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Attraverso l’Atlantico in pallone

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Capitolo 15. La nave dei morti

Verso l’est, a una grande distanza, un punto nero spiccava nettamente sulla tranquilla superficie dell’Atlantico e sembrava perfettamente immobile. Non poteva essere un uccello, né una barca, poiché a tale distanza né l’uno né l’altra sarebbero stati visibili, né un pescecane di grandi dimensioni, poiché non sarebbe rimasto immobile, né un vascello, poiché su quel punto nero non si scorgevano né un pennacchio di fumo, che si sarebbe facilmente riconosciuto, né delle vele.

“Che cosa può essere?” si chiese O’Donnell, fissando con grande attenzione quella macchia nera che si trovava proprio sulla direzione dell’aerostato.

“Forse un cetaceo che dorme tranquillamente a fior d’acqua, o che è stato ucciso” disse l’ingegnere.

“Una balena qui, in questi climi caldi?”

“No, O’Donnell: le balene non abbandonano quasi mai i mari freddi: ma i capidogli si trovano dovunque, anche sotto l’equatore.”

“Vediamo” disse l’irlandese, prendendo il cannocchiale puntandolo in direzione della macchia nera.

Guardò per parecchi minuti con estrema attenzione, poi abbassò lo strumento. La più viva sorpresa era dipinta sul suo viso.

“Non è un cetaceo” disse.

“Che cosa è dunque?” chiese l’ingegnere.

“L’avanzo di un disastro marittimo, Mister Kelly.”

“Un rottame?”

“Sì, una nave senz’alberi, coricata sul tribordo e senza equipaggio.”

“Un veliero.”

“Senza dubbio perché non scorgo la ciminiera della macchina.”

“Sarà stato abbandonato dal suo equipaggio.”

“Abbandonato! No, Mister Kelly.”

“Come lo sapete?”

“Ho veduto sospese alle gru di babordo e di tribordo quattro imbarcazioni.”

“È impossibile, O’Donnell!”

“Guardate, Mister Kelly.”

L’ingegnere prese a sua volta il cannocchiale e guardò.

“Avete ragione” disse poi. “Le scialuppe sono a posto.”

“Che l’equipaggio si sia salvato su di una zattera?”

“Avrebbe portato con sé anche le imbarcazioni, che sono sempre preferibili a una zattera che veleggia male e che una tempesta può facilmente sfasciare.”

“Che l’equipaggio sia stato raccolto da qualche nave?”

“Potrebbe essere; ma perché la nave salvatrice avrebbe lasciato le imbarcazioni, che hanno un certo valore?”

“Sarei curioso di chiarire questo mistero, Mister Kelly.”

“Lo chiariremo, O’Donnell. Il vento ci spinge proprio diritti su quella nave, e prima di sera noi l’abborderemo.”

“Purché il vento non cambi.”

“Sono deciso ad abbassarmi ed a gettare le mie àncore. Forse su quella nave possiamo trovare dell’acqua e riempire i nostri barilotti, che si stanno svuotando con una rapidità che mi spaventa. È molto se ne abbiamo centocinquanta litri.”

“In trenta ore il sole ci ha assorbito più di quaranta litri!” esclamò O’Donnell. “Se questa calma ci tiene imprigionati quattro o cinque giorni ancora, noi saremo alle prese con la sete.”

“Vedete che è necessario abbordare quella nave.”

“Se vi passeremo solamente vicini, io sono deciso a calarmi in acqua, Mister Kelly, e a rimorchiare il pallone.”

“Ed io a sacrificare un po’ d’idrogeno.”

Perdurando la calma, l’aerostato si avvicinava alla nave con estrema lentezza, essendovi appena appena un soffio d’aria, e non sempre continuo. Era molto se i due fusi percorrevano uno spazio di cinque o sei chilometri all’ora, mentre quel rottame si trovava lontano trenta e anche più.

