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I pescatori di balene

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V. L’ISOLA RATMANOFF

Il capitano Weimar sentendo la nave ferma e comprendendo che forse una grave avaria le era toccata, gettò un vero ruggito.

Con un vigoroso colpo di timone tentò dapprima di trarla da quegli scogli che potevano, da un istante all’altro, sventrargliela, ma non riuscendovi si precipitò verso prua dove si affollavano i marinai gettando grida di terrore. Hostrup, che anche in quel terribile frangente, che pur poteva diventare per tutti fatale, non aveva perduto un millesimo della sua tranquillità, vi era già.

– Perduti? – gli chiese il capitano col denti stretti.

– Forse no! – rispose con voce calma il tenente.

Il capitano respinse alcuni marinai e salì sul bompresso. Il «Danebrog» posava la prua su di un banco di sabbia, riparato a destra e a sinistra da una doppia fila di scoglietti. La poppa però galleggiava e se da una parte era un bene, dall’altra era anche un male poichè le onde, sollevandola violentemente minacciavano di disarticolare il vascello.

– Che ci sia una falla? – chiese il tenente,

– Lo temo! – rispose Weimar – Mi pare di vedere un’apertura un po’ sotto la linea di galleggiamento. Ira di Dio! Anche questa disgrazia doveva toccarci! Non bastava dunque la speronata dell’americano? Povero il mio «Danebrog»!

– Ma forse la cosa non è grave, capitano.

– Ma chi turerà la falla? Qui siamo come in mezzo ad un deserto.

– Abbiamo un abile carpentiere a bordo.

– Scendiamo nella stiva, signor Hostrup.

I due comandanti fecero aprire il boccaporto maestro e scesero nel ventre del vascello preceduti da Koninson e da mastro Widdeak che avevano accese due lanterne. Rimosse le botti che occupavano la stiva, si diressero verso prua dove si arrestarono, ascoltando con profonda attenzione.

Udirono distintamente un sordo gorgoglio, dovuto senza dubbia all’acqua che entrava nella falla apertasi.

– Sarà grande l’apertura? – si chiese con ansietà il capitano.

– Non lo credo, – disse mastro Widdeak. – Il gorgoglio non è molto forte.

– Dobbiamo levare le botti? – chiese Koninson.

– Per ora è inutile, – disse il tenente. – Finchè la burrasca non sarà cessata, nulla potremo fare.

– Non c’è pericolo di colare a picco?

– No, – disse il capitano. – Il «Danebrog» è fortemente incagliato e la poppa è molto alta. Saliamo in coperta.

Abbandonarono la stiva e tornarono sulla tolda ove i marinai, ancora pallidi, li attendevano con grande ansietà. Il capitano con poche parole li rassicurò.

Pel momento nulla eravi da fare, poichè l’uragano continuava a infuriare in siffatta maniera da rendere impossibile la calata delle baleniere.

Il capitano fece gettare un’àncora a poppa per assicurare maggiormente il vascello, e altre due ne fece gettare fra gli scoglietti, a babordo l’una e a tribordo l’altra. Ciò fatto attese, in preda ad una certa agitazione che non riusciva a vincere, che il mare si calmasse.

La sua pazienza e quella dell’equipaggio furono messe a dura prova, poichè l’uragano infuriò tutto il giorno, scuotendo fortemente la nave che gemeva sinistramente sul suo letto di sabbia.

Verso però le 11 pomeridiane quei formidabili soffi a poco a poco scemarono di violenza e attraverso gli squarciati vapori tornò a mostrarsi il sole che allora radeva l’orizzonte occidentale.

Alla mezzanotte una calma assoluta regnava negli strati superiori, e l’aria, poco prima così agitata e fredda, era diventata così tiepida da far quasi credere di essere nel Messico anzichè nello stretto di Behring. Il mare però mantenevasi ancora agitatissimo e continuava a infrangersi con grande violenza contro le isole, inoltrandosi nei «fiords» con muggiti prolungati.

