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Capitan Tempesta

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Ad un tratto parve però che avesse un lampo di pentimento. S’avvicinò alla duchessa e guardandola fissa le chiese:

– Mio bel capitano, dimmelo francamente, sei proprio sicuro di te? Mi rincrescerebbe vederti cadere, così bello e così giovane, morente ai miei piedi.

– Hamid Eleonora non teme nessuno, – rispose fieramente la duchessa. – Chiama il tuo capitano d’armi.

Haradja batté un martelletto d’argento su un disco di bronzo che pendeva da una mensola e volgendosi verso lo schiavo che era accorso, gli disse freddamente:

– Dite al capitano Metiub che l’aspetto qui, per vederlo giuocare la sua vita.

CAPITOLO XVII. Cristiano contro turco

Pochi momenti dopo il capitano turco, quello stesso che aveva condotto la duchessa e la scorta agli stagni morti, entrava nella sala con una cert’aria spavalda chiedendo:

– Mi hai chiamato, signora?

– Sì, ho bisogno di te, – rispose Haradja, accendendo una seconda sigaretta e sdraiandosi mollemente su uno dei divani che circondavano la stanza. – Sono annoiata.

– Malgrado la compagnia di questo giovane guerriero? – chiese il turco con un po’ d’ironia. – Che cosa posso fare per distrarti, signora? Vuoi che armi una scialuppa per fare una gita in mare?

– No.

– Che faccia danzare, a colpi di frusta, le tue schiave?

– Non ci trovo più gusto.

– Che i lottatori indiani sì strappino la pelle a colpi di nuki-kakusti?

– Forse, più tardi.

– Allora, parla, signora.

– Voglio accertarmi se tu sei sempre la migliore lama dell’armata mussulmana.

– Bisognerebbe che tu mi gettassi fra i piedi il Leone di Damasco, che si dice sia il più formidabile spadaccino dell’esercito. Vuoi che lo mandi a chiamare, signora?

– È troppo lontano e poi non verrebbe da me.

– Pel Profeta! Vuoi che mi misuri colle muraglie, padrona? Se ciò può distrarti, sia: spezzerò una ventina di lame, scelte fra le migliori.

– Vi è qui qualcuno che ti darà da fare, Metiub, – rispose Haradja.

– Chi? – domandò il turco, guardandosi intorno con stupore.

Haradja, con un gesto della mano gli indicò la duchessa, che si teneva ritta accanto alla tavola, come se la cosa non la riguardasse affatto.

Il turco fece un gesto di collera.

– È quel fanciullo che tu, signora, lanci contro di me? – chiese con indignazione.

– Io un fanciullo! – esclamò la duchessa, con ironia. – Pare, capitano, che tu ti sia di già scordato che io sono il figlio del pascià di Medina.

– Potrai aver forse ragione, effendi, – disse il turco. – Mi sembra tuttavia che la padrona avrebbe potuto trovare qualche altro avversario più solido, per misurarsi con me.

– Tu non mi hai ancora provato, capitano.

Il turco si volse verso Haradja che continuava a fumare, guardando ora l’uno ed ora l’altro con vivo interesse:

– Vuoi la sua morte? – le chiese. – Bada, padrona, che trattandosi del figlio d’un possente personaggio, potresti avere dei fastidi da parte di Mustafà.

– Non ti ho chiesto nessun consiglio, Metiub, – disse la nipote del grande ammiraglio. – Fa’ quello che ti ho ordinato e nient’altro.

– Io ucciderò l’effendi al primo attacco.

– Non ti chiedo tanto, – rispose Haradja. – A te, mio giovane capitano: scegli la spada che meglio ti conviene.

Mentre la duchessa s’accostava ad una delle quattro panoplie che ornavano la sala, Haradja fece al turco un segno imperioso, onde si accostasse al divano.

– Che cosa vuoi, signora? – chiese il capitano che pareva un po’ incollerito.

– Bada: una sola goccia di sangue! Se tu me lo uccidi non vedrai domani a sera a tramontare il sole.

Metiub curvò il capo, frenando a stento un gesto di stizza e spinse da una parte la tavola onde aver maggior campo.