A mezzodì anche quel leggerissimo alito di vento venne a mancare, e il Washington rimase immobile a ventidue o ventiquattro chilometri di distanza. Però verso le tre, quando il gran calore, che aveva raggiunto la spaventevole cifra di 42°, cominciò a scemare, s’alzò una brezza mi po’ fresca, che lo spinse con la velocità di otto chilometri all’ora.

Fortunatamente non aveva cambiato direzione, e il Washington continuava ad abbassarsi. In un altro momento quella discesa sarebbe stata rimpianta dagli aeronauti: ora invece la benedicevano, poiché permetteva loro di abbordare il rottame senza sacrificare l’idrogeno. Alle quattro pomeridiane l’oceano non era che a centocinquanta metri e la nave a soli dieci chilometri.

A così breve distanza, con l’aiuto del cannocchiale, l’ingegnere e l’irlandese potevano scorgerla nettamente.

Era un veliero della portata di forse milleduecento tonnellate, di forme svelte, dipinto di nero. I suoi alberi pareva fossero stati tagliati rasente la coperta, poiché non si vedevano che due corti tronconi; qua e là, disperse a prua e a poppa, pennoni, lembi di vele e cordami. Dalle barcacce di babordo e di tribordo si vedevano pendere in acqua i paterazzi, le sartie e le griselle.

Quella nave, che doveva essere stata attrezzata a brick o a brigantino, era inclinata sul babordo. Pareva che il suo carico si fosse improvvisamente spostato, forse durante qualche grande tempesta.

Sul ponte non si scorgeva persona alcuna: però si vedeva correre da prua a poppa una forma nera che non si poteva ancora ben distinguere.

“Che sia qualche animale?” chiese O’Donnell.

“Sarà forse un cane” rispose l’ingegnere.

“Abbandonato dell’equipaggio?”

“Certamente.”

“Allora il disastro deve essere recente: se risalisse a qualche settimana, quel povero animale sarebbe già morto di fame.”

“Lo credo anch’io.”

Alle cinque il Washington si trovava a soli tre chilometri dalla nave. Il venticello lo spingeva proprio sopra di essa.

L’ingegnere fece attaccare l’ancorotto a patte alle guide-rope e calò quasi a fior d acqua: per maggior precauzione fece calare anche i due coni, per fermare prontamente l’aerostato, se il vento lo avesse sospinto al largo.

Alle cinque e un quarto il Washington si trovava a poche decine di passi dal rottame, il quale era immobile come un cadavere abbandonato in mezzo ad un bacino d’acqua tranquilla. Sul ponte, un cane enorme, dal pelame nero, guardava con due occhi ardenti il pallone che s’avvicinava, facendo udire dei sordi brontolii.

“Attento all’àncora. O’Donnell” gridò l’ingegnere.

“Fila dritta sulla baraccia di babordo e prenderà fra le sartie pendenti o le gru delle imbarcazioni” rispose l’irlandese.

Il Washington si trovava proprio sopra la nave. Ad un tratto provò una forte scossa, i due grandi fusi s’abbassarono bruscamente, poi virarono su di loro e rimasero immobili. L’àncora, guidata dal braccio dell’irlandese, aveva preso, fissandosi fra le sartie e le griselle pendenti della barcaccia poppiera di babordo.

Il cane, un enorme molosso, s’avventò rabbioso verso l’àncora, emettendo minacciosi ululati.

“Diavolo!” esclamò O’Donnell. “Sarà un po’ difficile ammansire quel guardiano! Se la prenderà coi nostri polpacci, Mister Kelly.”

“Lo uccideremo, O’Donnell. Ma…”

“Che cosa?”

“Non sentite delle pestifere esalazioni salire fino a noi?”

“Per mille merluzzi! E odore di morti questo!” esclamò l’irlandese, impallidendo.

Ed era vero. Da quel vascello abbandonato sull’oceano, senza alberi, senza vele, semirovesciato, preda sicura del primo uragano, saliva un tanfo di carne corrotta che appestava l’aria. Si sarebbe detto che portava un carico di cadaveri: come un sinistro cimitero galleggiante!”

