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Capitan Tempesta

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Pareva che papà Stake avesse veramente gli occhi d’un gatto, perchè evitava le colubrine disposte dietro ai sabordi senza mai incespicare, nè rompersi il naso.

Giunto all’estremità poppiera del frapponte, seguì la tramezzata che si estendeva sotto il quadro, cercando colle mani la porta che doveva mettere nel magazzino delle vele, delle gomene e degli attrezzi di ricambio.

Trovata una maniglia, l’afferrò e spinse. Una porta si aprì senza difficoltà.

– Il rinnegato ha mantenuto la promessa fattaci, – mormorò, respirando a lungo. – Questa è la volta che l’orso della Polonia muore.

Si volse verso i compagni, dicendo:

– Fermatevi qui, voi e datemi l’esca e l’acciarino.

– Eccola, mastro, – rispose Nikola.

– È ben asciutta l’esca?

– Prenderà fuoco subito.

– Benissimo: in mezzo minuto tutto sarà finito. Che nessuno si muova e che nessuno parli, soprattutto.

Prese i due oggetti e scivolò nel magazzino procedendo carponi, essendo il tavolato ingombro di casse, di gomene, di pennoni, di catene e di vele arrotolate, e quando fu bene innanzi accese l’esca.

– È tutto incatramato qui: che bel fuoco! Arrostirà anche la mezzaluna.

Vi era lì presso un barile pieno di pece. Il mastro raccolse alcune manate di canape, le incendiò e poi le lasciò cadere parte sui velacci e parte sulla pece.

Quando vide sprigionarsi dapprima una nuvola di fumo e poi brillare delle fiamme, si slanciò fuori dal magazzino urtando Nikola e Perpignano che stavano per raggiungerlo.

– Presto! – mormorò. – Nella cala! Fra mezz’ora tutta la galera sarà in fiamme!

CAPITOLO XXV. Al fuoco! Al fuoco!

Il sole era appena tramontato, quando Metiub, come aveva promesso, scese nella cabina della duchessa per condurla nell’infermeria, dove il visconte gemeva sotto i ferri del medico di bordo, il quale invano cercava di estrargli la palla.

La giovane signora, in preda a profonde angosce, poichè più nessuno si era fatto vedere durante la giornata per darle notizie del fidanzato, nemmeno Laczinki, forse per non suscitare sospetti, lo aspettava. Pareva che la sua straordinaria energia si fosse finalmente esaurita dopo tante terribili emozioni.

Vedendo entrare il turco si era alzata quasi con fatica, scrutando attentamente il viso di lui che appariva piuttosto oscuro.

– Dunque? – gli chiese con ansietà.

– Hussif non è ancora in vista, – rispose Metiub, che pareva fosse di cattivo umore. – La calma continua e la galera non avanza più di una testuggine. Non giungeremo alla rada prima di domani mattina e forse più tardi.

– Non vi chiedo d’Hussif, – disse la duchessa. – È la salute del visconte che m’interessa.

– Il medico non può dire ancora nulla, signora. La palla è sempre conficcata nelle carni e non la si potrà estrarre.

– Allora morrà! – esclamò Eleonora con spavento.

– Che cosa dici, signora? Anch’io a Nicosia ho ricevuto una palla di pistola nel costato destro: nessuno ha potuto levarmela, eppure sono ancora vivo e non mi dà alcuna noia. Quando si sarà stancata di passeggiare pel mio corpo, si presenterà a fior di pelle e le farò aprire la porta con un semplice taglio.

– Voi mi allargate il cuore.

– Non dico però che lo stato del visconte sia troppo buono. La ferita è sempre grave, signora, e non si rimarginerà facilmente.

– Posso vederlo?

– Te l’ho promesso, ma prima che giungiamo a Hussif tu m’insegnerai quel famoso colpo di spada. Ci tengo ad impararlo.

– Sì, però non ora; domani, prima di giungere a Hussif o dinanzi ad Haradja.

– Oh, non in presenza della nipote del Pascià – rispose vivamente il mussulmano. – Potrebbe mancare l’occasione più tardi.

– Cioè, vorreste dire che Haradja potrebbe uccidermi prima che vi abbia insegnata quella stoccata, – disse la duchessa, con amara ironia.