La duchessa intanto aveva scelte tre spade italiane, lunghe, diritte colla lama piatta e la guardia solida e le provava, facendole incurvare. Non sembrava affatto preoccupata, anzi mormorava con un sorriso:

– Ciò forse frutterà la liberazione di Le Hussière. Un buon colpo di cartoccio ed il giuoco sarà fatto.

Non è possibile che questi turchi conoscano quella botta segreta della scuola napoletana e che mio padre mi ha insegnato così bene. Anche se si copre, lo toccherò dal basso all’alto.

Quando ritornò verso il centro della sala, il turco, che non l’aveva perduta di vista un solo istante, si era pure armato d’una spada eguale, quantunque avrebbe desiderato meglio avere in pugno una scimitarra.

– Mi stupisce, effendi, come tu, arabo, sappia adoperare queste armi di cui si servono solamente i cristiani.

– Ti dirò allora, capitano, che il mio maestro d’armi era un rinnegato cristiano, – rispose la duchessa. – Con queste lame si prova, meglio che colle curve scimitarre, l’abilità degli spadaccini. D’altronde un valente capitano dovrebbe saper adoperare anche quelle dei giaurri.

– Tu parli meglio del Profeta, effendi disse Haradja, accendendo la terza sigaretta. – Se io fossi Selim, ti nominerei gran maestro d’armi del Serraglio.

La duchessa, che cominciava a trovare la turca un po’ troppo esigente ed un po’ troppo capricciosa e che faceva pagare la sua ospitalità troppo cara, rispose con un leggero sorriso.

– Sei pronto, Metiub? – chiese la nipote del pascià.

– Sì, – rispose semplicemente il turco, che provava l’elasticità della sua spada. – Ecco una lama che ha sete di sangue, – aggiunse, poi: – quando vorrai, effendi.

La duchessa prese posto in mezzo alla sala, dicendo con voce un po’ beffarda:

– Anche la lama del figlio del pascià di Medina si lagna di essere rimasta troppo tempo inoperosa e troppo all’asciutto.

– Desidererebbe qualche goccia del mio sangue? – chiese il turco non meno ironico.

– Può darsi.

– Io spero che questo suo desiderio non si realizzerà, almeno per questa volta e che finirà per arrugginirsi sulla panoplia. Sei pronto, effendi?

La duchessa, invece di rispondere si mise in guardia scoprendosi tutta, avendo abbassata la spada con una parata di seconda.

– Eh! Eh! – fece il turco. – Si direbbe effendi che hai molta fiducia nella tua abilità. Ecco una guardia che io, maestro d’armi, non prenderei trattandosi d’aver di fronte un avversario di cui non conosco la forza. No, effendi: ti scopri troppo.

– Non preoccuparti di me, – rispose la duchessa. – Non ho l’abitudine di assaggiare chi mi sta di fronte.

– Allora prendi questa, effendi, – gridò il turco esasperato, andando a fondo con rapidità fulminea.

La duchessa, senza fare un passo indietro, parò non meno rapidamente, poi s’allungò. La punta della sua spada lacerò la casacca di seta dell’avversario all’altezza del cuore, senza però affondarsi nelle carni.

Un grido di stupore era sfuggito a Metiub.

– Pel Profeta! esclamò. – Questo fanciullo sarebbe un prodigio?

Haradja, non meno sorpresa per l’esattezza meravigliosa di quella stoccata erasi bruscamente alzata, gettando via la sigaretta.

– Metiub, – disse. – Sembra che tu abbia trovato chi ti getta da cavallo. Eppure poco fa dicevi che il tuo avversario era un fanciullo.

Il turco aveva mandato un vero ruggito.

– Lo ucciderò fra poco, – disse coi denti stretti. – Se mi…

Uno sguardo minaccioso di Haradja gli troncò la parola.

– Ricordati, – gli disse poi. – Avanti, mio bel capitano! Tu vali il famoso Leone di Damasco.

La duchessa si era riposta in guardia, minacciando il turco d’un attacco di terza. Stette un momento immobile, poi assalì l’avversario con tale violenza da costringerlo a rompere e fare un salto indietro.

– Bravo, effendi! – gridò Haradja, che fissava la duchessa cogli occhi ardenti. – Sotto, mio bel capitano!

