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I Pirati della Malesia

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4. Sotto i boschi

Andò a chiudere la porta a catenaccio e si affacciò con precauzione alla finestra. A quaranta passi dalla palazzina, alla fresca ombra di un’alta arenga saccariferica, stupenda palma dalle lunghe foglie piumate, se ne stava il maharatto, appoggiato ad un lungo bambù, munito all’estremità di una aguzza punta di ferro, probabilmente avvelenata. Non senza sorpresa, il portoghese vide accanto a lui un piccolo cavallo carico di due grandi ceste di foglie di nipa piene fino all’orlo di frutta di ogni specie e di pani di sagù.

– Il maharatto è più prudente di quanto credevo – mormorò Yanez.– Mi sembra un provveditore delle miniere.

Arrotolò una sigaretta e l’accese. Il bagliore della piccola fiamma attirò subito lo sguardo di Kammamuri.

– Il giovanotto mi ha scorto – disse Yanez, – ma non si muove. Comprende che bisogna essere prudenti.

Gli fece un cenno con la mano, poi rientrò e aprì un cassetto del tavolino. C’erano dei foglietti di carta, un calamaio, delle penne e una borsa ben gonfia che diede, urtandola, un suono metallico.

– Il mio amico Brooke ha pensato a tutto – disse il portoghese ridendo. – Queste sobno fiammanti sterline.

Levò un foglietto di carta, lo lacerò a metà e scrisse in minutissimo carattere:

Sii prudente e guardati bene attorno. Va’ ad aspettarmi alla taverna del cinese.

Arrotolò il pezzetto di carta e staccò dalla parete un fusto cilindrico, di legno duro, trapanato nel mezzo, armato all’estremità di un ferro di lancia ben assicurato con strisce di rotang. Era un sumpintan, una cerbottana, lunga metri 1,40, con la quale i dayachi lanciano a sessanta passi, con straordinaria precisione, frecce intinte nel velenosissimo succo dell’upas.

– Devo essere ancora abile – disse il portoghese, esaminando l’arma.

Staccò una freccia lunga 20 centimetri, vi infilò il foglietto scritto e la fece entrare nella cerbottana. Un forte soffio bastò per lanciarla fino al maharatto, il quale fu lesto a raccoglierla ed a staccare la carta. – Ed ora usciamo – disse Yanez, quando ebbe veduto Kammamuri andarsene.

Si gettò a tracolla un fucile a due canne e uscì, rispettosamente salutato dalla sentinella.

Percorrendo vie e viuzze puzzolenti, fiancheggiate da capanne posate su pali sotto le quali sonnecchiavano maiali e cani e saltellavano scimmie, spandendo un odore insopportabile, in meno di un quarto d’ora giunse alla taverna, dinanzi alla quale era legato il cavallo del maharatto.

– Prepariamo delle sterline – disse il portoghese. – Prevedo una scena burrascosa.

Guardò nella taverna. In un angolo, seduto dinanzi ad una terrina di riso, stava Kammamuri; e dietro al banco, con un paio d’occhiali di quarzo affumicato sul naso, stava il taverniere, occupato a scarabocchiare un gran foglio di carta con un pennello di rispettabile grandezza. Il celestiale era senza dubbio occupato a fare i conti.

– Olà – gridò il portoghese entrando.

Il taverniere, a quella chiamata, alzò la testa. Vederlo, balzare in piedi e slanciarglisi contro, impugnando fieramente la sua mostruosa penna intinta nell’inchiostro di Cina, fu tutt’uno.

– Brigante! – urlò.

Il portoghese fu pronto a fermarlo.

– Vengo a pagarti – disse, gettando sulla tavola un pizzico di sterline.

– Giusto Buddha! – esclamò il cinese precipitandosi sulle monete. – Otto sterline! Vi domando perdono, señor…

– Sta’ zitto, e porta una bottiglia di vino di Spagna.

Il taverniere in quattro salti corse a prendere una bottiglia che mise dinanzi a Yanez, indi si slanciò verso un gong sospeso alla porta e si mise a batterlo furiosamente.

– Cosa fai? – chiese Yanez.