L’indomani, 2 settembre, a bassa marea il capitano, il tenente, Widdeak e il carpentiere scesero in una baleniera e approdarono sul banco dove la prua del vascello era rimasta quasi interamente allo scoperto.

L’avaria causata dal violentissimo urto era gravissima ma non irreparabile. A pochi piedi dall’asta di prua, subito sotto la linea di galleggiamento, la punta aguzza di uno scoglietto aveva aperto un buco così grande che vi poteva passare comodamente un barile. La chiglia fortunatamente non aveva riportato alcun guasto, avendo incontrato un banco di sabbia, in cui vi si era quasi interamente seppellita,

– Che ne dici, carpentiere?– chiese il capitano con inquietudine.

– Il colpo è stato fierissimo, – rispose l’interrogato, – e la falla è ragguardevole. Però....

– Però?… – disse il capitano, nei cui sguardi brillò un lampo di gioia.

– La si turerà.

– Quanto tempo chiedi? Bisogna che sia breve affinchè possiamo approfittare della gran marea del 12 settembre.

– Per quel giorno il Danebrog sarà pronto a prendere il mare.

– E quando avremo lasciato il banco, dove andremo? – chiese il tenente che caricava flemmaticamente e con profonda attenzione la sua pipa.

– Vi spiacerebbe seguirmi verso il nord? – disse il capitano, guardandolo fisso fisso.

– Ne sarei lietissimo, signore.

Il capitano gli prese la destra e gliela strinse fortemente.

– Siete un brav’uomo, signor Hostrup.

– Mi sta sul cuore la scommessa, signor Weimar, – rispose Hostrup. – E da parte mia rischierò senza esitare la mia vita, pur di tenere sempre alta la fama dei balenieri danesi.

– Grazie, tenente. Ed ora, carpentiere, al lavoro.

Dovendosi approfittare della sola bassa marea, il carpentiere si mise alacremente all’opera, aiutato da una squadra di marinai che su un’altra baleniera gli avevano recato gli attrezzi necessari, una considerevole quantità di legname e parecchie grosse lastre di rame, mentre alcuni altri sgombravano la prua delle botti che l’occupavano e mettevano in opera le pompe per estrarre l’acqua entrata dalla falla.

Il tenente Hostrup, che di simili lavori si intendeva poco, tornò a bordo a prendere il suo fucile.

– Faremo una passeggiata sull’isola, – disse a Koninson. – Vedo dei grossi uccelli e forse nei «fiords» si nasconde qualche foca o qualche tricheco. Prendi un fucile e seguimi....

– Maneggio meglio il rampone che le armi da fuoco, tenente, – rispose il fiociniere. – Voi penserete ai volatili e io alle foche.

– Come vuoi, amico.

S’imbarcarono sul piccolo canotto e presero il largo girando attorno agli scoglietti sui quali venivano a rompersi le ultime onde sollevate dall’uragano.

Arrancando con lena, in brevi istanti raggiunsero l’isola, ma da quella parte la costa non offriva approdi, essendo tagliata quasi a picco e molto alta. Attorno vi volteggiavano numerosi uccelli marini, i quali fra i crepacci avevano piantato i loro nidi.

Proseguendo, i due cacciatori scoprirono ben presto un piccolo «fiord», il quale terminava in una sponda bassa coperta in parte d’una sabbia finissima e in parte di ciottoloni neri e arrotondati dal continuo lavorio delle onde.

Legarono il piccolo canotto ad una rupe e balzarono a terra portando le loro armi.

L’isola offriva un brutto aspetto. Qua e là si rizzavano delle alture aridissime, più oltre delle grandi rocce nere nei cui crepacci scorgevansi alcuni magri licheni, qualche rosa canina selvatica, o qualche pianticella di ribes o di uva spina.

– Che desolazione! – esclamò Koninson. – Troveremo almeno delle foche?

– Lo spero, fiociniere, – rispose il tenente. – Una volta qui erano talmente numerose, che alcuni balenieri vi facevano i loro carichi d’olio; oggi però, in causa delle cacce accanite, non se ne incontrano che pochissime.

– Dovevano, distruggerne un numero enorme quei balenieri per fare un carico intero.