L’ingegnere e O’Donnell, entrambi in preda a grand’emozione, cercavano di discernere qualcosa attraverso il boccaporto maestro, che era spalancato come la bocca d’una tenebrosa voragine, ma invano.

“Gran Dio!” esclamò l’irlandese. “Quale lugubre scoperta abbiamo fatta! Che sia questo il vascello fantasma dell’olandese maledetto, o la nave-feretro?”

“Siete coraggioso, O’Donnell?” chiese l’ingegnere.

“Lo credo” rispose l’irlandese.

“Allora seguitemi!”

“E Simone?”

“Rimarrà a guardia dell’aerostato. Un altro spavento lo farebbe impazzire.”

“Non fidatevi, Mister Kelly. Guardate i suoi occhi e il suo viso.”

L’ingegnere si volse verso il negro e lo vide curvo sul bordo della scialuppa, con gli occhi fissi sulla nave; ma quegli occhi tradivano una paura orribile, e il volto era diventato grigio, cioè pallidissimo.

“Simone!” disse l’ingegnere.

Il negro non rispose e non abbandonò la sua posa. Pareva che cercasse d’indovinare la causa di quelle esalazioni pestifere, che salivano fino all’aerostato, a ondate.

“Simone,” ripetè “cosa fai?”

Questa volta il negro alzò il capo e guardò il padrone con due occhi smarriti.

“Dei morti?” chiese, battendo i denti. “Io paura.”

“Ma quali morti, pauroso?”

“Là! Là!” balbettò il negro, rabbrividendo e indicando il boccaporto. “È la nave dei morti!”

“Tu sogni, Simone”

“No” disse l’africano con strana energia.

“Rimanete a guardia del Washington Mister Kelly” disse l’irlandese. “Quel povero pazzo può farci un brutto scherzo.”

“Quale?”

“Può tagliare la fune e lasciarci su quella nave del malanno.”

“Rimanete qui voi, O’Donnell. Scenderò io.”

“Ma laggiù vi è un carnaio, signore, e un cane idrofobo.”

“Non ho paura. Rimanete a guardia di Simone e, se vi sarà bisogno d’aiuto mi raggiungerete.”

“Ah no, signore. Voi siete il capitano qui e non dovete abbandonare l’aerostato ed esporvi a dei pericoli.”

Poi, prima che l’ingegnere pensasse a opporsi, il bravo irlandese superò il bordo della scialuppa, s’aggrappò alla fune e si lasciò scivolare.

“Badate al cane” gridò l’ingegnere.

“Ho la rivoltella” rispose O’Donnell.

Di mano in mano che scendeva, il puzzo diventava così orribile che si sentiva asfissiare. Gli pareva di scendere in una immensa fossa di cadaveri putrefatti.

Giunto all’ultimo nodo, si fermò e guardò sotto di sé. L’enorme molosso stava presso all’ancora e lo guardava con due occhi che mettevano paura, mandando dei sordi brontolii. Aveva il pelo arruffato, la coda penzoloni e delle lunghe bave alla bocca.

 

“È idrofobo!” esclamò O’Donnell che si sentì correre un brivido per le ossa. “Bel guardiano a questa nave dei morti!”

Impugnò la rivoltella con la mano destra, mentre con la sinistra si teneva aggrappato alla fune, e scaricò quattro colpi contro quel cagnaccio, il quale stramazzò sul ponte della nave.

“È morto?” gli chiese l’ingegnere, dall’alto.

“Lo credo” rispose O’Donnell. “Se si rialza ho altri due colpi.”

Si lasciò andare e cadde sulla tolda.

“Corna di cervo!” esclamò. “Che profumi! Ma che cos’è accaduto qui? Che l’equipaggio si sia scannato?”

S’avvicinò al cane e vedendolo ancora agitarsi lo fulminò con una quinta palla in un orecchio; vincendo la ripugnanza che lo invadeva e coprendosi il naso con una pezzuola, avanzò verso il boccaporto maestro, che era, come si disse, aperto.