– Vi salvo, señor – rispose il cinese. – Se non avverto i miei amici che voi avete pagato, non so che cosa vi accadrebbe fra qualche giorno.

Yanez gettò sulla tavola altre dieci sterline.

– Di’ ai tuoi amici che lord Welker paga da bere – disse.

– Ma voi siete un principe, milord! – gridò il cinese.

– Lasciami solo.

Il cinese, raccolte le sterline, uscì incontro ai suoi amici, i quali, allarmati da quei colpi precipitati, accorrevano da tutte le parti armati di bambù e di coltelli.

Yanez si sedette dinanzi a Kammamuri sturando la bottiglia.

– Che nuove, mio bravo maharatto? – chiese.

– Brutte, signor Yanez – rispose Kammamuri.

– Corre qualche pericolo Sandokan?

– Non ancora, ma potrebbe venire scoperto da un istante all’altro. Nelle foreste ronzano guardie e dayachi. Ieri sera sono stato fermato e interrogato e questa mane mi è toccata la stessa cosa.

– E tu cos’hai risposto?

– Mi sono spacciato per un provveditore delle miniere di Poma. Per ingannare meglio questi spioni, come avete visto, mi sono provvisto di un cavallo e di alcune ceste.

– Sei furbo, Kammamuri. Dove si trova Sandokan?

– A sei miglia da qui, accampato presso un villaggio in rovina. Sta fortificandosi perché teme di venire assalito.

– Andremo a trovarlo.

– Quando?

– Appena vuotata la bottiglia.

– C’è qualche cosa in aria?

– Ho saputo ove sta imprigionato il tuo padrone.

Il maharatto balzò in piedi, fuori di sé per la gioia.

– Dov’è? Dov’è? – chiese con voce soffocata.

– Nel fortino della città, custodito da una sessantina di marinai inglesi.

Il maharatto si lasciò cadere sulla sedia, scoraggiato.

– Lo salveremo ugualmente, Kammamuri – riprese Yanez.

– E quando?

– Appena lo potremo. Mi reco da Sandokan per progettare un piano.

– Grazie, signor Yanez.

– Lascia là i ringraziamenti e bevi. -

Il maharatto vuotò la sua tazza.

– Volete che partiano?

– Partiamo, – disse Yanez, gettando sul tavolo alcuni scellini.

– Vi avverto che la strada è lunga e difficile e che bisognerà allungarla ancotra di più, onde ingannare le spie.

– Non ho fretta io. Ho detto al rajah che vado a caccia.

– Siete diventato amico del rajah?

– Certamente.

– In qual modo?

– Te lo narrerò camminando. -

Uscirono dalla taverna. Il portoghese si mise dinanzi e Kammamuri lo seguì, tenendo per la briglia il cavallo.

– Evviva lord Welker! – gridò una voce.

– Evviva il lord! Viva il generoso bianco! – urlarono parecchie altre voci.

Il portoghese si volse e vide il taverniere circondato da una grossa banda di cinesi che avevano le tazze in mano.

– Addio, ragazzi! – gridò.

– Evviva il generoso lord! – tuonarono i cinesi.

Usciti dal quartiere cinese, fiancheggiato di bugigattoli ingombri di rotoli di carta fiorita di Tung, di balle di seta, di scatole di thè di ogni qualità, di ventagli, di occhiali, di sputacchiere, di sedie di bambù, di code, di lanterne microscopiche o gigantesche, di armi, di amuleti, di vesti, di zoccoli, di cappelli di ogni forma e dimensione, tutta roba proveniente dai porti del celeste Impero, entrarono nel quartiere malese non molto dissimile da quello dayaco, forse più sporco e più maleodorante, indi si arrampicarono su colli e di là raggiunsero i boschi.

– Camminate con precauzione – disse Kammamuri al portoghese. Ho incontrato parecchi serpenti pitoni stamane e ho visto anche le tracce di una tigre.

– I boschi del Borneo li conosco, Kammamuri – rispose Yanez. Non

tremare per me.

– Siete venuto altre volte qui?

– No, ma ho percorso più volte i boschi del reame di Varauni.

– Combattendo?

– Talvolta sì.

– Eravate nemici del sultano di Varauni?