– Delle migliaia, Koninson.

– Allora non tarderanno a sparire dappertutto.

– Ciò avverrà sicuramente e forse fra non molto. Già le sponde dell’America settentrionale cominciano a essere spopolate.

– Che disgrazia! E dire che sono animali così inoffensivi! Se la prendessero almeno cogli orsi bianchi, quei balenieri paurosi.

Dato uno sguardo alle rive, i due cacciatori si addentrarono nell’isola, ove gli uccelli si mostravano talmente numerosi da oscurare talvolta la luce del sole.

Ora passavano immense bande di urie, uccelli dalle penne nere e bianche, il becco lungo e dritto e le gambe collocate così indietro da costringere quei volatili a sedersi anzichè coricarsi; ora stormi di strolaghe, bellissimi uccelli col petto e il dorso neri, le ali macchiate e le parti inferiori di un bianco niveo, e ora lunghe file di oche bernine, grosse come un’oca comune e che facevano un baccano indiavolato.

– Per bacco! – esclamò il tenente. – Se si volesse fare un carico di uccelli la fatica non sarebbe molta.

– Accontentiamoci di empire la dispensa del cuoco, – disse Koninson. – All’opera, signore.

II tenente si arrampicò su di una rupe, si accomodò sulla cima e di là cominciò a sparare contro le bande di volatili che gli passavano sopra, a destra, a sinistra e dinanzi senza mostrarsi spaventate.

In breve parecchi gabbiani, oche, urie e strolaghe si trovarono a terra colpite dal piombo del valente cacciatore. Koninson ammazzava gli uccelli feriti a colpi di rampone.

Quelle continue detonazioni finirono però collo spaventare i volatili, i quali si allontanarono dalla rupe volando verso le coste dell’isola.

– Siete un tiratore da far paura, – disse Koninson al tenente, che raccoglieva le vittime. – C’è qui tanta carne da nutrire per un’intera settimana l’equipaggio del «Danebrog».

– E non ho ancora finito, fiociniere. Ho visto laggiù due grossi uccelli e conto di abbatterli.

Ammucchiarono le vittime sotto la sporgenza di una rupe e si rimisero in cammino riaccostandosi al mare, e precisamente verso un piccolo «fiord», sopra il quale volteggiavano due grandissimi uccelli dalle penne bianche e nere.

 

– Cosa sono? – chiese Koninson. – Aquile forse?

– Aquile qui? A me sembrano due albatros.

– Ma gli albatros sono uccelli dei mari australi, signore.

– Non ti dico, di no, ma non pochi di quei voraci giganti vanno a piantare i loro nidi, sulle isole dei mari della Cina e del Giappone e in giugno si spingono, sin qui.

– La loro carne è eccellente?

– Se devo dirti la verità, è coriacea; però tenuta qualche tempo nel sale e condita con una salsa piccante, non è sgradevole.

I due cacciatori giunsero ben presto al «fiord», ma i due albatros, un po’ magri si ma veramente giganteschi, le cui ali spiegate misuravano non meno di cinque metri, si allontanarono e così rapidamente, che in pochi istanti, furono fuori di vista.

– Vigliacchi! esclamò il fiociniere.

– E lo sono davvero, malgrado la loro mole e, il loro formidabile rostro – disse il tenente.

– Ma… oh!…

– Che hai?

– Guardate alla vostra sinistra, presso il mare! – disse Koninson a bassa voce.

Il tenente guardò nella direzione indicata e sopra una roccia che cadeva a picco sul mare, ma poco alta, scorse una massa rossiccia, di dimensioni ragguardevoli.

– È una foca! – disse Koninson.

– No, deve essere un tricheco – disse il tenente, che caricò subito il fucile a palla.

– Bisogna ammazzarlo.

– Lo ammazzeremo, fiociniere. Cerchiamo però di non farci vedere, altrimenti si lascerà cadere in mare.

Si gettarono in mezzo alle rocce e tenendosi sempre nascosti giunsero a soli duecento passi dalla preda che si scaldava ai raggi del sole mezza coricata su un fianco.