Guardò in quella voragine e vide che era semipiena di botti accatastate confusamente le une sulle altre e addossate alle pareti di bordo. In mezzo ad esse, scorse il cadavere di un marinaio in piena putrefazione.

“Non può essere quello solo che manda queste pestifere esalazioni” mormorò.

Si diresse verso il quadro di poppa, e sulla ruota del timone lesse queste parole: Benito Juarez. Vera Cruz.

“È una nave messicana” gridò, volgendosi verso l’ingegnere, che lo guardava con ansietà.

“Vi sono dei morti?” chiese l’ingegnere.

“Ho veduto un solo marinaio; ma temo che nel quadro e nella camera di prua ve ne siano ben altri, dalla puzza orribile che qui si sente.”

“Udite nessun rumore, nessun gemito?”

“Regna un silenzio di tomba. Mister Kelly. Qui devono essere tutti morti, e forse da qualche settimana.”

“Temo un grave pericolo, O’Donnell.”

“Bah! I morti non si muovono.”

“Ma avvelenano, uccidono.”

“Ho la pelle dura” rispose l’irlandese, che forse non aveva compreso l’allusione dell’ingegnere.

Senza aggiungere parola, scese coraggiosamente la scaletta che metteva nel quadro, malgrado la puzza orrenda che ne usciva.

La sua assenza fu breve. L’ingegnere lo vide risalire rapidamente, coi capelli irti, il viso sconvolto, pallido come un cadavere, e precipitarsi verso l’ancora, che con un colpo di mano staccò dai paterazzi e dalle griselle.

“Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!” gridò con accento di terrore.

S’aggrappò alla guide-rope e, senza rispondere all’ingegnere per non perdere tempo, si mise a salire facendo sforzi sovrumani per far più presto che poteva. In un minuto superò la distanza e si issò sulla scialuppa, ripetendo con voce atterrita:

“Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!”

“Ma che cosa avete veduto, O’Donnell?” chiese l’ingegnere. “Siete pallido e sconvolto.”

“Ho… che forse noi, che abbiamo respirato… quei miasmi,… siamo perduti.”

“È scoppiata una epidemia su quella nave?”

“Sì, e forse la più tremenda: la febbre gialla!”

“Fuggiamo” ripeté l’ingegnere, il quale, nonostante il suo coraggio, aveva provato un brivido.

Rovesciarono i coni, che mantenevano il pallone prigioniero, e gettarono un sacco di zavorra.

L’aerostato, scaricato di quel peso, s’innalzò rapidamente, fuggendo dalle mortali esalazioni che irrompevano da quel cimitero galleggiante.

Capitolo 16. Un salto nell’oceano

Se tremendi sono il colera e la peste, la febbre gialla, questa epidemia puramente americana, che si verifica negli altri continenti, ma è limitata ai paesi racchiusi fra i tropici e, per lo più, a quelli situati presso l’oceano Atlantico, si è acquistata essa pure una triste fama, che non è inferiore a quella delle altre epidemie che infieriscono in Asia, dilatandosi verso l’Europa.

Combattendola efficacemente, talvolta si riesce a domarla, ma non sempre accade così, e tutti gli anni, durante la stagione calda, essa miete un buon numero di vittime fra le popolazioni ispano-americane. Qualche volta distrugge completamente gli abitanti di una città, né vale la fuga a salvare quelli che cercano di sottrarsi al male.

È una cosa strana, ma si direbbe che questo male sia portato per i viaggi transoceanici e che se la prenda con gli uomini di mare più che con quelli di terra. Infatti le navi che lasciano i porti dell’America del Sud o di quella Centrale, del Messico specialmente, durante la stagione della febbre gialla portano quasi sempre con loro i germi, i quali non tardano a svilupparsi anche in mare aperto, anche a mille miglia dalla costa infetta.

È la morte in casa, o meglio la morte in una prigione, poiché l’equipaggio non ha mezzo alcuno per sfuggire le prime persone attaccate dal male. È costretto a respirare quell’aria mortale, e ad avere sotto gli occhi i moribondi.