– Nemici fierissimi. Egli odiava terribilmente i pirati di Mompracem perché in ogni scontro vincevano la sua flotta.

– Ditemi, padron Yanez, la Tigre della Malesia fu sempre pirata?

– No, mio caro. Una volta era un potente rajah del Borneo settentrionale; ma un inglese ambizioso istigò alla ribellione le truppe e la popolazione e lo detronizzò dopo avergli ucciso padre, madre, fratelli e sorelle.

– E vive ancora questo inglese?

– Sì, vive.

– E non l’avete punito?

– È troppo forte. La Tigre della Malesia però non è ancora morta.

– Ma voi, padron Yanez, perché vi siete unito a Sandokan?

– Non mi sono unito a lui, Kammamuri; fui fatto prigioniero mentre navigavo verso Labuan.

– Non uccideva i prigionieri Sandokan?

– No, Kammamuri. Sandokan fu sempre feroce verso i suoi più acerrimi nemici e generosissimo verso gli altri, specialmente verso le donne.

– Ed egli vi trattò sempre bene, padron Yanez?

– Mi amò come e forse più di un fratello!

– Ditemi, padron Yanez, quando avrete liberato il mio padrone, ritornerete a Mompracem?

– È probabile, Kammamuri. Alla Tigre della Malesia occorrono grandi distrazioni per soffocare il suo dolore.

– Quale dolore?

– Quello di aver perduto Marianna Guillonk.

– L’amava molto dunque?

– Immensamente, alla follia.

– È strano assaiche un uomo così feroce e terribile si sia innamorato di una donna.

– E di una donna inglese per di più – aggiunse Yanez.

– Dello zio di Marianna Guillonk avete saputo nulla?

– Nulla, per ora.

– Che sia qui?

– Potrebbe darsi.

– Avete paura di lui? – Forse, e…

– Alto là – gridò in quell’istante una voce. Yanez e Kammamuri si arrestarono.

5. Narcotici e veleni

Due uomini si erano improvvisamente rizzati dietro a un cetting, arbusto rampicante il cui succo è talmente velenoso che uccide in pochi istanti un bue. Il primo era un indiano alto, magro, nervoso, vestito di tela bianca e armato d’una lunga carabina incrostata d’argento; l’altro era un dayaco di belle forme, con le membra straordinariamente cariche di anelli di ottone e di perle di Venezia e i denti anneriti col succo caldo del legno siuka. Un solo ciawat, pezzo di stoffa di cotone copriva i suoi fianchi e un fazzoletto rosso la sua testa, ma portava indosso un vero arsenale. La terribile cerbottana con le frecce tinte nel succo dell’upas gli pendeva da una spalla; al fianco aveva il formidabile parang, pesante sciabola dalla larga lama intarsiata con pezzi d’ottone, della quale i dayachi si servono per decapitare i nemici; il laccio, che essi sanno adoperare forse meglio dei thugs indiani, gli stringeva la vita. Non mancava nemmeno il kriss, dalla lama serpeggiante e avvelenata.

 

– Alto là! – ripeté l’indiano, facendosi innanzi.

Il portoghese fece a Kammamuri un rapido gesto e si avanzò con le dita della mano destra sulla batteria del fucile.

– Che vuoi e chi sei tu? – chiese all’indiano.

– Sono una guardia del rajah di Sarawak – rispose l’interrogato.

– E voi?

– Lord Gilles Welker, amico di James Brooke, tuo rajah.

L’indiano e il dayaco presentarono le armi.

– Quell’uomo è al vostro servizio, milord? – chiese l’indiano indicando Kammamuri.

– No – rispose Yanez. – L’ho incontrato nella foresta e avenfo egli paura delle tigri, ha chiesto di seguirmi.

– Dove vai? – domandò l’indiano al maharatto.

– Ti ho detto anche stamane che sono provveditore dei placers di

Poma – rispose Kammamuri. – Perché domandarmi anche adesso dove vado?

– Perché il rajah così vuole.

– Di’ al tuo rajah che io sono un suo fedele suddito.

– Passa.

Kammamuri raggiunse Yanez che aveva continuata la sua via, mentre le due spie tornavano ad imboscarsi sotto l’arbusto velenoso.