Il tenente non si era ingannato. Era proprio un tricheco, che taluni chiamano anche morsa, lungo quasi quattro metri e con una circonferenza di tre, coperto di un pelo corto, scarso e rossiccio. Si vedevano distintamente i suoi lunghi denti di avorio che scendono verticalmente dalla mascella superiore.

Tali animali, che un tempo erano numerosissimi su tutte le coste settentrionali dell’Asia e dell’America, sono inoffensivi a terra, ove si muovono con molto stento, ma aggrediti in mare, ove nuotano con grande sveltezza, si difendono disperatamente e più di una volta i loro solidi denti spezzarono le scialuppe dei cacciatori.

Il tenente mandò Koninson dietro una rupe che era a breve distanza da quella occupata dal tricheco, poi puntò lentamente il fucile, mirò con somma attenzione e sparò.

Il tricheco, colpito alla testa, fece un brusco salto mandando una specie di ruggito e si mise a dibattersi, cercando tuttavia di guadagnare l’orlo della roccia per precipitarsi in mare. Ma Koninson era vicino; in dieci salti lo raggiunse e gli vibrò una tale ramponata da finirlo quasi sul colpo.

– Bella fucilata – esclamò il fiociniere volgendosi al tenente che si avvicinava colla solita calma. – Questi sì che sono animali che valgono una palla!

– Lo credo, Koninson. È tanto grasso questo tricheco che ci fornirà più di due barili d’olio.

– E olio migliore di quello della balena, signor Hostrup.

– Che ce ne siano degli altri?

– Ne dubito, Koninson. I balenieri hanno distrutto anche i trichechi.

– E ve n’eran molti in quest’isola?

– Delle migliaia, fiociniere. Mi fu narrato da un capitano olandese, quindici anni, or sono, che un baleniere norvegese in quattro sole ore ne ammazzò più di cinquecento.

– Che strage!

– E so pure, ma non mi ricordo più ora in quale località, che l’equipaggio di un bastimento inglese nel 1705 ne uccise ben ottocento nello spazio di sei ore e che tre anni più tardi un altro equipaggio ne uccise novecento in sette ore.

– In una giornata, in quei tempi si caricava un bastimento di olio.

– Ed erano carichi quelli che valevano molto di più dei nostri, poichè anche le pelli dei trichechi hanno valore e i denti, che danno un avorio più compatto e più bianco di quello degli elefanti, si pagavano molto cari.

– E come faremo a trasportare a bordo questo bestione?

– Lasciamolo qui. Manderemo i marinai a raccoglierlo. Continuiamo l’escursione Koninson.

– I due cacciatori si misero a costeggiare l’isola facendo un’ampia raccolta di uova di uccelli marini, per lo più depositati sulle sabbie o nei crepacci delle rocce e sparando di quando in quando sui gabbiani.

Alle 6, carichi come muli, s’imbarcavano nel piccolo canotto e tornavano a bordo dove il carpentiere, il capitano, mastro Widdeak e i marinai lavoravano febbrilmente attorno alla falla.

VI. IL DISINCAGLIAMENTO

La mattina del 12 settembre, giorno della grande marea, il «Danebrog» era pronto a riprendere il mare. La falla era stata accuratamente chiusa dal carpentiere, e tanto bene da non lasciare penetrare la più piccola goccia d’acqua e da poter sopportare gli urti dei ghiacci. Non restava da farsi che il disincagliamento, operazione difficile ma sul cui esito nessun uomo dell’equipaggio dubitava.

Mancando quattro sole ore alla massima altezza del flusso, i preparativi furono alacremente spinti innanzi. Per il mezzodì tutto doveva essere pronto e ogni uomo al suo posto, onde non correre il pericolo di far riuscire vani gli sforzi e dover attendere parecchi altri giorni.

Il capitano innanzi tutto fece trasportare tutto il carico della stiva a poppa per rendere più leggera la prua e quindi più facile il disincagliamento. Dopo di che fece imbarcare due delle maggiori ancore che furono gettate a sessanta braccia dalla poppa, su di un fondo resistente, e fermare le gomene ai due molinelli di bordo, mentre il tenente faceva preparare le vele, per allontanarsi subito, disincagliata la nave, dal pericoloso bacino che gli scogli chiudevano quasi interamente.