Metiub non era però uomo da lasciarsi abbattere facilmente e tornava alla riscossa coll’impeto d’una belva feroce.

Per due o tre minuti i due avversari si scambiarono delle stoccate, parandole con abilità straordinaria, poichè anche il turco era davvero uno spadaccino di vaglia, poi la duchessa a sua volta ruppe, saltando indietro.

– Ah! Sei stanco finalmente, effendi! – gridò il turco, preparandosi ad incalzarla.

Haradja era diventata pallida ed aveva alzata la mano per arrestare il turco quando, con sua sorpresa, vide la duchessa curvarsi rapidamente verso terra, mentre spostava il piede sinistro.

Metiub attaccava in quel momento a fondo, con urlo selvaggio.

La lama della duchessa scintillò sotto il petto dell’avversario, mentre tutta la persona dell’abile spadaccina si gettava quasi al suolo, appoggiando la mano sinistra sul pavimento.

– A te il colpo del cartoccio! – gridò la gentildonna. – Paralo!

Metiub aveva mandato un grido di dolore. La punta della spada gli era entrata nel petto non profondamente, perchè la duchessa aveva trattenuto a tempo il colpo.

– Toccato, Metiub! – gridò Haradja, battendo le mani. – Ecco come si batte il bel capitano!

Il turco aveva allungata la spada per prendersi una rapida rivincita, ma la duchessa si era già rialzata. Con una battuta di quarta gli legò il ferro e glielo fece saltare di mano, lasciandolo inerme.

– Chiedi grazia! gridò la gentildonna mettendogli la punta della lama sotto la gola.

– No: uccidimi! – rantolò il turco.

– Finiscilo, effendi, – disse Haradja. – La vita di quell’uomo ti appartiene.

La duchessa invece di avanzare, fece due passi indietro, poi gettò a terra la spada, dicendo:

– No: Hamid Eleonora non è abituato a finire i vinti!

– La mia ferita non è grave, effendi, – disse il turco – e potrei riprendermi una rivincita, se lo permetti.

– Non lo vorrò io, – disse Haradja. – Basta così.

Poi, dopo d’aver guardato a lungo la duchessa, mormorò:

– Bello, forte e generoso: questo giovane vale più del Leone di Damasco.

 

Poi s’accostò ai due avversarii che si tenevano ritti l’uno di fronte all’altro e indicando a Metiub la porta, gli disse:

– Va’ a curarti.

– Fammi uccidere, signora.

– Tu sei sempre un valoroso, – disse Haradja, con voce un po’ raddolcita. – Rimarrai egualmente la lama più formidabile della flotta e gli uomini come te sono troppo preziosi per noi.

Il turco chinò la testa e uscì, tenendosi una mano sul petto per arrestare il sangue che cominciava ad inzuppargli la verde casacca di seta. Quando fu sulla soglia alzò con un moto rabbioso la ricca e pesante tenda di broccato e, rivolgendosi verso la duchessa che lo seguiva collo sguardo, gli disse:

– Spero che tu, effendi, quand’io sarò guarito, mi permetterai la rivincita.

– Quando vorrai, – rispose freddamente Capitan Tempesta.

– Effendi, – disse Haradja, quando il turco fu uscito. – Chi ti ha insegnato ad adoperare la spada così bene?

– Te lo dissi: un rinnegato cristiano che mio padre teneva ai suoi servigi rispose la duchessa.

– Che cosa avrai pensato della mia stravagante idea di farti misurare col mio capitano d’armi?

– Bah, nulla! Un semplice capriccio di donna turca, – rispose la duchessa, affettando una certa noncuranza.

– Un capriccio di donna cattiva, – disse Haradja – perchè poteva costarti la vita, effendi. Mi perdoni?

– Quattro colpi di spada? Non ne vale la pena, signora.

Haradja stette un momento come immersa in un profondo pensiero, poi disse:

– La mia noia è passata: ora tocca a me divertirti. Scendiamo nel cortile. I miei lottatori indiani sono già stati avvertiti e ci aspettano.

– Tu hai anche degli schiavi indiani?