Se è una nave a vapore, che possiede ordinariamente un medico e una farmacia e che si muove a grande velocità, il male si può combattere e anche vincere, ma se si tratta di una nave a vela, è altra cosa. La febbre continuerà le sue stragi finché non troverà un clima inadatto al suo espandersi o avrà distrutto l’ultimo uomo.

Mancando di medici e molto spesso di medicine, imprigionati talvolta sotto le ardenti calme dei tropici e dell’equatore, gli equipaggi non possono lottare e cadono l’un dopo l’altro. Questo doveva essere toccato al veliero messicano abbordato dall’aerostato in pieno Atlantico. La febbre gialla doveva essere scoppiata a bordo, forse quando il brigantino o brick che fosse, si era trovato prigioniero nella zona delle calme del Cancro, e gli uomini che vi sono imbarcati, senza un medico e probabilmente senza medicine, erano morti l’uno dopo l’altro. Poi una tempesta aveva sorpreso la nave e aveva compiuto l’opera di distruzione cominciata dal morbo.

Quali conseguenze dovevano derivare dal contatto degli aeronauti con la nave dei morti? Sarebbero sfuggiti immuni, quantunque avessero respirato per un quarto d’ora le esalazioni pestifere di quel carnaio in putrefazione, cariche senza dubbio dei germi della febbre, o il male doveva fare la sua comparsa sul vascello aereo?

Ecco quello che si chiedeva con angoscia l’ingegnere, il quale non ignorava la potenza mortale del vomito prieto.

“Sarebbe stato meglio che il vento ci avesse trascinati cento miglia più a sud” disse “Erano molti i morti, O’Donnell?”

“Lo ignoro, non li contai, poiché mi parve che la febbre mi entrasse in corpo e che i miei intestini si rivoltassero, sotto i primi sintomi del terribile vomito, che mi prenda, Mister Kelly? Io non ho paura della morte, ma temo per voi, poiché se scoppiasse in questa scialuppa, nessuno di noi rimarrebbe vivo.”

“Provate nulla?”

“Nulla finora.”

“Al primo indizio, alla prima nausea, avvertitemi. Prontamente combattuta può essere vinta anche la febbre gialla.”

“Non mancherò di farlo, Mister Kelly.” disse O’Donnell, sforzandosi di sorridere.

“Procureremo di mantenerci sempre alti” disse l’ingegnere.

“Perché?”

“Per avere una temperatura più fresca. La febbre non alligna che nei climi caldi e scompare prontamente quando ci si allontana.”

Un grido strano rauco echeggiò in quel mentre dietro di loro. Si volsero e videro il negro che si era alzato in piedi, tenendosi aggrappato all’asta della bandiera. Il disgraziato pareva in preda ad un altro accesso di terrore, i suoi lineamenti erano alterati, gli occhi roteavano e i denti stridevano.

“Che cos’hai, Simone?” gli chiese l’ingegnere.

Il negro aprì le labbra come per lasciar uscire una frase, ma stette muto, fissando sull’ingegnere due occhi che facevano paura.

“Quale nuovo terrore turba il tuo cervello?”

“È proprio pazzo, Mister Kelly” disse O’Donnell.

Simone stette parecchi minuti immobile, guardando sempre fisso il suo padrone, poi articolò queste due parole: “II vo…mi…to priet…to!…”

“Ha compreso tutto” disse l’irlandese.

“Sì ora lo assale la paura della febbre gialla” rispose l’ingegnere. “Il suo cervello è guasto, e temo che non guarirà più.”

“Dannato polipo!”

“Il vo…mi…to pri…eto…” ripetè il negro. Poi scoppiò in una risata convulsa, stralunando gli occhi ; quindi, come se avesse esaurito tutte le sue forze in quel riso, ricadde sul suo materasso stringendosi il capo fra le mani contratte, e parve che si assopisse.