– Io non posso indovinare i pensieri di quella strana donna, – rispose Metiub. – Orsù, vieni, signora. La notte è calata.

Si tolse dal braccio un mantello di lana bianca, adorno d’una larga fascia rossa verso il fondo e di fiocchi di filo d’argento e lo gettò sulle spalle della duchessa, abbassandole il cappuccio fino sulla fronte.

– Andiamo, signora, – disse.

Uscirono dalla cabina e salirono in coperta. Pochi uomini vegliavano, dispersi lungo le murate di babordo e di tribordo, regnando in quel momento sul Mediterraneo una calma, simile a quelle che immobilizzano per settimane e settimane le navi che s’avventurano nelle zone intertropicali.

La duchessa però scorse subito un uomo avvolto in una lunga cappa di lana oscura, che stava appoggiato all’albero poppiero e che le fece un gesto d’addio colla mano.

Era il polacco.

Guidata da Metiub, attraversò tutta la tolda della galera e scese nella batteria che era stata illuminata con due lanterne, passando poi nella corsìa proviera riservata ai feriti.

Vi erano due dozzine di lettucci sospesi alle travature da corde, affinchè i malati non avessero a risentire troppo dei soprassalti della galera durante le forti ondate.

Su uno stava curvo un vecchio turco dalla lunga barba bianca, ed il volto incartapecorito e dalla tinta oscura come quella degli arabi.

– È là – disse Metiub, volgendosi verso la duchessa. – Ti aspetto in coperta, signora.

La duchessa s’avanzò verso il lettuccio presso cui ardeva una lampada appesa alla parete.

Il vecchio turco, che aveva udite le parole del comandante, si era affrettato a trarsi da parte.

Il visconte pareva assopito. Era sempre pallidissimo ed un sudore vischioso gli imperlava la fronte, mentre due semicerchi azzurro cupi si stendevano sotto i suoi occhi.

Il suo respiro era sibilante ed in fondo al petto si udiva un sordo gorgoglio, come se il sangue cercasse di prorompere attraverso le fasce della ferita.

– Muore? – chiese la duchessa, guardando il dottore che la osservava con viva attenzione.

La domanda, fatta in lingua araba, fu subito compresa.

– No, signora, – rispose il vecchio che parlava pure il dolce idioma dei figli del deserto. – Non aver timore, per ora almeno.

– Guarirà?

– È nelle mani di Allah.

– Se tu, sei veramente un tobib, dovresti saperlo.

– Maometto è grande, – si limitò a rispondere il medico.

– Gastone! – mormorò la duchessa con voce dolce. – Mio Gastone!

Il ferito, che forse si era appena assopito, aprì gli occhi ed un lampo di gioia sconfinata illuminò le sue pupille. Un leggero rossore colorì per qualche istante le sue gote, poi subito scomparve.

– Voi… Eleonora… – mormorò con voce semispenta. – Questa… palla… questa… palla…

– Non parlate, – disse il medico, con tono imperioso. – La ferita è grave.

– Tu lo salverai, è vero? – disse la duchessa. – Tu devi essere un bravo tobib.

– Oh, sì, – rispose il turco, lisciandosi nervosamente la bianca barba, – Questo signore non morrà.

Un pallido sorriso sfiorò le labbra del visconte, mentre stringeva i denti per trattenere un gemito.

– Non parlare, – disse il tobib, con voce secca, vedendo che stava per aprire la bocca. – Vuoi ucciderti?

– No, Gastone, non aprite la bocca, – disse Eleonora. – Ne va della vostra guarigione.

Il visconte non aprì le labbra: prese invece una mano della duchessa e la strinse febbrilmente.

– No, – mormorò. – No… non lo volete…

Socchiuse gli occhi per un momento, poi li riaprì, fissandoli intensamente sulla fidanzata.

– Che cosa volete, Gastone? – chiese la duchessa.

– Amatemi… – sospirò il visconte. – La morte… mi colga pure… vedervi… così… come quella notte… a Venezia…

– Non parlate, – disse per la terza volta il tobib. – Io devo rispondere colla mia testa della vostra guarigione.