Alle 10 tutto era pronto a bordo del «Danebrog» e tutti gli uomini ai loro posti.

La marea cresceva con qualche rapidità, coprendo le nere degli scoglietti e producendo sopra questi un forte gorgoglio. Ben presto quasi tutte le rocce scomparvero e a prua della nave si udì un leggero fremito seguito tosto da alcuni scricchiolii.

– Pronti! – gridò il capitano.

I marinai si curvarono sulle aspe dei molinelli e attesero con trepidazione. Più di un viso era diventato pallido per l’emozione.

I fremiti e gli scricchiolii continuavano, anzi diventavano più forti man mano che il flusso montava.

Alle 12,25 il capitano, che aveva in mano un cronometro, gridò con voce tonante:

– Forza, ragazzi! Forza!

I marinai diedero un colpo violento alle aspe che si curvarono. Le due gomene di poppa si tesero senza che le ancore si movessero, ma la nave, quantunque continuasse a scricchiolare, non si mosse. Il capitano impallidì e si sentì bagnare la fronte di un freddo sudore.

– Forza, forza! – ripetè.

Il tenente si precipitò in aiuto dei marinai che facevano sforzi disperati. Passarono alcuni secondi che parvero lunghi come tanti minuti poi il «Danebrog» scivolò bruscamente sulla sabbia retrocedendo con notevole velocità. Il capitano, che era subito balzato a prua, lasciò andare a picco un ancorotto, mentre il tenente correva alla ribolla del timone.

Il «Danebrog» percorse cinquanta braccia, poi si arrestò di colpo a meno di una gomena dagli scogli.

Un urrah fragoroso irruppe da tutti i petti. La nave baleniera era ormai salva.

Il tenente si fece incontro al capitano che era diventato raggiante di gioia e gli strinse vigorosamente la destra.

– Dio ci protegge – gli disse.

– Bisogna crederlo, signor Hostrup, – rispose Weimar. – Ho tremato assai per il mio «Danebrog», che amo come se fosse un pezzo della mia carne. Se l’avessi perduto non mi sarei più consolato.

– Ed ora andiamo?….

– Sulle coste della Giorgia, tenente. Faremo una rapida campagna, poi torneremo a sud.

– Con un carico completo, speriamo.

– Sì, tenente. Il cuore mi dice che vinceremo la scommessa.

– Dio lo voglia, capitano.

Non essendo prudente fermarsi fra quegli scogli, Weimar fece calare in mare le baleniere e rimorchiare il «Danebrog» al largo.

Alle 2 del pomeriggio, dopo aver visitata la riparazione che fu trovata perfettamente asciutta, i marinai spiegavano le vele e la nave si rimetteva in cammino dirigendosi verso il capo di Galles, che forma l’estrema punta, verso occidente, della costa americana.

Il mare era quasi tranquillo, di un verde superbo e affatto deserto. Solamente delle procellarie e dei gabbiani volteggiavano sopra le larghe ondate, mandando di quando in quando delle rauche strida.

Un vento fresco, ma che soffiava irregolarmente, ora da sud ed ora da sud-sud-est, gonfiava le vele della nave, la quale scivolava con celerità discreta lasciandosi a poppa un solco spumeggiante.

– Signor Hostrup, – disse Koninson avvicinandosi al flemmatico comandante che guardava attentamente le onde, appoggiato alla murata di tribordo – impiegheremo molto a raggiungere la costa americana?

– Prima di mezzanotte gireremo il capo di Galles, fiociniere.

– Ditemi, tenente, è vero che questo stretto ha una profondità spaventevole?

– Sì e tanto che se una fregata affondasse, i suoi alberetti rimarrebbero fuori dall’acqua. Se vuoi saperlo, la sua spaventevole profondità non supera i diciannove metri.

– Soli?

– Soli, Koninson, nè uno più nè uno di meno.

