Free

Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II

Text
iOSAndroidWindows Phone
Where should the link to the app be sent?
Do not close this window until you have entered the code on your mobile device
RetryLink sent

At the request of the copyright holder, this book is not available to be downloaded as a file.

However, you can read it in our mobile apps (even offline) and online on the LitRes website

Mark as finished
Font:Smaller АаLarger Aa

Il 15 di luglio si addivenne alla formazione regolare delle brigate, come alla proposta del generale Garibaldi portata al Ministero dal colonnello Elia.

Vennero formate così:


Al comando di Salò il ten. gen. Avvezzana.

Capo di Stato maggiore Augusto Vacchi.

Fu ordinato che l'8o reggimento movesse da Vestone per raggiungere a Condino il 6o col quale doveva formare brigata.

Nella stessa mattina del 15 il brigadiere Nicotera aveva occupato Condino col 6o reggimento e l'8a batteria del 5o reggimento d'artiglieria (capitano Afan di Rivera). Nella giornata ricevette l'ordine di portarsi a Cimego; per cui il luogotenente colonnello Sprovieri muoveva a quella volta da Condino col 3o e 4o battaglione del 6o reggimento e una sezione dell'8a batteria.

Il brigadiere Nicotera avevagli ordinato di porre un battaglione a Cimego e coll'altro occupare le alture che signoreggiano il ponte sul Chiese e farvi piazzare i cannoni.

Si aveva notizia che a Cimego non vi erano austriaci, ma passato appena lo sbocco della valle Averta, verso le 10, la colonna Sprovieri fu ad un tratto investita da fucilate dalle alture soprastanti che ferivano alcuni senza che si potessero scoprire i feritori; fu continuata la marcia e nella notte lo Sprovieri giungeva a Cimego ove riuniva il suo piccolo corpo in ordine ristretto.

All'alba del 16 il brigadiere Nicotera mosse da Condino col rimanente della colonna. Nella stessa ora gli austriaci con grandi forze movevano ad assaltare le nostre posizioni avanzate da tre parti convergenti, da Cologna, da Val di Daone, da Pieve per Tiarno e Monte Giove verso Condino, coll'intendimento di attorniare i nostri e distruggerli.

Erano le ore 8 ant. quando cominciò il combattimento. Il brigadiere Nicotera aveva ordinato al 4o battaglione di slanciarsi ad occupare le alture di la del Chiese; prima però che il battaglione giungesse al ponte, l'artiglieria nemica cominciò a fulminarlo e una grossa colonna di austriaci si distendeva di corsa sulle alture di faccia al ponte ed al villaggio di Cimego.

Il maggiore Lombardo comandante il 1o battaglione del 6o reggimento, destinato alla riserva, visto il pericolo che correva il 4o, corre di moto proprio al 3o battaglione che stava allo sbocco del villaggio e gridando "avanti" trasse seco i volontari e primo si lanciò sul ponte ove cadde fulminato. Una palla gli aveva traversato il cuore.

Il Nicotera volle ad ogni costo allontanare il nemico da quelle alture; a questo scopo ordinava al 4o battaglione di scacciarnelo. Si mise alla testa del battaglione il valoroso tenente colonnello Pais-Serra, il quale ordinava si attraversasse il fiume a guado e con grande ardimento, i bravi si slanciano sulle alture sotto il fuoco micidiale del nemico.

I garibaldini fecero sforzi eroici per snidare il nemico dall'elevata posizione, ma dovettero cedere a forze tanto prevalenti e sempre combattendo ritirarsi protetti dall'artiglieria.