In quel momento, un grido terribile s’alzò fra gli uomini di guardia che passeggiavano sulla tolda:

– Al fuoco! Al fuoco!

Il tobib aveva fatto un salto verso la porta, mentre la duchessa si precipitava verso la batteria, gridando a piena gola:

– Aiuto! La galera brucia!

Il polacco era comparso all’estremità della corsia.

– Non spaventatevi, signora, – le disse, accostandosele rapidamente. – Quando il pericolo diverrà grave io verrò a salvare voi ed il signor Le Hussière. Non muovetevi da qui e abbiate in me piena e assoluta fiducia. Vado a liberare i vostri marinai.

– Il visconte prima di tutti, ricordatevelo, – rispose la duchessa con voce minacciosa.

– Ho giurato disse il polacco – e mi premete troppo voi, per mancare alla mia promessa. Siate tranquilla: tutto finirà bene.

– Non potranno domare il fuoco?

Un sorriso ironico spuntò sulle labbra del polacco.

– Con quali pompe? – disse poi. – Ho pensato a tutto.

Ciò detto risalì rapidamente in coperta, dove regnava una grande confusione.

Tutta la guardia franca usciva dalla camera comune di prora, onde cooperare all’estinzione del fuoco che doveva essersi manifestato violentissimo, a giudicarlo dalle ondate di fumo denso e puzzolente, che irrompevano nel quadro del boccaporto di poppa che era aperto.

Il polacco si accostò a Metiub, il quale sagrava lanciando ordini a destra e a manca.

– Dov’è scoppiato il fuoco? gli chiese.

– Nel magazzino degli attrezzi di ricambio, a quanto pare, – rispose il turco che pareva furibondo.

– Chi può aver incendiato quel luogo?

– Chi… Chi… ! Quei cani di cristiani di certo.

– Tu perdi la testa, capitano. Sono rinchiusi nella cala che si trova a prora mentre il fuoco è scoppiato a poppa. Lascia anzi che vada a liberare quegli uomini e mandiamoli alle pompe. Le braccia non sono mai troppe in simili disastri.

– Hai ragione, capitano, – rispose Metiub. – Va’ a liberarli e facciamoli lavorare.

Era quello che desiderava il polacco, il quale temeva che i turchi s’accorgessero della mancanza della sbarra di ferro che aveva levata alla botola.

 

Mentre l’equipaggio, calmatosi alquanto, si disponeva a combattere vigorosamente l’incendio, il polacco scese nel frapponte e passò nella cala.

I greci, Perpignano, El-Kadur e papà Stake stavano radunati all’estremità della scaletta, ascoltando attentamente i rumori che provenivano dalla tolda.

– Salite! – gridò il polacco affacciandosi alla botola.

– Il fuoco? – chiese Perpignano che precedeva tutti.

– Avvampa terribile – rispose il polacco.

– E la mia padrona? – chiese El-Kadur, con ansietà.

– Non corre alcun pericolo; non preoccuparti.

– Voglio vederla disse l’arabo con energia.

– Va’ a raggiungerla, se vuoi e veglia anche tu su di lei. Si trova nell’infermeria. Sbrigatevi voialtri e guardatevi dal tradirvi.

Il drappello si slanciò nel frapponte, che era ormai invaso da un fumo densissimo fortemente impregnato di catrame e comparve in coperta.

– Alle pompe i cristiani! gridò Metiub appena li vide.

– Meno me, – disse Nikola avvicinandosi al polacco.

– Perchè tu no?

– Vi siete dimenticato della gagliotta, signore?

– Che cosa vuoi fare, Nikola? – chiese Perpignano che l’aveva udito.

– Aspetto che le scintille cadano su quel legno e lo incendino onde impedire ai turchi di salvarsi su quello e di condurci egualmente a Hussif.

– Tu sei un brav’uomo, – disse il polacco.

– Non preoccupatevi di me, ci ritroveremo sulla costa. Cinque miglia a nuoto non mi fanno paura. Al momento opportuno scomparirò.

– Alle pompe i cristiani! – urlò per la seconda volta Metiub. – Volete che vi faccia frustare?