– E sono molti anni che fu scoperto questo stretto?

– Non troppi, Koninson. Prima del 1741 lo si ignorava, anzi molti credevano che l’America fosse unita all’Asia.

– E chi lo scoperse?

– Vito Behring

– Un russo?

– Per i russi sì, ma per gli altri no, poichè Bhering è nato in Danimarca come ci sono nato io e come ci sei nato tu.

– Ah! Un nostro compatriota! Deve essere stato un grande marinaio.

– Se non lo fosse stato, non si sarebbe spinto fin qui, a quel tempi in cui si ignorava dove erano le coste, le isole, gli scogli, i banchi e quali le correnti.

– Aveva intrapreso la spedizione per suo conto?

– No, per incarico dell’imperatrice delle Russie, Caterina. E ciò accadeva nel 1728, ma Behring volle prima esplorare le coste siberiane e accertarsi se il Giappone era unito o staccato dalla penisola di Kamtsciatka. Dapprima navigò verso sud-est, ma non trovando alcuna terra mise la prua verso nord-est e dopo 44 giorni, a 58° 50’ di latitudine, scopriva le montagne della costa americana.

– E vi sbarcò?

– No, poichè allora scoppiò una tempesta così orribile che lo costrinse a ritornare, e quale ritorno! Il 3 novembre la spedizione naufragava su di un’isola lontana 160 chilometri dalla penisola di Kamtsciatka e colà pativa tali sofferenze che molti marinai perirono e fra questi anche Behring.

E qui viene un punto molto oscuro.

Si narrò da taluni che quando lo sfortunato navigatore fu gettato nella fossa onde seppellirlo, respirava ancora anzi che respingeva colle mani la sabbia che gli veniva gettata sopra.

– Che sia stato commesso un delitto?

– Chi può dirlo?

– Povero Behring! E cosa successe dei suoi compagni?

– Rimasero colà tutto l’inverno, poi fabbricarono una navicella coi rottami della nave naufragata e ripresero coraggiosamente il mare; dopo altri patimenti riuscirono a raggiungere le coste della penisola di Kamtsciatka.

In quell’istante si udì un marinaio, che era salito sulla gran gabbia segnalare la costa americana, che una nebbiola aveva fino allora tenuta celata. Era il capo di Galles, punta scoscesa, aridissima, dietro la quale, ad una certa distanza però, si elevano delle montagne che per la maggior parte dell’anno si vedono coperte di neve.

Il «Danebrog», che correva assai, si avvicinò alla costa, poi virò di bordo dirigendosi verso il golfo di Krotzebue che si apre fra il capo Krusenstern a nord e il capo Espemberg a sud e che rinchiude ad est la baia di Escholtz, davanti la quale si trova l’isola Chamisso, a sud quella di Spasariet e ad ovest quella di Buona Speranza.

A due chilometri dal capo di Galles la costa americana, che fino allora si era mostrata dirupatissima, cominciò ad abbassarsi e apparvero immense paludi sulle quali si vedevano volteggiare migliaia di oche, di gabbiani, di gazze marine, di strolaghe e di urie. Le loro grida, portate dal vento, giungevano fino a bordo del «Danebrog».

Alcuni di quegli uccelli vennero fin presso la nave, e il tenente si divertì a sparare alcune fucilate.

Durante la notte del 12-13 – notte per modo di dire, poichè il sole splendeva sempre – il vento crebbe considerevolmente, accelerando la corsa del «Danebrog», e la temperatura, fino allora dolcissima si abbassò improvvisamente a 0°. L’indomani il legno girava il capo Espemberg e passava dinanzi al golfo di Kotzebue che s’insinua entro terra per ben venti leghe su una larghezza di ventitrè. Le sue coste erano alte, spalleggiate da gruppi di montagne e apparivano affatto deserte. Nessun canotto solcava le acque tranquille del golfo, dove in certe epoche si recano a pescare gli indiani Kitgoni che abitano le sponde settentrionali, e gli indiani Kiumisi che abitano le meridionali.