Intanto altre masse austriache venivano ad assalire le alture di Narone, per battere la nostra sinistra; il capitano Bennici sostenne con grande valore il combattimento sulla vetta del Narone, ma visto il pericolo di essere avviluppato da forze tanto superiori, dovette ritirarsi colla sua compagnia volante e la 3a compagnia bersaglieri. Il colonnello Guastalla e il maggiore Lobbia dello Stato maggiore, che assistevano al combattimento, visto il pericolo che correvano le compagnie distaccate sulla sponda sinistra del Chiese ordinarono un cambiamento di fronte a destra indietro sempre combattendo. Il generale Garibaldi accorso in vettura mandava un battaglione del 9o reggimento ad occupare Condino ed ordinava all'artiglieria di piazzarsi dinnanzi al villaggio a mezza costa delle alture di Brione; il fuoco di 10 pezzi trattenne il centro e la sinistra degli austriaci. Intanto i generali Garibaldi e Fabrizi provvedevano alla riscossa, e con forze combinate e con grande valore, cacciavano gli austriaci da quelle alture e li mettevano in fuga tale, che più non si arrestarono.

Ormai Garibaldi non temeva più ostacoli, e con le sue mosse progrediva sempre per raggiungere l'obbiettivo dell'azione affidatagli; l'occupazione del Trentino; per cui serrava d'appresso Riva, portava il suo quartier generale a Cologna e incominciava l'investimento di Lardaro.

Padrone delle due valli principali, che dal Garda salivano a Trento, era ormai libero di spiegare tutte le sue forze e di marciare in battaglia contro un nemico, che aveva esperimentato il valore garibaldino. Intanto Medici alla testa di una forte colonna di truppe regolari, si era avanzato vittoriosamente sino a Levico ed a Perzine, per cui la vittoria finale e la presa di Trento era ormai sicura.

Senonchè il mattino del 25 luglio, quando tutto era pronto pel bombardamento di Lardaro giungeva l'annunzio della sospensione delle ostilità, preludio della pace.

Il 10 di agosto Garibaldi riceveva dal generale La Marmora il seguente telegramma:

"Considerazioni politiche esigono imperiosamente la conclusione dell'armistizio pel quale si richiede, che tutte le nostre forze si ritirino dal Tirolo.

"D'ordine del Re".

Quale scossa abbia provato in quel momento il cuore dell'Eroe e dei suoi compagni si può indovinare. Il Trentino perduto, Trieste abbandonata! Ma Garibaldi non tradì neppure con un segno la tempesta che aveva nel cuore, e rispose egli stesso al La Marmora: "Obbedisco".

La campagna per la liberazione del Veneto era finita ed i garibaldini si accingevano a ritornare alle loro case.

Anche la flottiglia del Lago di Garda si scioglieva. Essa, sebbene in condizioni immensamente inferiore alle forze austriache del Lago, seppe compiere il proprio dovere durante la campagna, e se avesse avuto alcuni altri giorni di tempo e ricevuto dal Ministero i cannoni richiesti per armare una zattera ormai a termine di costruzione, avrebbe certo messo tutto l'impegno per vincere la flottiglia nemica e per rendersi padrona del Lago.

Che non mancò al suo dovere lo dicono i due ordini del giorno seguenti del generale Garibaldi e del generale Avezzana comandante divisionale di Salò:

ORDINE DEL GIORNO
mandato al generale Avezzana
Comandante divisionale a Salò

Generale,

"Porgete una parola di lode ben meritata in nome della Patria e del Re ai prodi della nostra flottiglia; essi hanno ben meritato col loro esempio; e sotto il comando di voi, valoroso veterano dell'indipendenza della patria, vedremo presto il Garda libero dalla dominazione straniera.

Salò, 10 agosto.

G. Garibaldi.

Ecco l'ordine del giorno col quale il generale Avezzana, già Ministro della Repubblica Romana nel 1849, dava commiato agli equipaggi della flottiglia.

ORDINE DEL GIORNO

"Gli equipaggi dei volontari che rimasero fino ad oggi a bordo della flottiglia italiana nel lago di Garda, hanno ben meritato della patria. Coraggio nello sfidare il nemico superiore nel naviglio, in macchine da guerra, superiore in uomini. Virtù ed abnegazione negli ufficiali che servirono come semplici militi. Ordine, nettezza nelle Piro-Cannoniere, che il generale Garibaldi affidò alle loro cure.