I greci con Perpignano, papà Stake e Simone si affrettarono a obbedire, mentre invece Nikola, approfittando della confusione che regnava ormai sulla galera, tornava nel frapponte coll’idea probabilmente di calarsi in acqua da qualche sabordo e di raggiungere a nuoto la gagliotta.

Il fuoco, che aveva trovato un alimento formidabile nelle gomene incatramate, nei velacci e negli attrezzi di ricambio, in pochi minuti aveva preso proporzioni spaventose.

Il quadro ormai era tutto in fiamme e lunghe lingue ardenti sfuggivano attraverso i sabordi di poppa, investendo il fasciame.

I turchi, che pareva avessero perduta la testa, correvano all’impazzata qua e là, sordi ai sagrati di Metiub e degli ufficiali, invocando Allah ed il Profeta, invece di formare le catene coi buglioli.

I greci, guidati da papà Stake si erano slanciati verso le pompe, per non far nascere qualche sospetto, ma quando cominciarono a premere sulle aste, s’accorsero che dalle bocche di presa non usciva nemmeno una goccia d’acqua.

– Capitano, – disse papà Stake, fermando Metiub che gli passava accanto. – Le vostre pompe sono inservibili.

– Che cosa dici, cane d’un cristiano? – urlò il turco.

– Che, senza essere un cane, le vostre pompe non dànno acqua e ve lo dice un vecchio mastro della flotta veneziana.

– Se le ho fatte provare l’altro giorno!

– Non so che cosa dirvi: il fatto è che con queste non spegnerete mai l’incendio.

Metiub lanciò una bestemmia, che non dovette certo riuscir gradita nemmeno agli orecchi del Profeta.

– Visitate le manichelle! – gridò, volgendosi verso i suoi ufficiali che s’affannavano a formare le catene.

Due o tre uomini si mossero per eseguire l’ordine, ma tosto delle grida di terrore s’alzarono.

– Le manichelle sono tagliate! Siamo perduti!

Papà Stake guardò il polacco che era forse l’unico che in tanto trambusto conservasse una calma perfetta e lo vide sorridere sardonicamente.

– Ho capito, – borbottò il brav’uomo. – È stato lui a fare il colpo. Credevo prima che i più furbi fossero i greci; ed ora m’accorgo che hanno dei maestri fra i polacchi. Orsù, la galera se ne va ed è meglio sgombrarla.

Quantunque la notizia sparsasi che le pompe erano inservibili avesse sgomentato anche Metiub, pure l’equipaggio non aveva perduto la speranza di salvare la nave.

Delle catene si erano prontamente formate per passare più rapidamente i buglioli e l’acqua aveva cominciato a correre abbondantemente, dentro il quadro, dove l’incendio avvampava già terribilmente in causa dei barili di pece che ingombravano il sottostante magazzino.

Immense nuvole di fumo irrompevano dai boccaporti di poppa, avvolgendo l’alberature e getti di scintille s’innalzavano, minacciando di mettere fuoco alle vele che nessuno aveva pensato di far abbassare sul ponte.

I greci e papà Stake, per meglio ingannare i turchi e allontanare sempre più qualsiasi sospetto, facevano del loro meglio per versare acqua entro quella fornace, che non accennava ad estinguersi, affrontando coraggiosamente quel turbinio di scintille e quel fumo fetente che rovinava le gole. Ogni sforzo però era vano. Le fiamme continuavano a dilatarsi, minacciando di avvolgere fra le loro spire distruggitrici tutta la poppa del veliero.

Già guizzavano attraverso le tavole ormai consunte dell’alto cassero ed irrompevano attraverso gli ampi sabordi del quadro, facendo colare il catrame del fasciame e divorando i corbetti ed i bagli.

Il frapponte e le batterie erano ormai così piene di fumo che nessuno poteva più discendere. I puntali cadevano, uno ad uno, con fragore e la scassa dell’albero di mezzana aveva pure preso fuoco.

Metiub non aveva ancora perduta la speranza di poter conservare la sua bella galera; con saggia previdenza aveva subito fatta inondare la santabarbara onde le polveri non prendessero fuoco e mandassero tutti all’aria e per maggior precauzione aveva fatto mettere in acqua le scialuppe onde salvarsi sulla gagliotta che era sempre a rimorchio.