– Me li ha regalati mio zio, onde non mi annoiassi troppo nel castello d’Hussif. Vieni, mio prode capitano.

Scesero lo scalone e passarono nello spazioso cortile, dove in quelle poche ore erano stati improvvisati due palchi nei quali avevano preso posto già i compagni della duchessa e parecchi ufficiali appartenenti alla guarnigione del castello, mentre le terrazze superiori si erano gremite di schiave e di schiavi.

In mezzo al cortile, sulle cui pietre era stata sparsa della sabbia, due uomini di alta statura, di forme erculee, col capo rasato e la pelle abbronzata con certe indefinibili sfumature giallastre e coperti d’un semplice gonnellino di seta bianca, stavano immobili, l’uno di fronte all’altro, in atteggiamento fiero.

Nella mano destra tenevano, strettamente impugnati, due strani arnesi che coprivano interamente le loro dita e che erano muniti di punte di ferro lunghe un buon pollice.

Haradja condusse la duchessa verso due comode poltrone, collocate su uno splendido tappeto persiano e le fece cenno di accomodarsi, poi, levando da una borsetta un vezzo di perle, che doveva essere di molto valore, lo gettò a quattro o cinque passi da sè, dicendo:

– Questo sarà il regalo che spetterà al vincitore.

I due lottatori avevano allungato il collo, fissando cogli occhi ardenti quel gioiello, che per loro poteva costituire una piccola fortuna.

– Come si combatteranno quegli uomini? – chiese la duchessa, che non riusciva a comprendere come sarebbero riusciti ad abbattersi.

– Non vedi, effendi, che cosa tengono in pugno?

– Delle punte di ferro.

– I nuki-kakusti dei lottatori indiani, – rispose Haradja. – Sono strumenti terribili che straziano atrocemente le carni e che sovente uccidono.

– E tu, signora, li lascerai massacrarsi?

– Forse che io non li pago appositamente perchè mi distraggano? – rispose Haradja. – E poi mio zio non me li ha già regalati per mantenerli inoperosi.

– Mi sembra una crudeltà.

La nipote del pascià alzò le spalle, poi aggiunse:

– Anche quelli sono degli infedeli.

Poi, senza attendere altre osservazioni, Haradja battè le mani, mentre gli spettatori interrompevano il loro chiacchierio.

I due indiani, a quel segnale si erano collocati l’uno di fronte all’altro, mandando un grido acutissimo, selvaggio, probabilmente il loro grido di guerra.

Haradja si era curvata innanzi per non perdere nulla di quello spettacolo sanguinoso. Il suo volto si era improvvisamente acceso d’un vivo rossore, i suoi occhi erano diventati ardenti e le sue narici pareva che fremessero, come quelle d’una tigre quando fiuta il sangue delle sue vittime.

La duchessa, che l’osservava, fu vivamente impressionata dall’aspetto crudele, che in quel momento traspariva su quel volto.

– Questa donna è dunque un demonio! – si chiese. – Io non riuscirò mai a conoscere la sua anima.

I due indiani, dopo d’aver mandato quel grido, si erano allontanati di tre passi, squadrandosi cogli sguardi, poi si precipitarono l’uno addosso all’altro, coprendosi il petto col braccio sinistro, onde difendere almeno il cuore contro quelle terribili punte.

Non era che una finta per misurare le loro forze e provare la loro agilità.

Tornarono ad allontanarsi di qualche metro, spiccarono quattro o cinque salti onde le membra potessero sviluppare tutta l’elasticità, poi tornarono a scagliarsi addosso, impegnando un pugilato terribile.

Erano però degni l’uno dell’altro, a giudicarli dalla rapidità con cui si sottraevano ai colpi.

Haradja li incoraggiava con qualche grido:

– Sì! Bravi! Addosso ancora!

I due indiani si guardavano però bene dal cadere sulle punte di ferro. Si gettavano ora a destra e ora a manca per evitare i colpi, balzavano ora innanzi ed ora indietro, si curvavano bruscamente, poi scattavano come se avessero delle molle sotto i piedi.

Gli spettatori non fiatavano più e seguivano attentamente cogli occhi le mosse fulminee dei lottatori. Anche la duchessa, suo malgrado, s’interessava di quello strano pugilato, che prima d’allora non aveva mai veduto.