"Fino al 12 luglio esse furono tre dinanzi al nemico, poi quattro ed in ultimo cinque. Lo affrontarono arditamente nelle sue acque sotto il fuoco delle batterie di terra e gli procacciarono uccisioni e danni. Qui, dove erano i pochi ma valorosi uomini, il nemico non osò mai venire. Unico vanto lo avere bombardato la inoffensiva città di Gargnano e rubato il "Benaco" a quindici miglia dalla flottiglia, che non poteva difendere l'inerme piroscafo mercantile.

"Io ricorderò sempre con militare orgoglio lo avere avuto ai miei ordini il personale degli equipaggi volontari in questa guerra del 1866, forse l'ultima della mia vita.

"S'abbiano tutti gli ufficiali e militi le mie sentite azioni di grazia.

Salò, 21 settembre 1866.

Il luogotenente generale
G. Avezzana"

All'ordine del giorno, il generale Avezzana faceva seguire questa lettera, diretta ad Elia:

Al Colonnello A. Elia

Comandante la flottiglia sul Lago di Garda.

Chi scrive è rimasto sommamente soddisfatto del modo come la S. V. ha disimpegnato il suo compito nel comando delle forze galleggianti sul lago di Garda. Ed aggiunge in verità come V. S. sendo comandante la cannoniera "Torrione" nella calamitosa notte del 26 giugno salvasse risolutamente la sua nave e le altre da prossima rovina, opponendosi ad ordini stati verbalmente impartiti da chi allora comandava la flottiglia. E di poi, insignito da chi scrive e poi confermato dal generale Garibaldi nel comando supremo, s'ebbe in codesto incarico l'elogio palese del salvato naviglio.

Lo scrivente, nell'attestare siffatte verità, offre alla S. V. i sentimenti della sua stima e devozione.

Salò, li 24 settembre 1866.

Il luogotenente generale
comandante divisionale
G. Avezzana

Infine il 28 settembre l'Elia faceva la consegna della flottiglia.

Salò, li 28 settembre 1866.

Il sottoscritto, incaricato dal Ministero di Marina di ricevere la flottiglia sul Lago di Garda affidata provvisoriamente al Corpo dei Volontari italiani, dichiara di aver ricevuto il materiale galleggiante della flottiglia dal colonnello dei Volontari sig. cav. Augusto Elia, presente il generale Avezzana e che ha trovato le cannoniere in ordine e pulizia.

 
Il comandante
Napoleone Canevaro

Gli ufficiali suoi compagni d'armi nella flottiglia; vollero dare al loro comandante il seguente attestato di affetto:

Al colonnello Augusto Elia

gli ufficiali della Marina Volontaria.

"Radunati oggi per stringerci tutti uniti la mano, permettete, o colonnello, che prima di separarci da voi v'indirizziamo una parola di addio.

"Non è la serva parola di chi adula o di chi esprime un affetto bugiardo, ma è la libera espressione di quanti amareggiati dalle memorie del passato, si confortano nella speranza di un migliore avvenire.

"Dimentichiamo intanto per carità di patria le umiliazioni sofferte sugli insanguinati campi di battaglia e nelle ingemmate aule della diplomazia, e che ci perdonino questo supremo sacrifizio i martiri invendicati di Custoza, di Tiarno e di Lissa!

"E noi pure confinati da tre mesi in questa riva, dove l'Eroe del popolo ci destinava a gloriosi avvenimenti, dimentichiamo l'ingrata inazione a cui ci si volle costretti, sfruttando tanta parte di entusiasmo e di generosi propositi.

"Colonnello! Se il sangue delle battaglie non ha battezzato la nostra camicia, voi ed i vostri bravi compagni, sul cui petto brilla la medaglia dei Mille, potrete francamente attestare, come inferiori di numero, di forze e nel difetto di tutto, sapemmo cimentare più volte un nemico, che pur troppo insegnava a chi ci governa come si appresta una guerra, mai a noi come si combatte, e si va incontro alla morte.

"Gli avvenimenti del 1866, non saranno però d'inutile peso nella bilancia dei nostri destini, perchè la democrazia rifulse di una luce più bella sulle alture di Custoza, fra le moschetterie del Tirolo, e in mezzo alle vampe della eroica Palestro!