 

Di balene nessuna traccia. Invece furono segnalati alcuni delfini gladiatori, nemici accaniti delle prime, dotati di una forza prodigiosa e di una voracità straordinaria. Qualcuno era lungo più di otto metri.

Il 14, presso il capo Krusenstern, Koninson che guardava sempre attentamente il mare sperando di trovare quelle materie oleose che si lasciano addietro le balene, segnalò un banco di «boete», il quale aveva fatto cangiare tinta all’acqua, che appariva bruna anzichè verdastra. Questi banchi, che le balene cercano avidamente, sono formati da piccoli crostacei in forma di gamberi ma il cui diametro non supera i due millimetri e si producono in primavera e in estate. Talvolta hanno una lunghezza di quindici e persino venti leghe, una larghezza di una o due e uno spessore di quattro o cinque metri.

– Una volta, quando s’incontravano questi banchi, si trovava sempre una balena o anche due – disse malinconicamente Koninson, volgendosi verso il tenente che gli stava presso.

– Mio caro fiociniere, oggi le balene sono assai scemate rispose Hostrup. – Non sono molti secoli che si vedevano a frotte nel mare di Biscaglia, ed ora se si vuol trovarne una bisogna risalire in questi mari.

– Sono forse diminuite a causa di qualche malattia?

– No, a causa della caccia accanita dei balenieri. Ogni anno se ne distruggono un numero grandissimo, anzi non si esita ad affermare che nessuna balena può raggiungere il suo completo sviluppo, perchè prima di questo cade sotto il rampone dei fiocinieri.

– E siamo solamente noi a distruggerle?

– Purtroppo no. Le balene hanno altri nemici e forse più accaniti di noi.

– E quali mai? Chi osa sfidare simili giganti che hanno una coda così possente?

– Il più feroce è un crostaceo detto «pidocchio di balena», il quale aderisce talmente alla pelle dei cetacei che per staccarlo bisogna farlo a brani.

– Ma come può, un crostaceo, uccidere una balena?

– Nel modo più facile, Koninson. Questo pidocchio le si aggrappa nei punti più delicati, o sulle labbra, o sugli organi generativi e comincia a rodere cacciandosi entro le carni, causandole dolori sì atroci che dopo un certo tempo la disgraziata è costretta a morire.

– Che mostro!

– Ma ci sono altri nemici e non meno feroci. I capodolii, come ben sai, assalgono le balene tutte le volte che le incontrano e le mordono, così orribilmente da ucciderle.

– Ho assistito una volta a una simile lotta.

– Ve ne sono degli altri: i pescispada e i narvali, che si divertono a cacciare il loro acuto corno nel ventre dello sfortunato cetaceo; e i delfini, specie quelli detti gladiatori, che gli si cacciano, in bocca e ne divorano la lingua.

– Che canaglie! E di tutti questi nemici quale è il più terribile?

– L’uomo, il quale ogni anno ne distrugge centinaia e centinaia.

– Allora verrà un giorno che non se ne troverà più una.

– Sì, se le balene non si affrettano a rifugiarsi al di là dei ghiacci eterni, sotto il polo.

– E nell’oceano australe sono pure così accanitamente cacciate dai balenieri?

– Tanto come su questi mari.

– E le balene di quell’oceano sono eguali a quelle di questo?

– No, Koninson; ve ne sono tre specie e tutte differenti dalla balena franca che noi cacciamo. Vi si trova il «rightwhale», un cetaceo molto grande e che è privo della pinna natatoia; l’«hump-back» con due pinne biancastre e che è grosso come una balenottera, infine il «finback», d’una tinta bronzina, di una irrequietezza straordinaria e assai rumoroso.

– E tutti danno olio?

– Tutti, Koninson.,

– Ah! Vorrei provare il mio rampone anche contro quei giganti.

– Lo proverai fiociniere. Se usciamo salvi da questa spedizione, l’anno venturo andremo a pescare nel mari del sud. Il capitano me l’ha promesso.

– Quel giorno che metteremo la prua a sud sarà il più bello della mia vita, signor Hostrup.

– Lo credo, fiociniere.