Quelle misure erano state prese appena a tempo, poichè mezz’ora dopo, nonostante gli sforzi energici dei mussulmani, le fiamme raggiungevano la polveriera. Ormai tutta la poppa avvampava e miriadi di scintille, spinte dalla brezza notturna, cadevano anche in gran numero sulla gagliotta, minacciando d’incendiare la sua alberatura.

Era quello che aspettava Nikola. Nessuno poteva sospettare di lui non essendo stata notata, fra la confusione che regnava a bordo della galera, la sua assenza. Aveva già disposto tutto per farla avvampare rapidamente, spargendo sotto il ponte catrame, pece e polvere da sparo.

Metiub, che ormai aveva compreso essere inutile ogni lotta contro il terribile elemento che divorava ingordamente ogni cosa, stava per dare il comando di abbandonare la nave e di salvarsi sulla gagliotta, quando delle grida di spavento echeggiarono sul ponte.

– Ha preso fuoco! Ha preso fuoco!

– Che cosa? – chiese il capitano Metiub, slanciandosi fra i vortici di fumo.

– La gagliotta ha preso fuoco!

– Ecco la fine, – disse il mussulmano con ira. – Allah così voleva ed era scritto!

Il fatalismo turco aveva spento subitamente quello scatto di rabbia.

Tuttavia non volle darsi ancora per vinto.

– Acqua, marinai! Acqua! Non dobbiamo perdere la galera che ci ha affidata la nipote del grande ammiraglio, – gridò con suprema energia, – Tutto non è ancora perduto.

Ci voleva ben altro che quell’acqua versata dai buglioli per spegnere quelle vampe che ormai minavano da tutte le parti la nave.

Nemmeno le pompe sarebbero state più sufficienti a domarlo, anche se fossero state in numero doppio.

Le fiamme si erano aperte un varco attraverso il tavolato del cassero già consunto, e alimentate dalla brezza che cominciava a soffiare con forza, s’abbattevano sulla tolda, in cortine orizzontali, che parevano tende ondeggianti agitate senza posa da una miriade di diavoletti.

Si udivano i legnami a crepitare e contorcersi. L’incendio dilagava, volava anzi, guadagnando sempre, divorando le travature di pini del Mar Nero già sature di resina.

Tutta la poppa della galera non era altro che una immensa fornace che vomitava come un vulcano, nuvoloni di fumo vermiglio, sulfureo, bianco e nero, che s’allungavano a perdita d’occhio ottenebrando e tingendo di colori sinistri il mare, le velature e gli uomini.

Un turbinìo furioso di scintille e di cenere copriva tutta la galera e le esplosioni che si succedevano per lo scoppio dei barili pieni di catrame e di pece, lanciavano una vera grandine di braci e di tizzoni ardenti che spazzavano il ponte come scariche di mitraglia, facendo indietreggiare turchi e cristiani.

– È finita, – disse papà Stake gettando via il bugliolo. – Se noi non ce ne andiamo, cuoceremo tutti come costolette in mezzo al catrame.

Il polacco che gli stava dietro lo interpellò:

– Lo credi proprio?

– È ora di scappare, capitano, – rispose il vecchio lupo di mare. – Se tardiamo ancora un po’, ci mancherà la tolda sotto i piedi e allora buona notte a tutti.

– Dov’è El-Kadur?

– Presso il visconte.

– Vado a occuparmi della duchessa e del ferito.

– Fate presto, signore: il catrame fra poco scorrerà sotto di noi.

Metiub in quel momento accorreva, seguito da parte dell’equipaggio.

– Ce ne andiamo dunque? – gli chiese il polacco fermandolo.

– La galera è perduta, – rispose il turco, facendo un gesto disperato.

– Tutti lo vedono.

– Guadagneremo la costa colle scialuppe.

– Ci staremo tutti?

– Lo spero. Andate a salvare la signora.

– Ci penso io, – rispose il polacco.

Attraversò di corsa la tolda e si precipitò nell’infermeria, mentre i turchi s’affollavano confusamente sulle murate per prendere posto nelle imbarcazioni.

El-Kadur stava per prendere fra le braccia il visconte, quando il polacco comparve.