Per un quarto d’ora i due indiani si tennero reciprocamente a bada, poi si urtarono con grande impeto avventandosi colpi furiosi.

Non erano trascorsi cinque secondi che uno dei due piombava pesantemente al suolo. Il pugno di ferro lo aveva colpito in pieno cranio e le punte erano penetrate profondamente nella scatola ossea uccidendolo sul colpo.

Il vincitore aveva posato un piede sul caduto, lanciando per la terza volta il suo grido di guerra. Non era però uscito nemmeno lui incolume da quella terribile lotta.

La pelle della sua fronte gli pendeva a brandelli; aveva il braccio sinistro ricoperto di sangue ed una larga ferita sul petto.

– Raccogli il vezzo di perle disse Haradja. – Tu lo hai ben guadagnato e ti proclamo un valoroso.

L’indiano ebbe un mesto sorriso, raccattò il gioiello e dopo d’aver dato un lungo sguardo al morto, contro cui nessun odio l’aveva spinto, s’allontanò a lenti passi, lasciando dietro di sè una striscia di sangue e scomparve sotto il porticato.

– Ti sei divertito, effendi? – chiese Haradja, volgendosi verso la duchessa.

Eleonora rimase qualche istante muta, poi, scuotendo il capo, rispose:

– Preferisco la guerra: almeno là si trovano di fronte delle persone appartenenti ad altre razze ed altre religioni e che forse mai si sono conosciute.

– Io sono una donna e poi, pel momento non ho nulla da fare, – rispose Haradja. – Anch’io preferisco assistere ad un abbordaggio, ma, qui, rinchiusa in questo castello che nessuno minaccia, che cosa vuoi che faccia, effendi?

– Forse hai ragione, – disse la duchessa, che non sapeva trovare altra risposta.

– Vieni, effendi, non voglio offrirti altri di questi spettacoli, essendomi accorta che tu non li gradisci molto. Faremo una passeggiata sulle terrazze del castello, così potrai farti un’idea della robustezza e delle difese di questa rocca, la cui conquista fu lunga e difficile. Mio zio lasciò intorno ai fossati non meno di dodicimila marinai.

– Sono ai tuoi ordini, signora.

La turca fece un gesto d’impazienza.

– Signora, sempre signora! – esclamò quasi con collera. – Non sei già tu, effendi, un semplice soldato, bensì il figlio d’un pascià. Chiamami Haradja.

– Come vuoi, – rispose la duchessa, con un sottile sorriso.

– Vieni dunque.

Lasciarono il cortile e risalirono lo scalone fino all’altezza delle vaste terrazze, che si estendevano dietro le merlature del castello, poi la turca entrò in una delle torri, invitando la duchessa a seguirla.

– Di lassù, – disse – godremo un superbo panorama e potremo parlare senza essere uditi.

S’inerpicarono su una gradinata strettissima, dove non poteva passare che una sola persona per volta e, dopo una faticosa ascensione, si trovarono sul terrazzino superiore, chiuso tutto intorno da solide merlature, dietro le quali erano poste due colubrine che portavano, sulla culatta, il Leone di San Marco.

– Guarda, effendi, – disse Haradja. – Si domina la campagna e anche il mare. Dalle torri dell’harem del Sultano non si vede così lungi.

CAPITOLO XVIII. Storie di sangue

Un panorama superbo s’offriva dinanzi agli occhi della duchessa, essendo quella torre la più alta del castello.

A ponente si estendeva il Mediterraneo, azzurro e terso come uno specchio, solcato qua e là da piccole macchie, che sembravano farfalloni; a mezzodì ed a settentrione le coste dirupate e pittoresche dell’isola, con minuscoli promontori e lunghe file di scogliere, con piccole baie e profonde spaccature, che rassomigliavano ai famosi fiordi della Norvegia; ad oriente invece la pianura cipriota tutta verdeggiante, limitata ad una grande distanza da alte catene di montagne che smarrivansi sul limpido orizzonte.

Su una di quelle piccole baie, la duchessa aveva subito scorta la gagliotta e lo sciabecco, ormeggiate a brevissima distanza l’una dall’altra.