"Questo è il nostro conforto, Colonnello, e quando tornati alle nostre case deporremo l'incruenta camicia rossa, giuriamo di vestirla quel giorno, in cui il popolo armato insanguinerà nuovamente le vette del Tirolo, e le coste di Istria, perchè qualunque straniero sappia, che quel tremendo confine è il confine dell'Italia, indipendente e libera!

Salò, 21 settembre 1866.

Mario Alberto, Burattini Carlo, Gagliardi Guglielmo, Bandini Temistocle, Bradicich Giuseppe, Viggiani Pompeo, Pegoraro Giuseppe, Martini Narciso, Pedani Tito, Stramazzoni Cesare, Brenno Bandini, Pacetti Luigi, Silvestrini Pasquale, Schiaffino Prospero, Bandini Costantino, Baracchini Andrea, Venzi Cesare, Barbieri Alessandro, Ghiglioni Lorenzo, Bocci Marino, Berardi Colombo, Camin Gaetano, Romani Giovanni, Negrini Mariano.

Intanto che questi fatti si svolgevano in terra un avvenimento dei più dolorosi avveniva nel mare Adriatico.

I migliori ufficiali della marina da guerra invocavano come loro Duce supremo il Galli della Mantica, uomo di grande capacità, e di straordinaria energia, ritenuto una vera tempra d'acciaio, capace di ogni eroismo. Fu invece preferito il conte Carlo Pellion di Persano, che già poteva dirsi vecchio, perchè aveva oltrepassata l'età di 60 anni.

Contro il Persano l'Austria seppe opporre un terribile avversario – Guglielmo Tegetthoff di quarant'anni appena di età; e fu scelto proprio lui, sebbene fosse il più giovine degli ammiragli, perchè lo si sapeva pieno di ardire e dì un coraggio quasi temerario.

La flotta italiana dopo il 24 giugno per la sua potenza era la dominatrice del mare Adriatico; e quella austriaca si teneva rinchiusa in Pola. Vi era tutto da tentare – tutto da sperare.

Fu decisa l'occupazione di Lissa, considerata la Gibilterra dell'Adriatico; e il 18 luglio alle 11 antimeridiane la nostra flotta prendeva posizione dirimpetto all'isola.

Una ricognizione fatta dal D'Amico, capo di stato maggiore del Persano, coll'esploratore "Messaggero" riferiva che la guarnigione dell'Isola era di 2500 uomini provveduta di tutto.

Deciso l'attacco, la flotta venne divisa in tre squadre; una comandata dal vice ammiraglio Vacca doveva attaccare Comisa, difesa da due batterie, e da una casamatta; l'altra sotto gli ordini del vice ammiraglio Albini doveva eseguire uno sbarco nel porto di Manego difeso da due batterie; la terza, comandata dal Persano doveva forzare il porto di S. Giorgio difeso da quattro forti e da due batterie.

Alle 11 1/2 del 19 incominciò il fuoco e senza interruzione durò fino alle 7 1/2 pomeridiane; alle 2 saltava in aria una polveriera nemica; alle 3 1/2 ne scoppiava una seconda e andava all'aria la Torre del Forte e la bandiera che vi era inalberata; alle 5 tutti i forti di S. Giorgio erano demoliti ed i cannoni, ad eccezione di due situati nell'elevata posizione del telegrafo, erano smontati e ridotti al silenzio; l'intrepidezza, il valore degli equipaggi è impossibile descrivere, sebbene a bordo non pochi fossero i feriti e parecchi i morti.

La presa di Lissa era assicurata; ma fu malauguratamente rimandata all'indomani, perchè si ebbe notizia che l'Albini non aveva potuto eseguire lo sbarco.