– Occupati della tua padrona, – gli disse Laczinki. – Ci penso io al visconte; tobib, aiutami.

– Lasciamo la galera? – chiese la duchessa che pareva smarrita.

– Sì, signora, – rispose il rinnegato. – La tolda sta per cadere e gli alberi non si reggono più.

– E Perpignano, papà Stake?…

– Non so dove siano. C’è una confusione enorme lassù. Sbrighiamoci, signora, o non troveremo più posto nelle scialuppe.

Avvolse in una coperta il visconte, il quale era nuovamente svenuto, lo prese fra le robuste braccia e seguì la duchessa che El-Kadur traeva quasi a forza verso il frapponte, ingombro ormai di fumo e di fiamme.

Il vecchio medico li aveva già preceduti per preparare al ferito un posto su una delle scialuppe.

CAPITOLO XXVI. L’assassinio del visconte Le HUssière

Una confusione spaventevole regnava sulla tolda della galera. I marinai, appena Metiub aveva dato l’ordine di sgombrare e di salvarsi, si erano avventati contro le murate per giungere prima sulle imbarcazioni che erano state accostate sotto il tribordo del veliero e siccome tutti non potevano ad un tempo calarsi giù dai paranchi, avevano impegnata una lotta furibonda a pugni, a calci e anche a colpi di coltello.

Invano Metiub ed i suoi ufficiali avevano tentato di regolare la discesa nelle scialuppe. Più nessuno li ascoltava; la disciplina non regnava più a bordo della galera.

Papà Stake, che si era immaginato quello che doveva succedere e che voleva serbare ad ogni costo una scialuppa per la duchessa e pel signor Le Hussière, si era aggrappato ad un paranco e, spalleggiato da Perpignano, da Simone e dai greci, oppose una disperata resistenza.

– Lasciate questa barca alla signora, gaglioffi! – urlava. – Nessuno la prenderà! A me, signor Perpignano! Rompete i musi a questi birbanti!

Una banda di mussulmani si era rovesciata addosso ai greci ed ai veneziani, per impadronirsi della scialuppa, urlando ferocemente:

– Via di qui i giaurri! Buttiamoli in acqua!

Un turco si era gettato contro il mastro cercando di fargli lasciare il paranco. Papà Stake, senza nemmeno voltarsi, gli sferrò un calcio nel ventre e così terribile da farlo stramazzare sulla tolda mezzo accoppato.

Perpignano, trovata una scure appesa al bastingaggio, l’aveva alzata sulle teste degli altri, gridando minacciosamente:

– Indietro o vi spacco il cranio.

Anche i greci e Simone non rimanevano inoperosi. Tempestavano, con pugni e calci, i miscredenti ben lieti di approfittare di quella confusione per vendicarsi delle lunghe umiliazioni patite e come lavoravano! Metiub però, che ci teneva a salvare la duchessa, per imparare quel famoso colpo di spada, fu lesto ad intervenire, facendo sibilare la scimitarra sulle teste dei suoi marinai.

– Via di qua, miserabili! – tuonò, prendendo a piattonate i più vicini. – Devo ricondurre ad Haradja quella signora ed i cristiani e manterrò la promessa. Via o la mia lama berrà sangue mussulmano!

In quel momento la duchessa era comparsa sul ponte, con El-Kadur e seguita dal polacco e dal medico, i quali reggevano il visconte.

 

– Largo! – urlò l’arabo. – Prima la signora!

Mentre i greci e Perpignano, aiutati da Metiub, respingevano i turchi per aprire il passo alla duchessa, un drappello di marinai che cercavano di sottrarsi alla pioggia di tizzoni e di cenere che cadeva sulla tolda, si gettò fra i cristiani separandoli.

Il polacco, che non aveva ancora raggiunta la murata, fu travolto dai fuggiaschi e sospinto verso tribordo.

– Ecco il buon momento, – mormorò. – Maometto ed il diavolo mi aiutano.

Non scorgendo più nè la duchessa, nè i veneziani, nè i greci, che erano stretti contro la murata dai fuggiaschi, si volse verso il vecchio medico, dicendogli:

– Salvati e non pensare a me; ci penso io al ferito. Fa’ presto o non troverai posto nelle scialuppe.

