugò la fronte, come presentisse un terribile pericolo.

– Che quel gentiluomo mi porti sventura? – si chiese. – Per pagarmi mille piastre, bisogna che quel signore sia veramente un formidabile spadaccino.

– Ve l’ho già detto prima che non avrete da fare con un dilettante disse il marchese.

– Ne ho ammazzati per lo meno venti. Che il ventunesimo deva mandarmi a tener compagnia a messer Diavolo? Io non lo credo. Quando devo venir qui?

– Domani sera, prima dell’Ave-Maria. Vi daremo le istruzioni necessarie.

– Sta bene, – rispose il bandito.

Fece un nuovo e piú goffo inchino, si gettò sulle spalle uno sdruscito sèrapè, che fino allora aveva tenuto sul braccio sinistro, e se ne andò tranquillo, come se avesse fatto un semplice affare commerciale.

– Quando lo farai appiccare? – chiese il marchese a don Juan de Sasebo. – Quel furfante meriterebbe almeno venti spanne di corda e molto solida.

– Quando non si avrà piú bisogno di lui, lo manderemo a tener compagnia a tutti i disgraziati che ha spediti all’altro mondo, – rispose il consigliere.

– Qualche volta anche questi briganti sono necessari.

– Amico, possiamo andare a riposarci.

CAPITOLO XI. L’AGGUATO D’«EL VALIENTE»

I ventisette campanili di Panama suonavano l’Ave-Maria, quando il conte di Ventimiglia, seguito dai suoi tre spadaccini, si presentò al palazzo di don Juan de Sasebo, Consigliere dell’Udienza Reale.

Dire che il corsaro fosse tranquillo sarebbe una bugia. Si sarebbe detto che per istinto presentiva un agguato.

Risoluto però a conoscere sua sorella, la nipote del Gran Cacico del Darien e, sicuro d’aver dietro di sé tre famose spade, capaci di caricare, senza paura, anche un’intera cinquantina di alabardieri, non aveva esitato a recarsi al pericoloso appuntamento.

Prima di entrare nel palazzo del Consigliere, si era fermato per interrogare Mendoza.

– Al mio posto, – gli chiese, – che cosa faresti tu?

– Io non metterei i piedi là dentro, – rispose il vecchio marinaio.

– E se quel Consigliere fosse un galantuomo?

Uhm! – fece il guascone. – Io temo, signor conte, che vi sia sotto questo affare un agguato.

– Abbiamo le nostre spade, – rispose il signor di Ventimiglia. Entriamo.

I due negri che guardavano il portone, armati di alabarde, lasciarono loro libero il passo, dopo d’aver chiamato una specie di maggiordomo che vegliava alla base dello scalone.

Il conte ed i suoi spadaccini furono subito introdotti nel gabinetto da lavoro del Consigliere.

Don Juan de Sascho stava seduto dietro il suo enorme scrittoio, fingendo di osservare delle pergamene.

– Ah!… Siete voi, signore? disse, alzando il capo e fissando sul conte uno sguardo acutissimo. Avete presa adunque la vostra decisione?

– Sí, signor Consigliere, – rispose il corsaro.

– Accettate di tentare la liberazione del marchese di Montelimar?

– Quando vorrete, io partirò, ad una condizione però.

– Quale.

– Oggi da alcuni miei amici io ho avuto l’assicurazione che la nipote del Gran Cacico del Darien è sempre in Panama.

– Continuate.

– Io non partirò, se prima non l’avrò veduta.

– Perché v’interessa tanto quella fanciulla?

– Ho da dirle qualche cosa da parte del marchese.

– Voi non mi avevate detto ciò ieri sera. Non vi avrei risposto evasivamente.

– Dunque, è vero che la fanciulla è qui?

– Non ve lo nego piú, – rispose il Consigliere.

– Potrò dunque, prima d’imbarcarmi, vederla?

– Non ho alcuna difficoltà; però, avendo quella giovane, non so per quale motivo, numerosi nemici i quali hanno già tentato piú d’una volta di rapirla, voi dovrete usare le piú grandi precauzioni. Io l’ho fatta nascondere in una casetta isolata che si trova presso la Punta Blanca. Non concederò quindi il permesso di andarla a vedere che a voi solo.

 

– I miei compagni sono fidati e segreti, signore.

– Io non mi fiderò che di voi solo, – rispose il Consigliere, con voce ferma. – Vi darò una guida, un uomo dabbene e saldo di pugno, il quale veglierà su di voi.

– E questi uomini?

– Andranno intanto a preparare la scialuppa. Ne avete arruolati altri?