Anche gli occhi d’Haradja si erano subito fissati sui due velieri.

– È quella la tua nave, effendi? – chiese alla duchessa, indicando la gagliotta.

– Sì, signora.

– Haradja, ti ho detto.

– Sì, Haradja.

– Come suona bene il mio nome sulle tue labbra! – disse la turca, passandosi una mano sulla fronte, come per nascondere una impercettibile ruga che l’aveva solcata.

Guardò la duchessa per qualche istante, poi riprese:

– Hai fretta di partire?

– Vorrei condurre presto al Leone di Damasco il visconte Le Hussière. Mustafà potrebbe irritarsi se io tardassi.

– Ah! Sì, è vero, tu sei venuto per quel cristiano, – disse la turca. – Quasi non me ne ricordavo più. E se glielo mandassi, scortato da Metiub? Mi sembra che sarebbe la medesima cosa.

– Tu sai, Haradja, che Mustafà vuole essere obbedito e se non conducessi io il visconte potrei attirarmi la sua collera e cadere in disgrazia.

– Tu non sei un povero capitano; sei un figlio d’un pascià.

– Mio padre mi ha ordinato di obbedire al gran vizir, il quale mi ha preso sotto la sua protezione.

Haradja si appoggiò al parapetto, coi gomiti puntati e la bella testa fra le mani e rimase a lungo silenziosa, cogli occhi fissi sull’immensa superficie del Mediterraneo. Anche la duchessa taceva, cercando d’indovinare il pensiero che tormentava quella strana donna.

Ad un tratto Haradja si scosse e si volse verso la duchessa con un impeto improvviso. Aveva gli occhi accesi e la fronte aggrottata.

– Avresti tu paura, Hamid, a misurarti col Leone di Damasco? – le chiese con accento selvaggio che tradiva un imminente scoppio di collera.

– Che cosa vorresti dire, Haradja? – chiese la duchessa stupita.

– Rispondi alla domanda, Hamid, – disse la turca. – Saresti capace di tener testa, in un duello, al Leone di Damasco?

– Spererei.

– È tuo amico intimo?

– Sì, Haradja.

– Che cosa importa? – disse la turca coi denti stretti. – Anche le più salde amicizie talvolta s’infrangono e non sarebbe la prima volta che due colleghi diventano, anche per un nonnulla o per una rivalità d’amore, due accaniti nemici.

– Non ti comprendo, Haradja, – disse la duchessa, impressionata dall’improvvisa esaltazione che aveva colta la turca.

– Mi capirai meglio questa sera, dopo cena, mio bel capitano. La liberazione di quel cristiano sta tutta lì e se Mustafà crederà di strappare a me i prigionieri fatti da mio zio, avrà da fare con me. Venga ad assalirmi qui, se l’osa! Il Pascià vale forse più del gran vizir e la flotta vale più dell’esercito. Si provi!

Haradja si era raddrizzata, colle braccia strette sul petto, gli occhi sfavillanti, fremente d’ira.

– Si provi! – ripeté con voce sibilante.

Poi, cambiando bruscamente tono e ritornando improvvisamente gaia e sorridente, riprese:

– Vieni, mio bel capitano. Riprenderemo questo discorso dopo la cena. Le mie tempeste sono eguali a quelle che imperversano sul Mediterraneo: brevi ma terribili, poi la bonaccia ritorna.

 

Facciamo il giro delle terrazze. Ti mostrerò in quale punto i marinai di mio zio hanno dato l’abbordaggio alla rocca.

Ogni traccia di collera era scomparsa sul viso della turca. I suoi occhi, altrettanto belli quanto quelli della duchessa, avevano perduta la loro cupa fiamma e la sua fronte si era rasserenata, come se un colpo di vento avesse scacciate lontane le nubi che l’oscuravano.

Diede un ultimo sguardo al mare, che scintillava sotto i raggi del sole volgente già al tramonto e scese la scaletta della torre, giungendo sulle terrazze che correvano intorno alle massicce muraglie del castello, difese da solide merlature, per la maggior parte mutilate ancora.