Alle ore 9 del giorno 20 l'avviso "Esploratore" segnalava la squadra nemica in vista. L'ammiraglio Persano avrebbe dovuto senz'altro assegnare a ciascuna delle navi sotto al suo comando il proprio posto di combattimento, e dare ad esse gli ordini della parte che avrebbe dovuto prendere per ribattere vittoriosamente l'attacco; invece l'ammiraglio Persano alle ore 9 1/2 abbandonava la nave di comando "Re d'Italia" per imbarcare sulla corazzata "Affondatore" accompagnato dal capo di stato maggiore e da due suoi aiutanti di bandiera.

L'onorevole deputato Pier Carlo Boggio che era nella nave ammiraglia "Re d'Italia" quale amatore e come storiografo, all'invito che gli fece il Persano, si rifiutò di seguirlo perchè ebbe subito la percezione che coll'abbandono della nave ammiraglia nel supremo momento del combattimento, si commetteva non solo un gravissimo errore, ma un vero atto colpevole da essere paragonato alla fuga davanti al nemico.

Intanto la squadra austriaca arrivava a grande velocità in linea su due file, ma formata in formidabile cuneo, col proposito di spazzare, rompere ed affondare tutte quelle navi che avrebbe incontrato sulla sua via; in testa a tutte era la nave ammiraglia "Carlo Max".

Il primo e maggiore impeto fu portato dal nemico sulla R. nave ammiraglia "Re d'Italia" – e si capisce! – L'ammiraglio Tegetthoff riteneva che su quella nave stesse il comandante in capo della flotta italiana, e le muoveva arditamente contro. Era un duello tra le due navi di comando – e quello dei due che ne fosse riuscito vincitore avrebbe deciso della vittoria della sua squadra!

Il "Re d'Italia" assalito da poppa, nei fianchi, da prua ebbe spezzato subito il timone per cui rimase senza governo; nella critica e fatale posizione, il comandante Foa di Bruno, uomo dei più valorosi, gli ufficiali sotto ai suoi ordini, gli equipaggi, i cannonieri tutti al loro posto impavidi, rispondevano agli assalitori con bordate, con tiri di cannone, con le carabine – quando – la nave ammiraglia austriaca "Max" le fu sopra a tutta forza di macchina e l'investiva con urto tremendo; con orribile scroscio lo sperone ferrato squarciatole il fianco, le apriva un'enorme breccia sotto la linea d'acqua – e il "Re d'Italia" la bella nave ammiraglia colla bandiera a riva spiegata al vento, sempre eroicamente combattendo s'inclinò – e fra le grida di viva l'Italia da parte del suo equipaggio, e col capo reverentemente scoperto di quello austriaco – sprofondava nell'abisso del mare trascinando nei vortici 700 eroi; primi fra tutti, l'Emilio Foa di Bruno comandante in prima, il deputato Pier Carlo Boggio, il marchese di Malaspina comandante in seconda, il cav. Del Santo sotto capo di stato maggiore, i tenenti Gualterio Enrico, Casanova Giuseppe, Bossano Alfredo, Bozzetto Michele ed Isola Carlo sottotenenti, Olivieri Giuseppe, Palermo Salvatore, Orsini Torello, il conte Fazioli, guardie marine, Verde cav. Luigi medico di bordo; ed il pittore Ippolito Ciaffi. Pochissimi furono i salvati e fra questi il bravo tenente Candiani.

Affondata la creduta nave ammiraglia le corazzate austriache assalgono le navi Italiane "Ancona" la "Palestro" la "San Martino" ed altre: il "Kaiser" si slanciava contro il "Re di Portogallo" ma ne esciva malconcio assai, messo fuori di combattimento ed in fuga, mercé l'abilità e la bravura del comandante Riboty. Nella mischia la "Palestro" venne colpita da granate nella parte non corazzata cagionandole forti avarie.

Sviluppatosi l'incendio il bravo comandante Cappellini fa di tutto per domarlo; ma inutili sforzi! Visto che ogni salvezza della corazzata è ormai impossibile due piroscafi dell'armata italiana "l'Indipendente" ed il "Governolo" sfidando ogni più grave rischio si accostano alla Palestro offrendo salvezza.