– No, signore, – rispose il Corsaro. – Ho pensato che è meglio essere in pochi e risoluti, piuttosto che in molti, per una simile impresa. I filibustieri vegliano ed una grossa barca non potrebbe passare inosservata.

– Avete ragione ed apprezzo assai la vostra prudenza. Quando partirete?

– Possibilmente alla mezzanotte.

– Avete noleggiata la scialuppa?

– Non ancora.

– Presso la lanterna di Granata vi è un uomo che ne possiede molte. Con qualche decina di piastre, appoggiate dal mio nome, vi darà quella che crederete la migliore per la vostra impresa. I vostri uomini potranno aspettarvi là!

Il conte si volse verso Mendoza:

– Tu conosci quella località!

– Sí, signore, – rispose il basco.

– Vi raggiungerò il piú presto possibile.

Il Consigliere aveva levato da un cassetto una grossa borsa e l’aveva deposta sullo scrittoio, dicendo:

– Vi anticipo quaranta dobloni per le prime spese. Gli altri li avrete quando avrete liberato il marchese.

Il guascone fu lesto ad impadronirsi del piccolo tesoro.

– Ora andate voi ad aspettare il vostro capo, – disse il Consigliere.

– State in guardia, signor conte, – sussurrò il guascone al corsaro. Il signor di Ventimiglia alzò leggermente le spalle, dicendo a voce alta.

– Mi avete capito: al faro di Granata ai dodici tocchi. Che la scialuppa sia pronta.

I tre avventurieri, un po’ rassicurati per la tranquillità del conte, uscirono, accompagnati da un servo il quale pareva che li aspettasse nella stanza attigua.

Il Consigliere attese che il rumore dei passi fosse cessato, fingendo di osservare le sue pergamene, poi suonò un campanello.

Un altro servo entrò.

– Dite al mio scudiere che venga subito e che non dimentichi di armarsi.

Un mezzo minuto dopo El Valiente faceva la sua entrata, salutando come al solito, in una maniera assai goffa.

– Emanuel, – disse il Consigliere indicandogli il conte, – condurrai questo signore alla mia casetta della Punta Blanca e lo lascierai parlare colla señorita. Veglia su di lui.

– Sí, Eccellenza, – rispose il bandito, il quale osservava di traverso il conte.

La tua testa risponderà della vita di questo signore.

– Saprò difenderla, Eccellenza.

– Signore, potete andare, – disse il Consigliere al conte. Vi auguro di riuscire nella vostra audace impresa e di rivedervi presto, insieme al marchese di Montelimar.

– Fra tre o quattro giorni, spero di essere di ritorno con lui, rispose il signor di Ventimiglia.

Salutò ed usci, seguito dal Valiente, il quale aveva strizzato l’occhio al Consigliere come per dirgli:

– Quest’uomo è spacciato.

Scesero lo scalone ed attraversarono l’ampia piazza, avviandosi poscia verso la marina.

Nessuno dei due parlava e parevano entrambi assai preoccupati, nondimeno il conte non sembrava che avesse qualche timore per quel preteso scudiere del Consigliere. Giunti nei sobborghi, i quali si estendevano tutto intorno alla baia, il signor di Ventimiglia chiese al bandito.

– Avremo da camminare molto ancora?

– Si vede che siete poco pratico di Panama, signore.

– Sono sbarcato pochi giorni fa.

– Ah! Siete un uomo di mare.

– Avete indovinato.

– Che cosa fanno dunque quei cani di filibustieri?

– Non lo so.

– Si dice che preparino un colpo di mano sulla città!

– Può darsi.

– Siete poco loquace, signore.

– La gente di mare parla poco.

– Ed anche un po’ diffidente verso di me.

– Io!

– Mi pareva.

– Niente affatto.

Continuarono a camminare attraverso le viuzze oscure e tortuose dell’ultimo sobborgo e giunsero sulla spiaggia di ponente, una spiaggia sabbiosa, aperta ai venti ed alle onde e che serviva per la demolizione delle vecchie caravelle ormai impotenti a tenere il mare.

– Ma dov’è questa casa? – chiese il conte, dopo aver costeggiato per qualche po’ le dune di sabbia contro le quali s’infrangevano, rumoreggiando cupamente, le onde del Pacifico. – Io qui non vedo che degli scafi semi-demoliti.

– È piú innanzi, – rispose il bandito. – Dubitereste di me, signore?

– Vi ho detto di no, quantunque voi mi abbiate condotto in un luogo assolutamente deserto e adatto per le imboscate.

– Corpo d’una bombarda! – gridò il bandito. – Vorreste offendermi? Badate che quantunque oggi non sia che un semplice scudiero, ho nelle mie vene sangue di gentiluomini.

– Ciò non m’interessa affatto, – rispose il conte.