– Cosa pensate, signor Yanez, di quegli uomini? – chiese il maharatto quando fu certo che non potevano né udirlo né vederlo.

– Penso che il rajah è astuto come una volpe.

– Deviamo?

– Deviamo, Kammamuri. Quelle due spie possono avere qualche sospetto e seguirci per un buon tratto.

– Faremo perdere le nostre tracce.

Kammamuri abbandonò il sentiero fino allora seguito e piegò a sinistra, seguito dal cavallo e dal portoghese. La via divenne ben presto difficilissima. Migliaia e migliaia d’alberi, dritti gli uni, piegati e contorti gli altri, e cespugli e rampicanti si ammassavano in modo da impedire spesso il passaggio, se non agli uomini, almeno al cavallo.

Qui vi erano colossali alberi della canfora, che dieci uomini non sarebbero stati capaci di abbracciare; là arenghe saccarifere che, incise, danno un liquore zuccherino e inebriante se lasciato fermentare; più oltre superbe palme pinang che piegavano sotto il peso delle noci formanti grandi grappoli; poi bellissimi mangostani, alti quanto un ciliegio, le cui frutta, grosse come aranci, sono le più gustose e le più delicate che sui trovino sulla terra, e areche dalle foglie grandissime; uncaria cambir e isonandra guta e giunta wan, piante, queste ultime, che danno il caucciù. E come se tutti questi vegetali non bastassero a rendere difficile il cammino, smisurati rotang, che nel Borneo tengono il luogo delle liane e nepentes correvano da un albero all’altro formando vere e proprie reti che il maharatto e il portoghese erano costretti a tagliare a colpi di kriss.

Percorso mezzo miglio descrivendo lunghi giri per trovare un passaggio, saltando alberi atterrati, sfondando cespugli, tagliando radici e gomene vegetali a destra e a manca, i due pirati giunsero sulle rive di un canale d’acqua nera e putrida. Kammamuri tagliò un ramo e misurò la profondità.

– Due piedi – disse. – Salite sul cavallo, padron Yanez.

– Perché?

– Entreremo nel canale e lo risaliremo per un buon tratto. Se le due spie ci seguono, non troveranno più le nostre tracce.

– Bravo, Kammamuri.

Il portoghese salì in sella e dietro di lui salì il maharatto. Il cavallo dopo aver un po’ esitato, entrò in quelle acque che spandevano un fetore insopportabile e rimontò, traballando e scivolando sul fondo melmoso, la corrente.

Fatti ottocento passi, riguadagnò la riva. Yanez e il maharatto discesero e stettero in ascolto coll’orecchio appoggiato a terra.

– Non odo nulla – disse Kammamuri.

– E nemmeno io – aggiunse il portoghese. – È lontano il campo?

– Un miglio e mezzo almeno. Affrettiamoci, padrone.

Un sentieruzzo, aperto fra i cespugli e i rotang dagli animali, spariva nel folto della foresta. I due pirati lo raggiunsero allungando il passo. Una mezz’ora dopo, altri due uomini s’alzavano dietro una macchia, intimando ai due pirati di arrestarsi. Kammamuri gettò un fischio.

– Avanti – risposero le due sentinelle.

Erano due pirati di Mompracem armati fino ai denti. Vedendo Yanez, mandarono grida di gioia.

– Capitano Yanez! – gridarono, correndogli incontro.

– Buon giorno, ragazzi – disse il portoghese.

– Vi credevamo morto, capitano.

– Le tigri di Mompracem hanno la pelle dura; dov’è Sandokan?

– A trecento passi da qui.

– Fate buona guardia, amici. Vi sono delle spie del rajah nel bosco.

– Lo sappiamo.

– Bravi, tigrotti.

Il portoghese e il maharatto raddoppiarono il passo e ben presto giunsero all’accampamento piantato presso un kampong in rovina. Del villaggio, che un tempo doveva essere stato abbastanza grosso, non rimaneva intatta che una sola capanna di foglie di nipa, posta sopra pali alti più di trenta piedi, fuori di portata dagli assalti delle tigri e anche dagli assalti degli uomini.