Numerose colubrine, quasi tutte veneziane, vi si trovavano colle nere gole volte, parte verso il mare e parte verso le pianure cipriote e lungo i parapetti si vedevano delle alte piramidi di palle di ferro e di pietra.

Haradja fece percorrere alla duchessa quasi tutte le terrazze, dalle quali si dominava pure un immenso tratto di paese e s’arrestò dinanzi ad una vecchia torre quadrata, che sembrava fosse stata spaccata in tutta la sua lunghezza da qualche gigantesca scure maneggiata da un titano.

– È da questa parte che i marinai del grande ammiraglio sono entrati nella rocca, – disse. – Io ero a bordo della galera di mio zio ed ho potuto seguire distintamente tutte le fasi di quel terribile combattimento.

– Ah! – fece la duchessa. – Vi eri anche tu, Haradja.

– La nipote del pascià non poteva già rimanersene inoperosa fra le mura d’un harem. Ero io che comandavo quella galera.

– Tu?

– Ti stupisci, effendi?

– Sai guidare dunque una nave?

– Come uno dei piloti del pascià, – rispose la turca. – Credi tu che io non abbia corseggiato il Mediterraneo? Ho catturato non poche navi cristiane e sono montata all’arrembaggio insieme ai miei marinai. Tu dunque ignori, effendi, che mio padre era un corsaro del Mar Rosso. Probabilmente ne avrai udito a parlare.

– Non so come si chiamasse.

– Ramaib.

– Mi pare.

– Che finì tragicamente.

– Non te lo saprei dire, Haradja.

– Ti racconterò tutto ciò questa sera. Fanno così gli arabi, è vero?

– Passano delle notti intere a udire i vecchi del paese, – rispose la duchessa.

Proseguirono la passeggiata intorno alle terrazze, salendo sulle torri, poi quando il sole scomparve sotto l’orizzonte, ridiscesero nella sala da pranzo che era stata illuminata con quattro bellissime lampade di cristallo, delle fabbriche di Murano, sostenenti un gran numero di candele.

La tavola era stata già preparata ed abbellita con grossi mazzi di fiori che tramandavano un profumo acuto ed inebriante.

Come al mattino nessuno era stato invitato. All’orgogliosa nipote del pascià non piaceva probabilmente concedere alcuna confidenza ai suoi capitani.

Come il pranzo, la cena fu sontuosissima e, cosa incredibile, innaffiata da vecchie bottiglie di vino di Cipro, nonostante il severo divieto del Profeta di far uso di liquidi fermentati.

– Se beve il Sultano, che è il capo dei credenti, posso assaggiare anch’io del vino, – aveva risposto la turca ad una osservazione fattale dalla duchessa, alla quale premeva mostrarsi un vero mussulmano per tema di tradirsi. – Il Profeta doveva essere di cattivo gusto per accontentarsi di latte di cammella diluito con acqua.

E si era messa a bere il dolcissimo vino, ridendosene allegramente di Maometto e della sua proibizione. Pareva però che in quella specie di liquore cercasse un eccitamento, poichè ogni volta che vedeva il fondo d’un bicchiere, tornava a versarne, incitando «il bel capitano» a fare altrettanto.

– Il Profeta non ha tempo di occuparsi di noi, – diceva, ridendo. – Bevi, Hamid: questo vino fa bene e mette un certo fuoco nelle vene che l’acqua non può spegnere. Vale l’hascis!

Quando però la cena fu terminata ed ebbe accesa, dopo il caffè, la sigaretta, Haradja era diventata improvvisamente seria. Pareva che una profonda preoccupazione tormentasse il suo animo.

Si era vivamente alzata, passeggiando nervosamente per la sala e soffermandosi di quando in quando dinanzi alle panoplie d’armi.

La duchessa ebbe per un momento il sospetto che meditasse qualche altro duello con qualche altro capitano del suo presidio, per distrarsi dalla pericolosa «noia turca» ma si rassicurò tosto quando la vide coricarsi su uno dei divani, facendole cenno di sederlesi accanto, su un lungo cuscino di seta posato sul tappeto e su cui stava un cofanetto d’argento pieno di dolciumi che dovevano contenere certamente dell’hascis.