L'eroico comandante – chiama a raccolta i compagni – fa ad essi nota l'inevitabile catastrofe – quindi dice: "Chi vuole salvarsi si salvi" Unanime un grido risponde "faremo quello che il comandante sarà per fare" al che il Cappellini risponde "io non abbandono il mio posto" e allora gli eroi tutti a rispondere "vogliamo seguire la tua sorte".

Udita questa commovente decisione il comandante ordina sia alzato il gran pavese. I marinai salgono a riva sugli alberi, sui pennoni, intuonano i canti della Nazione. – Un orrendo scoppio – un ultimo, immenso grido si eleva al cielo "Viva l'Italia viva il Re" e in una nube di fiamme sono tutti avvolti – e i martiri della patria sprofondano nei vortici del mare.

Nel combattimento tutti fecero il loro dovere, gli eroismi di Foa di Bruno e del Cappellini sono immortali; va anche segnalato il valore dei Riboty, degli Acton, dei Del Carretto, dei Del Santo, e l'abnegazione il patriottismo, le virtù militari di tutti gli ufficiali della flotta e degli equipaggi.

Ma a che giova il valore, e a che vale l'eroismo se manca il duce che sappia condurre alla pugna ed alla vittoria?

Il Persano commise due errori gravissimi: il primo di avere abbandonato la nave ammiraglia pochi momenti prima del combattimento. Egli avrebbe dovuto scegliere fin dall'inizio della campagna come nave ammiraglia l'"Affondatore" se la credeva atta a meglio servirlo nel suo piano di battaglia; il secondo è, che egli non seppe adottare un ordine di battaglia rispondente a quello col quale la parte nemica veniva ad investirlo. Colla sua squadra il Persano doveva ordinarsi in due linee ed in forma d'imbuto; lasciare che le navi nemiche entrassero nell'imbuto e quindi assalirle prima a colpi di cannone, a bordate e poi investendole a colpi di sperone.

L'"Affondatore" doveva tenersi sopravento onde potere dominare, dirigere l'azione; ed impegnato il combattimento valersi della velocità della sua nave e delle sue qualità offensive, correre addosso al "Max" nave ammiraglia austriaca, investirla a tutta forza col tagliente suo sprone e colarla a fondo. Così avrebbe certamente manovrato Galli della Mantica. Invece come fu utilizzata questa nave, la più potente del tempo?

L'Affondatore (comandante Martini), mentre le nostre navi "Re d'Italia" "Re di Portogallo" "Ancona" "Palestro" e le altre si trovavano alle prese col nemico e facevano con tanto eroismo il loro dovere, traversata la linea delle corazzate italiane volgeva la prua contro il lato destro del "Kaiser" manovrando per investirlo col suo formidabile rostro. Già il luogotenente Chinca dalla tolda della nave manda il grido "pancia a terra" affinchè il potente urto imminente non faccia trabalzare gli uomini dell'equipaggio; già l'ultima ora è suonata per quel bel tipo delle antiche armate navali, quando ad un tratto, l'"Affondatore" per ordine imperioso dell'ammiraglio Persano comandante le forze navali italiane, piega bruscamente a destra e si allontana dal Kaiser e dal combattimento. Quante lacrime di vergogna e di dolore si saranno versate da quei bravi che formavano l'equipaggio della potente nave! Quanti di quei bravi si saranno morse le dita!

L'orgoglio italiano nell'anno 1866 ebbe a patire ben dolorose delusioni.

L'infelice giornata di Custoza che non fu priva di gloria per i nostri combattenti; la terribile catastrofe di Lissa; recavano profondo dolore nel cuore della nazione. E, per di più la Venezia, uno degli obbiettivi del patriottismo italiano, per sfogo di dispetto e di orgoglio dell'imperatore d'Austria, era data allo imperatore Napoleone dalle cui mani doveva riceverla il Re d'Italia!

Nella notte del 4 al 5 luglio il Re Vittorio Emanuele aveva ricevuto il seguente telegramma:

 

A S. M. il Re d'Italia

Parigi, 5 luglio

"Sire: L'imperatore d'Austria entrando nelle idee espresse nella mia lettera al sig. Drouyn De Lhuys, mi cede la Venezia, dichiarandosi pronto ad accettare una mediazione per ristabilire la pace.