Poi, sicuro di non essere osservato, passando sulla tolda nuvoloni di fumo scavalcò la murata di tribordo, e tenendo sempre stretto il visconte, che non aveva ancora ripresi i sensi, si lasciò cadere risolutamente in mare.

Sprofondò, sollevando un getto di spuma, e, quando ricomparve, era solo.

– Vadano a ripescarlo ora, – mormorò il miserabile. – D’altronde era ormai un uomo morto che nemmeno quell’imbecille di tobib avrebbe potuto salvare.

Quantunque indossasse una corazza piuttosto pesante ed avesse a fianco lo spadone polacco, si mise a nuotare vigorosamente lungo il bordo della galera, passando sotto la prora.

Cercava di raggiungere le scialuppe che si trovavano dall’altra parte e che forse in quel momento stavano per prendere il largo.

Un canotto montato da una mezza dozzina di mussulmani stava proprio allora staccandosi.

– A me, marinai! – gridò. – Non lasciate perire un capitano dei giannizzeri.

– Siamo già troppo carichi, – rispose una voce.

– Fermatevi, canaglie, o vi taglio gli orecchi. Ho ancora la spada al fianco!

– C’è un posto ancora, – disse un’altra voce. – Accosta, capitano. Il polacco, che doveva essere un buon nuotatore, con quattro bracciate raggiunse il canotto ed aiutato dai marinai fu levato dall’acqua.

– Dritti alla costa, – disse subito. – Avrete cinquanta piastre di regalo.

Si collocò a poppa, prese la barra del timone e la leggera imbarcazione prese subito il largo, dirigendosi verso l’isola che non era lontana più di cinque o sei miglia.

Passando accosto alla poppa, il polacco scorse la duchessa scendere lungo il paranco, sorretta da El-Kadur.

– Che gli altri brucino pure, – mormorò. – A me basta che si salvi lei. Voga! Non lasciamoci raggiungere o ci affonderanno.

La galera e la gagliotta bruciavano come due zolfanelli. Il fuoco, non più combattuto, guadagnava rapidamente, investendo le alberature.

Bruciavano ormai le vele ed i pennoni, coprendo le tolde di tizzoni fiammeggianti e di lembi di stracci infiammati.

Sulla tolda della nave da guerra la lotta continuava feroce, fra i turchi, i quali si disputavano accanitamente le scialuppe che ancora rimanevano e che non potevano bastare a tutti.

Di quando in quando degli uomini cadevano o forse venivano precipitati in mare ed urla spaventevoli s’alzavano in mezzo alle ondate di fumo e alle lingue di fuoco.

Quando il vento abbatteva quelle cortine fiammeggianti, si vedevano correre sulle murate, come spettri, illuminati da bagliori d’inferno, file di marinai che avevano le vesti infiammate.

Un vecchio mastro, dalla lunga barba bianca, ritto sulla crocetta dell’albero maestro che ardeva come una immane torcia, pallido come un cadavere, cogli occhi dilatati da una improvvisa pazzia e fissi sulle fiamme, gesticolava, ripetendo memorabili parole di Selim I:

– Ecco il soffio ardente delle mie vittime! Io sento che distruggerà l’Islam, il mio serraglio e me pure!

Il polacco, in piedi sull’ultimo banco di poppa, con una mano sulla barra del timone, guardava spaventato quella scena terribile, mentre i turchi arrancavano disperatamente.

La galera e la gagliotta erano ormai tutte in fiamme, dalla prora alla poppa, dalla cala alle crocette degli alberi.

I pennoni cadevano con immenso fracasso, storpiando od ammazzando coloro che erano ancora a bordo della grossa nave e che non si erano decisi a gettarsi in acqua; le murate cadevano, i vetri dei sabordi di poppa scoppiavano, i pezzi delle batterie rovinavano in mare attraverso i corbetti ed il fasciame ormai consunto ed in mezzo a quell’inferno, gli ultimi superstiti ululavano spaventosamente accrescendo l’orrore di quella notte.

Tutte le scialuppe, già cariche quasi da affondare, avevano preso frettolosamente il largo, senza preoccuparsi dei marinai che erano rimasti a bordo e che cadevano a drappelli, soffocati dal fumo o sotto una tempesta di tizzoni che piovevano dalle alberature.