I pirati però stavano ricostruendo altre capanne e piantando solide palizzate per mettersi al coperto e, nel caso di un attacco improvviso da parte delle truppe del rajah di Sarawak, poter resistere.

– Dov’è Sandokan? – chiese Yanez, entrando nell’accampamento accolto dalle grida di gioia di tutta la banda.

– Lassù, nella capanna aerea – risposero i pirati. – Avete incontrato i soldati del rajah, capitano Yanez?

– Ciò che ho detto alle sentinelle lo dirò anche a voi, tigrotti— disse il portoghese. – State in guardia: vi sono delle spie del rajah nel bosco. Ne ho vista più di una.

– Che si mostrino! – gridò un malese, impugnando un pesantissimo parang ilang con la punta fatta a doccia. – I tigrotti di Mompracem non temono i cani del rajah.

– Capitano Yanez – disse un altro, – se incontrate una di quelle spie, ditele che siamo accampati qui. Sono cinque giorni che non combattiamo e le nostre armi cominciano ad arrugginire.

– Fra poco, ragazzi, avrete da lavorare – rispose Yanez. – M’incarico io di mandarvi della gente.

– Viva il capitano Yanez! – urlarono i tigrotti.

– Ehi! fratello mio! – gridò una voce che veniva dall’alto.

Il portoghese alzò gli occhi e vide Sandokan ritto sulla piccola piattaforma della capanna aerea.

– Che cosa fai lassù? – gridò il portoghese, ridendo. – Mi sembri un piccione appollaiato su di un albero.

– Sali Yanez. Tu hai qualche cosa d’importante da dirmi

– Certo. -

Il portoghese si slanciò verso una lunga pertica che presentava delle tacche e con sorprendente agilità giunse sulla piattaforma della capanna, ma qui si trovò piuttosto imbarazzato. Il suolo era formato da bambù, distanti l’uno dall’altro un buon palmo, e i piedi del povero Yanez non riuscivano a trovare uno stabile appoggio.

– Ma questa è una trappola! – esclamò.

– Costruzione dayaca, fratello mio – disse Sandokan ridendo.

– Ma che piedi hanno quei selvaggi?

– Forse più piccoli dei nostri. Un po’ di equilibrio, diamine!

Il portoghese, traballando e saltando di trave in trave, giunse nella capanna.

Era discretamente vasta, divisa in tre camerette di cinque piedi di altezza e altrettanti di larghezza, col pavimento pure formato da bambù lontani l’uno dall’altro parecchi centimetri, ma coperto da stuoie.

– Che cosa mi rechi? – chiese Sandokan.

– Molte novità, fratello mio – rispose Yanez sedendosi. – Ma dimmi, innanzitutto, dov’è la povera Ada, che non ho veduta nel campo?

– Questo luogo non è molto sicuro, Yanez. Le guardie del rajah possono assalirci da un istante all’altro.

– Comprendo, fratello mio; tu l’hai nascosta in qualche luogo.

– Sì, Yanez. L’ho fatta condurre verso la costa.

– Chi ha con sé?

– Due uomini che mi sono fedelissimi.

– È ancora pazza?

– Sì, Yanez.

– Povera Ada!

– Guarirà, te lo assicuro.

– In qual modo?

– Quando si troverà dinanzi a Tremal-Naik proverà una scossa così forte che riacquisterà la ragione.

– Lo credi?

– Lo credo, anzi ne sono certo.

– Possano le tue speranze avverarsi.

– Dimmi ora, Yanez, che cos’hai fatto a Sarawak in questi giorni?

– Molte cose. Sono diventato amico del rajah.

– E come?

Il portoghese in poche parole lo informò di quello che aveva fatto, gli narrò ciò che gli era accaduto e ciò che aveva udito. Sandokan lo ascoltò attentamente, senza interromperlo, ora sorridente e ora pensieroso.

– Dunque tu sei amico del rajah – disse, quando Yanez ebbe terminato.

– Amico intimo, fratello mio.

– Non ha alcun sospetto?

– Non credo; ma, come ti ho detto, sa che tu sei qui.

– Bisogna affrettarsi a liberare Tremal-Naik. Ah! se potessi nel medesimo tempo schiacciare per sempre quel dannato Brooke!