“Per centomila merluzzi!” esclamò O’Donnell. “Mi sembra, Mister Kelly, che la nostra situazione cominci a diventare poco allegra. Attorno a noi una calma assoluta che ci tiene inchiodati fra quest’atmosfera infuocata, i palloni che cominciano a perdere le forze, un pazzo che ci dà assai da fare, forse la febbre gialla che ci insidia, e l’acqua che scema a vista d’occhio. Diavolo! Che cosa ci deve toccare di peggio?”

“È vero, O’Donnell” rispose Kelly sospirando. “La fortuna che prima ci proteggeva ci ha ora abbandonati, ma siamo uomini dotati di una certa dose di energia, e lotteremo fino all’estremo delle nostro forze.”

“Quanti giorni rimarremo ancora in aria?”

“Coi mezzi di cui disponiamo e che ci rimangono quasi intatti, non avendo gettato finora che cento chilogrammi di zavorra, io calcolo di prolungare la vita del Washington di altri sette o otto giorni.”

“È impossibile che in tanto tempo non riusciamo ad attraversare quest’oceano. In dodici ore sole abbiamo percorso circa mille miglia: in sette giorni, procedendo anche lentamente, possiamo ben varcare la distanza che ci separa dalle coste africane.”

“Ma le calme dei Tropici durano talvolta delle settimane.”

“Diavolo!”

“E un altro pericolo ci minaccia: la mancanza d’acqua. Durante la giornata di ieri la nostra provvista è scemata di altri venticinque o trenta litri.”

“Che salasso! E non si vede una nube! Il barometro segna qualche prossimo cambiamento di tempo?”

“No, O’Donnell; indica calma perfetta.”

“Confidiamo in Dio e nel nostro coraggio.” L’irlandese dopo queste parole si sdraiò presso Simone e s’immerse in profondi pensieri, mentre l’ingegnere si sedeva a prua della scialuppa con gli sguardi volti verso l’est.

Il Washington che era risalito di duemila metri, s’avanzava lentamente verso oriente, trasportato da un filo d’aria che soffiava irregolarmente. Era molto se riusciva a percorrere sette otto miglia all’ora. L’Atlantico era sempre deserto. Non si scorgeva che la nave dei morti, la cui massa nera spiccava nettamente sulla tinta azzurra dell’acqua. Perfino i fetonti, gli uccelli del Tropico, erano scomparsi, e non si udivano più le loro grida, che rallegravano l’animo degli aeronauti. In quella sterminata distesa d’acqua e nelle profondità incommensurabili della volta celeste regnava un silenzio assoluto, un silenzio di tomba, che impressionava l’irlandese e l’ingegnere, accrescendo la loro tristezza.

A mezzodì il termometro segnava 39° di calore; all’una toccò i 40° e alle due i 43°. L’aria era diventata tanto ardente, che agli aeronauti sembrava di respirare quella che esce da un gigantesco forno appena viene aperto. Quale salasso doveva fare quel calore intenso nella loro provvista d’acqua, che era già tanto scarsa! Alle tre il pallone cominciò a discendere lentamente. Fu una vera fortuna però, poiché a milleottocento metri incontrò una corrente d’aria più fresca, la quale lo trascinò verso l’est con la velocità di dodici o tredici miglia all’ora. Un’ora dopo, i due aeronauti, che si erano messi in osservazione sul dinanzi della scialuppa, scorsero una leggera nube che si estendeva verso l’est, a circa tre chilometri dal Washington e che pareva si dirigesse verso il sud.

Se si potesse entrare fra quella nebbia, si troverebbe un po’ di frescura?” chiese l’irlandese.

“Ne dubito, O’Donnell,” rispose l’ingegnere. E poi siamo più alti di almeno quattrocento metri.”

“Che quella nube indichi un cambiamento di tempo?”

“Forse, ma quel cambiamento può essere molto lontano.”

Alle cinque il Washington che faceva sempre le sue dieci miglia all’ora, si librava su quelle nebbie. Esse formavano dei grandi cumuli, sospesi a varie altezze e separati gli uni dagli altri da spazi considerevoli.