Il polacco, che le osservava attentamente, aveva subito scorta quella montata dalla duchessa e dai cristiani ed un’altra sulla quale si era messo in salvo Metiub.

– Sarei stato più contento se quel maledetto turco fosse stato divorato da quelle fiammate – mormorò, aggrottando la fronte. – Quell’uomo può guastare i miei affari. Bah! Un buon colpo di pugnale dato a tradimento, nel mezzo delle spalle, sbarazza sovente gli importuni. E poi chissà, – aggiunse – potrei fare di lui un alleato prezioso e anche…

Una detonazione spaventevole che si ripercosse lungamente sul mare, spaventando gli equipaggi delle scialuppe lo interruppe.

Il deposito delle munizioni della gagliotta aveva preso fuoco ed era scoppiato, smembrando di colpo il piccolo veliero e facendo saltare l’alberatura.

Per alcuni istanti un fitto nuvolone coperse ogni cosa, anche la galera che era prossima, poi si vide lo scafo affondare rapidamente, colla prora in aria, che mostrava il suo bompresso a cui erano ancora appesi i fiocchi.

– L’altra non tarderà a seguirla, – borbottò il polacco. – Su, animo, marinai, date dentro ai remi. Fra mezz’ora saremo al sicuro sulla spiaggia.

I mussulmani che componevano l’equipaggio del canotto non avevano certo bisogno di essere incoraggiati.

Temendo di venire raggiunti dai loro compagni che si vedevano nuotare ancora in buon numero nelle acque della galera, arrancavano disperatamente tendendo i muscoli e puntando i piedi contro i banchi.

La leggera imbarcazione volava sulle onde, precedendo sempre tutte le altre, compresa quella montata dalla duchessa, quantunque i greci lavorassero vigorosamente per giungere a terra prima dei mussulmani, per cercare di darsela a gambe.

Verso le tre del mattino, nel momento in cui la galera stava per affondare, il polacco ed i marinai del canotto toccavano la spiaggia, in un luogo ove s’innalzavano a breve distanza delle alte rupi, che pareva non permettessero di attraversarle essendo tagliate quasi a picco.

– Prepariamoci a sostenere una parte terribile, – disse l’avventuriero, il quale, malgrado tutta la sua audacia, appariva pallidissimo. – Come la duchessa accoglierà la notizia della scomparsa del visconte? Mi crederà?

Le altre scialuppe stavano per arrivare a breve distanza le une dalle altre.

Quella della duchessa era sempre la prima; un’altra, montata da Metiub e da una dozzina e mezza di marinai, la seguiva da presso. Altre quattro, tutte molto cariche, venivano dopo.

– Se il mare le avesse inghiottite tutte, fuorché quella della duchessa, sarei stato più contento, – mormorò Laczinki. – Non so come nè quando potrò liberarmi da queste mignatte.

La scialuppa montata dai cristiani si arenò a venti passi. L’avventuriero fu pronto ad accorrere, assumendo un aspetto desolato e stringendosi addosso i panni che grondavano ancora acqua.

Eleonora, che era stata la prima a scendere, intuì una disgrazia perchè l’avventuriero la vide subito diventare smorta.

– Ed il visconte? – chiese, correndogli incontro.

– Come! – esclamò il polacco, fingendo la più alta maraviglia. – Non l’hanno calato nella vostra scialuppa?

– Chi?

– I due turchi ed il medico cui lo avevo affidato nel momento che quattro o cinque mascalzoni mi avevano assalito per strapparmelo di mano e gettarlo in mare.

– Dio! – esclamò la duchessa, portandosi una mano al cuore e vacillando. – Non era con voi?

– Sì, signora, ma ho dovuto difendermi per impedire a quei miserabili di ucciderlo e come vedete dallo stato miserando delle mie vesti, hanno avuto il sopravvento su di me e mi hanno gettato giù dalla galera.

– È morto allora! – urlò la disgraziata donna, cadendo fra le braccia di Perpignano, che era subito accorso con papà Stake.

– Aspettiamo le altre scialuppe, signora, – disse il polacco. – Forse l’avranno calato in quella montata da Metiub.