– Lascia il rajah, Sandokan.

– Egli fu troppo feroce, Yanez, verso i nostri fratelli. Darei metà del mio sangue per vendicare le migliaia di malesi uccisi da quell’uomo terribile e spietato.

– Bada, Sandokan; non abbiamo che sessanta uomini.

Un lampo sinistro balenò negli occhi della Tigre della Malesia.

– Tu sai, Yanez, di quanto io sia capace – disse con un tono di voce che faceva fremere. – Il mio passato tu lo conosci.

– Lo so, Sandokan, che tu hai sfidato l’ira di regni ed imperi europei. Ma la prudenza non è mai troppa.

– E sia: sarò prudente. Mi accontenterò di liberare Tremal-Naik.

– Cosa forse più difficile dell’altra, Sandokan.

– Perché?

– Ci sono sessanta bianchi nel fortino e molti pezzi di cannone.

– Cosa sono sessanta uomini?

– Aspetta un po’, fratellino mio. Mi dimenticavo di dirti che il fortino è vicinissimo alla città. Al primo colpo di cannone tu avrai i bianchi dinanzi e le truppe del rajah alle spalle. Sandokan si morse le labbra e fece un gesto di dispetto.

– Eppure bisogna salvarlo – disse.

– Che cosa dobbiamo fare?

– Giocheremo d’astuzia.

– Hai un piano?

– Sono bornese e, come i miei compatrioti, ho sempre amato i veleni. Con una sola goccia si uccide un uomo per quanto sia forte; con un’altra goccia lo si addormenta, lo si fa credere morto, o lo si fa impazzire. Il veleno, come vedi, è un’arma potente, terribile.

– So che durante il nostro soggiorno a Giava tu ti occupavi molto di veleni. E mi ricordo che una volta un potente narcotico ti salvò dalla forca.

– Ecco che i miei studi e le mie ricerche cominciano a fruttare – disse Sandokan. – Ascoltami, Yanez.

Frugò in una tasca interna della sua giacca e ne trasse una scatoletta di pelle ermeticamente chiusa. L’aprì e mostrò al portoghese dieci o dodici microscopiche boccettine, piene di liquidi bianchi, verdastri e neri.

– Per Giove! – esclamò Yanez.

– Non è tutto – disse Sandokan, aprendo una seconda scatoletta contenente piccolissime pillole che esalavano un acuto odore. – Questi sono altri veleni.

– E cosa vuoi fare con quei liquidi e quelle pillole?

– Ascoltami con attenzione, Yanez. Tu mi hai detto che Tremal-Naik è prigioniero nel forte.

– È vero.

– Credi di poter entrare nel forte, chiedendo il permesso al rajah?

– Lo spero. Ad un amico non si nega un favore così piccolo.

– Tu dunque entrerai e chiederai di vedere Tremal-Naik.

– E quando l’avrò veduto, cosa farò?

Sandokan levò dalla seconda scatola alcune pillole nere e gliele mise in mano.

– Queste pillole contengono un veleno che non uccide, ma che sospende la vita per trentasei ore.

– Ora comprendo il tuo piano. Io dovrò farne inghiottire una a Tremal— Naik.

– O scioglierne una nella brocca dell’acqua.

– Tremal-Naik non darà più segno di vita, lo crederanno morto e lo seppelliranno.

– E noi, nella notte, andremo a disseppellirlo – aggiunse Sandokan.

– Il progetto è stupendo, Sandokan – disse il portoghese.

– Tenterai il colpo? Tu non corri, mi pare, alcun pericolo.

– Io lo tenterò, purché mi si permetta di entrare nel forte.

– Se non ti permettono, corrompi qualche marinaio. Hai denaro?

Il portoghese aprì la giacca, il panciotto, alzò la camicia, e mostrò una fascia un po’ rigonfia che gli cingeva i fianchi.

– Ho sedici diamanti che tutti insieme valgono un milione.

 

– Se ne vuoi altri, parla. La mia cintura contiene il doppio della tua e a Batavia abbiamo tanto oro da acquistare la flotta intera del Portogallo.

– Lo so, Sandokan, che il denaro non ci manca. Per ora mi accontenterò dei miei sedici diamanti.