I due aeronauti, quando si trovarono sopra a quei banchi, assistettero a un fenomeno sorprendente. L’ombra dei due immensi fusi, proiettata su quelle nebbie apparve circondata da un’aureola coi sette colori dell’iride, la quale cambiava, ad ogni istante, dimensione e forma. Ora si allargava immensamente, avvolgendo l’ombra intera dei due grandi fusi, che pareva immersa in un cerchio di luce dagli splendidi colori; ora rimpiccioliva e impallidiva; poi si rompeva, si ricostituiva e cingeva solamente l’ombra dell’uno o dell’altro fuso o della sola navicella.

Alle otto, nel momento in cui il sole precipitava sotto l’orizzonte, l’aerostato entrò in una nuova corrente d’aria, che scendeva dal nord. La temperatura si abbassò bruscamente, come se quella corrente fosse prima passata sopra una regione assai fredda. In dieci soli minuti il termometro, caso veramente strano, si abbassò di 24°! L’idrogeno si condensò rapidamente, e il Washington non discese, precipitò, come se volesse cadere nell’oceano. Si arrestava alcuni minuti, poi scendeva di colpo di tre o quattrocento metri, poi tornava ad arrestarsi, indi ricadeva di altrettanti.

 

O’Donnell aveva preparato un sacco di zavorra per fermarlo a tempo, ma non ne ebbe bisogno, poiché l’aerostato, giunto a duecento metri dalla superfìcie dell’oceano, riprese il suo equilibrio.

“Si respira!” esclamò O’Donnell. “Era tempo che questo calore d’inferno si mitigasse. Se fosse continuato ancora tre giorni, ci avrebbe disseccati. Ma a che cosa si deve questo brusco abbassamento di temperatura?”

“Forse a qualche grande uragano che si è scatenato nelle regioni settentrionali.” rispose l’ingegnere. “Non durerà molto, O’Donnell e domani tornerà a fare caldo.”

“Lo credete?”

“Sì, questa corrente non tarderà a scaldarsi sotto questi climi ardenti”

“Che il pallone scenda ancora? “

“Non lo credo; tuttavia veglieremo a turni.”

Cenarono con un po’ di carne conservata e una scatola di tonno, misurandosi l’acqua. Poi O’Donnell si sdraiò presso Simone, che continuava a russare, mentre l’ingegnere vegliava, seduto sul suo materasso, che si trovava a prua.

Durante quel primo quarto d’ora di guardia non accadde nulla. Solamente il pallone, il cui idrogeno continuava a condensarsi perché la corrente d’aria restava sempre fredda, discese ancora di oltre cento metri.

A mezzanotte O’Donnell rilevò l’ingegnere. Diede uno sguardo intorno, un altro all’oceano, che brontolava a soli trenta metri di distanza, poi si sedette a prua, fumando una sigaretta.

Erano già trascorse le due ore, e cominciava a socchiudere gli occhi invitato dal leggero dondolamento dell’aerostato, quando tutto ad un tratto la navicella subì una scossa violenta. Si volse rapidamente e ritto sulla poppa vide il negro, coi capelli irti, gli occhi luccicanti come quelli degli animali notturni, le braccia in aria.

“Simone!” esclamò “Che cosa fai?”

Il pazzo emise un grido rauco: “II mostro!… il mostro!” esclamò con voce strozzata.

L’irlandese si avventò su di lui, ma era troppo tardi. Il povero pazzo preso chissà da quale terrore, fece atto di fuggire e mise i piedi nel vuoto.

O’Donnell emise un grido: “Mister Kelly!”

Poi mentre il pallone, scaricato del peso di Simone, s’innalzava, egli, senza badare al pericolo che stava per affrontare, si precipitò nell’oceano dietro al pazzo.

L’ingegnere, svegliato di soprassalto, udì due gridi e due tonfi, poi più nulla. L’aerostato, bruscamente alleggerito di quei due corpi, che pesavano centoquaranta chilogrammi, trascinava Kelly con rapidità vertiginosa attraverso le alte regioni dell’atmosfera!