– Mio padre, – disse – era un gran corsaro e fu l’ideale degli individui della sua specie, perchè nessuno mai poté rivaleggiare con lui sia in crudeltà, sia in generosità.

Ero allora una bambina, eppure, mi pare di vederlo ancora, uscire coi suoi vascelli, col viso fosco, la lunga barba svolazzante, e la cintura piena d’armi.

Aveva per me e per mio fratello un affetto profondo, ma guai se noi non l’avessimo obbedito. Sarebbe stato capace di ucciderci, come freddamente uccideva tutti i marinai che osavano resistergli.

Il Mar Rosso si poteva dire che era suo, perchè nemmeno le galere del Sultano, quelle di Solimano, avrebbero potuto contendergli la padronanza di quel vasto bacino rinchiuso fra l’Africa e l’Arabia.

Era un uomo terribile che faceva paura anche a me, quantunque tutte le volte che partiva per le sue crociere o ritornava, mi abbracciasse e mi baciasse. Si era formato un equipaggio che non temeva nè il Profeta, nè Allah, nè il diavolo e con quello devastava tutte le coste, da Suez allo stretto di Bab-el-Mandeb.

La sua crudeltà era leggendaria. Nessun marinaio, preso vivo, trovava grazia presso di lui e veniva gettato inesorabilmente in mare colle braccia e colle gambe legate, onde impedirgli di salvarsi a nuoto.

Mai parlava ai suoi uomini, nè loro permetteva la più lieve familiarità. Era però generoso e distribuiva a tutti imparzialmente la loro parte di bottino.

D’altronde il grande segreto del fascino che esercitava sui suoi marinai, consisteva innanzi tutto nel suo valore straordinario, che lo faceva sembrare un semidio del mare, poi in una eloquenza selvaggia che gli suggeriva, nei più tremendi e sanguinosi abbordaggi, delle frasi sonore ed energiche che inebriavano i suoi uomini più che non facesse l’acre odore della polvere.

Mio fratello, che era più anziano di me, lo accompagnava sovente nelle sue corse, e guai se nei momenti di maggior pericolo avesse dimostrata la più lieve esitazione! Mio padre non era uomo da perdonare nemmeno a chi aveva nelle vene il suo stesso sangue.

Un giorno mio fratello, che era appena uscito dall’adolescenza, dopo un furioso combattimento contro una galera portoghese, assai più grossa e meglio armata della sua, fu costretto a lasciare la preda e salvarsi in un porto dell’Arabia, per non far massacrare inutilmente i suoi uomini.

Quando comparve dinanzi a mio padre, cogli abiti a brandelli, la scimitarra insanguinata, ma senza ferite, invece di una parola d’incoraggiamento, si udì urlare sul viso:

– Cane! Vile! E tu osi tornare dinanzi a me senza una macchia di sangue sul petto! Gettate in mare questo miserabile.

Mio padre era inesorabile con tutti, e nonostante le mie lagrime, lo fece imbarcare su un sambuco e gettare in acqua ad una grande distanza dalla costa.

Fortunatamente coloro che erano stati incaricati di compiere quella triste missione, non osarono legare le gambe e le braccia a mio fratello, Sicchè quel bravo giovane, che era un fortissimo nuotatore, poté ancora raggiungere la costa e salvarsi.

Passarono parecchi anni senza che mio fratello desse sue notizie; quando mio padre seppe che era vivo, lo fece tornare al suo castello e si riconciliò con lui. Poche settimane dopo Osman – così si chiamava il giovane – moriva da valoroso, sul ponte della sua nave, respingendo vittoriosamente il nemico.

– E tuo padre? – chiese la duchessa.

– Lo seguì alcuni mesi più tardi nella tomba, in un modo tragico.

Aveva assalito un villaggio dove sapeva trovarsi un greco ricchissimo, che possedeva innumerevoli mandrie di cammelli.

Mio padre aveva forzata la casa ed era entrato nella stanza dove il greco, in compagnia di sua moglie giovane e bellissima e di qualche servo, si difendeva disperatamente a colpi di archibugio e di jatagan.

Sicuro di vincerlo facilmente, non aveva preso con sè che pochi uomini, mentre gli altri si occupavano del bottino che era immenso.