– Nascondi ora queste pillole e anche quelle due boccettine – disse Sandokan. – Una, la verde, contiene un narcotico che non sospende la vita, ma che addormenta profondamente per dodici ore; l’altra, la rossa, contiene un veleno che uccide istantaneamente e senza lasciare traccia. Chissà: possono esserti utili.

Il portoghese nascose le pillole e le boccettine, si gettò a bandoliera il fucile e si alzò.

– Te ne vai?

– Sarawak è lontana, fratello mio.

– Quando farai il colpo?

– Domani.

– Mi farai subito avvertire da Kammamuri?

– Non mancherò; addio, fratello.

Scese la pericolosa scala, salutò i tigrotti e tornò a cacciarsi sotto la foresta, cercando di orizzontarsi. Aveva percorso sei o settecento metri, quando fu raggiunto dal maharatto.

– Altre novità? – chiese il portoghese, arrestandosi.

– Una e forse grave, signor Yanez – disse il maharatto. – Un pirata è tornato or ora al campo ed ha riferito alla Tigre di aver veduto, a tre miglia da qui, una banda di dayachi guidata da un vecchio bianco.

– Se lo incontrerò gli augurerò buon viaggio.

– Aspettate un po’, signor Yanez – disse il maharatto. – Il pirata ha detto che quel vecchio dalla pelle bianca somigliava all’uomo che ha giurato di appiccare la Tigre e voi.

– Lord James Guillonk! – esclamò Yanez, impallidendo.

– Sì, padron Yanez, quell’uomo somigliava allo zio della defunta moglie di Sandokan.

– È impossibile!… È impossibile!… Chi è il pirata che lo ha visto?

– Il malese Sambigliong.

– Sambigliong!… – balbettò Yanez. – Questo malese era con noi quando rapimmo la nipote di lord James, anzi, se la memoria non m’inganna, affrontò lo stesso lord che stava per spezzarmi il cranio. Per Giove!… Io corro un gran pericolo.

– Quale? – chiese il maharatto.

– Se lord Guillonk viene a Sarawak io sono perduto. Mi vedrà, mi riconoscerà, quantunque siano trascorsi sei anni dall’ultima volta che ci siamo incontrati, e mi farà arrestare e appiccare.

– Ma il malese non ha detto che quel vecchio era il Lord. Somigliava e nulla pi.

– Ti ha mandato Sandokan ad avvertirmi?

– Sì padron Yanez!

– Gli dirai che starò in guardia, ma che cerchi d’impadronirsi di quel vecchio dalla pelle bianca. Addio, Kammamuri, domani mattina ti attendo alla taverna cinese.

Il portoghese, molto inquieto, si rimise in marcia, guardandosi attentamente attorno e tendendo gli orecchi, timoroso di trovarsi da un istante all’altro dinanzi a quel vecchio. Fortunatamente non udivasi, sotto la gigantesca boscaglia, alcuna voce umana, né alcun segnale. I soli rumori che rompevano il silenzio erano le grida degli argus giganti, magnifici fagiani che svolazzavano a centinaia, quelle non meno acute delle cacatue nere e quelle rauche delle scimmie dal naso lungo, così chiamate perché il loro naso è molto prominente e rosso come quello di Bacco.

Camminò così, con grandi precauzioni, fra cespugli inestricabili e gigantesche macchie, ora piegando a destra e ora a sinistra, per cinque ore. Non giunse a Sarawak che al calar del sole, affranto dalla fatica e affamato come un lupo. Pensò che fosse troppo tardi per recarsi a pranzare dal rajah e si recò alla taverna del cinese. Dopo un lauto pranzo, annaffiato da parecchie bottiglie, fece ritorno alla palazzina. Alla sentinella, prima di entrare, chiese se un vecchio dalla pelle bianca fosse giunto, ma, avutane risposta negativa, salì nella sua camera.

Il rajah si era ritirato nella sua stanza da qualche ora.

– Meglio così – mormorò Yanez. – Un cacciatore che torna senza un pappagallo può allarmare quella vecchia volpe sospettosa.

Andò poi a dormire mettendo le pistole e il kriss sotto il capezzale.