– Come non v’interessa? – gridò il brigante, fermandosi di fronte ad un’alta duna, colla sinistra posata sull’impugnatura della spada. – Voi cercate una lite con me, a quanto mi pare?

– O siete voi invece che la preparate? – chiese il Corsaro, facendo atto di snudare pure la sua spada.

– Corpo d’un trombone, diventate troppo insolente, signor mio!

– Prendetevela come volete, a me non importa, signor bandito.

– A me, bandito!

– Sí, perché voi mi avete attirato qui, non già per condurmi alla casa abitata da quella giovane meticcia, bensí per assassinarmi. Quanto vi ha pagato don Juan de Sasebo?

– Ve lo dirò, quando vi avrò passata la mia spada attraverso il corpo.

– Siete ben sicuro di riuscirvi? – chiese il conte con calma.

– Nessuno ha mai tenuto testa a El Valiente.

– È il vostro nome di battaglia?

– Sí, signor mio.

– Allora ti farò vedere una cosa strabiliante.

– Quale?

– Di vedere El Valiente a piegare le ginocchia dinanzi a me e domandarmi grazia.

Il bandito proruppe in una risata fragorosa, mentre il conte, che cominciava ad impazientirsi e che temeva di veder accorrere altri spadaccini in aiuto del brigante, sfoderava la spada.

– Corpo d’una bombarda, siete coraggioso, signor mio. Un altro che si trovasse dinanzi al Valiente, getterebbe subito la spada e consegnerebbe anche la borsa.

– Io non ho mai avuto queste pessime abitudini, – rispose il signor di Ventimiglia. – Orsú finiamola, buffone. Ti darò la lezione che tu meriti.

Il bandito si tolse il sèrapè infioccato, uno nuovissimo che doveva aver comperato coi denari del Consigliere e se lo gettò sul braccio sinistro, per essere piú libero nelle mosse, spiccò due salti verso la duna per non esporsi al pericolo di dover indietreggiare verso il mare e cadervi dentro, poi trasse la sua spada, dicendo:

– Mi basterà un colpo per spacciarvi.

– Qualche botta segreta!

– La piú famosa di tutti.

– È inutile, brigante, che tu cerchi di spaventarmi. Di botte segrete me ne intendo anch’io.

– La mia non potete conoscerla.

– Basta, chiacchierone: veniamo ai fatti.

Il conte si era messo rapidamente in guardia ed aveva fatto un passo innanzi, facendo qualche finta. Prima di assalire decisamente, voleva accertarsi della forza dell’avversario.

Sapendolo forte spadaccino, non dovevano avergli mandato un mediocre tiratore.

Il Valiente infatti parò senza scomporsi.

– Si vede che sei forte, – disse il conte.

– Questo non è ancora nulla, – rispose il bandito. – Vedrete il seguito. Vorrei darvi un consiglio perché non vi tocchi di fare partenza per l’altro mondo come un mussulmano.

– Vorresti dire?

– Che io al vostro posto, per non perdere tempo, approfitterei di questi pochi minuti per recitare qualche Ave Maria.

– Comincia tu, intanto, – rispose il conte, il quale incalzava vivamente.

– Non ne ho bisogno.

– Te ne pentirai presto.

– Che voi siate molto duro da smontare questo è vero, mio signore, – disse il bandito, il quale continuava ad indietreggiare, avvicinandosi alla duna. – Tuttavia spero di riuscirvi quando il vostro braccio darà qualche segno di stanchezza.

– Allora dovrai aspettare qualche ora.

– Ah! Corpo…

Il conte gli aveva portato una stoccata proprio in mezzo al petto, facendogli uno strappo sulla giacca. Il bandito si era salvato per miracolo, parando di terza e facendo un salto indietro.

– Ecco una botta magnifica e che non mi aspettavo, – disse il bandito. – Non vale però quella delle cento pistole. Chi può avervela insegnata?

– Un famoso maestro italiano.

– Sono formidabili spadaccini gli italiani. Oh li conosco io!

– Allora para questa.

Il conte pareva che avesse ormai completamente dimenticato il pericolo che poteva minacciarlo e che cominciasse a divertirsi assai di quella terribile partita.

Aveva data un’altra stoccata che Il Valiente era pure riuscito a parare appena a tempo.

– Corpo d’una bombarda, – borbottò. – La faccenda non cammina come credevo. Quest’uomo è piú solido di quanto supponevo. Stiamo in guardia.

Il conte tornava alla carica, impaziente di stancarlo, prima di tentare qualche colpo decisivo. Il bandito però gli sfuggiva sempre, indietreggiando verso la duna.

– Tu mi scappi, – disse il corsaro, incollerito. – Mostrami la tua valentia, restando sul posto.