L'esercito italiano ha avuto occasione di mostrare il suo valore. Un maggiore spargimento di sangue è dunque inutile e l'Italia può raggiungere onorevolmente lo scopo cui aspira mediante un accomodamento con me, su cui sarà facile intenderci. Scrivo a S. M. il Re di Prussia per fargli conoscere questo stato di cose e proporgli per la Germania come lo faccio a V. M. per l'Italia, la conclusione d'un armistizio come preliminare alle trattative di pace.

Napoleone"

Questo gravissimo annunzio, pochi giorni dopo una battaglia perduta, sebbene valorosamente combattuta, nel momento di ripigliare le offese con tante speranze e tanto bisogno di un grande successo d'armi, giunse al Re, all'esercito, all'Italia oltre ogni dire sgradito.

Ricevere la Venezia come un dono dalle mani dell'imperatore dei francesi feriva nel più vivo l'amor patrio degli italiani, non solo, ma avrebbe potuto dar motivo a dubbi ingiuriosi sulla fede dell'Italia verso la Prussia sua alleata.

D'altro canto ricusando, e continuando la guerra a dispetto dell'imperatore dei francesi, v'era la possibilità di vederci venir contro la Francia armata nel veneto o altrove! Pure tra la rovina alla quale una tal guerra ci avrebbe condotti e il disonore, nè al quartier generale nè al Re, nè al ministero poteva rimaner dubbia la scelta.

Il Re quindi rispondeva, ringraziando l'Imperatore dei Francesi dell'interesse che prendeva per l'Italia; ma che trattandosi di affare tanto grave doveva consultare il suo governo e il suo alleato al quale era stretto da un trattato.

Intanto il generale Cialdini domandava se poteva invadere senza perdita di tempo il territorio veneto e gittarsi nella provincia di Rovigo.

Il generale La Marmora rispondeva al Cialdini invitandolo ad operare, giacchè egli diceva "per me il peggio sarebbe ricevere la Venezia senza avervi messo piede".

E il generale Cialdini confermava che il 7 di sera avrebbe gettati i ponti e passato il Po.

Per questi fatti l'imperatore Napoleone era adiratissimo, e ci fu poco che la Città regina dell'Adriatico non vedesse sventolare sul campanile di S. Marco e sui forti della sua laguna la bandiera napoleonica ed a suo presidio le truppe francesi.

Per scrupolo di lealtà il barone Ricasoli d'accordo con S. M. il Re e col generale La Marmora si opponeva alla firma dell'armistizio senza averne prima ottenuto l'assenso del Re di Prussia alleato in quella campagna, e l'imperatore Napoleone aveva già ordinato che due navi da guerra con truppe da sbarco "La Provence" e "L'Eclaireur" partissero per Venezia con ordini suggellati.

Ubaldino Peruzzi, visto che al conte Nigra nostro ambasciatore a Parigi non era riuscito di parare il grave colpo, consigliò a Ricasoli di mandare a Parigi il Diamilla Muller conosciuto fin da giovinetto da Luigi Napoleone quando era principe, e che aveva elevate amicizie a Parigi fra le quali quelle di Alcide Grandguillot direttore del giornale officioso "Costitutional" e del generale De Fleury, perchè vedesse di scongiurare questo affronto all'Italia. Questi accettò la delicata, quanto difficile missione e seppe riuscire a risparmiare alla patria una nuova umiliazione e danni non lievi.

La retrocessione dal Veneto si effettuò senza scosse e senza riserve, e la conclusione della pace pose termine ad ogni complicazione.

Unita la Venezia all'Italia, Garibaldi pensava a sciogliere il suo voto a Roma. A tal fine raccomandava agli amici di non indugiarsi, e li incitava a fare i preparativi necessari.

A Firenze erasi costituito un comitato centrale che aveva per capi Cairoli, Crispi, Fabrizi, Guastalla ed altri, tutti animati dal vivo desiderio di dare all'Italia la sua Capitale naturale – Roma.