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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II

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CAPITOLO XXV

Campagna dell'Agro-Romano Montelibretti – Roma – Monterotondo – Mentana

Dopo le guerre del 1859-1860 le condizioni morali dei liberali romani avevano subito una forte scossa.

I più non accettavano senza discussione la condotta passiva, rassegnata, che dal 1853 veniva loro raccomandata.

L'emigrazione resa più numerosa per i giovani che da Roma erano corsi ad arruolarsi sotto la bandiera dell'unità nazionale, faceva apertamente intendere essere giunto il momento per Roma di cambiare attitudine, e suo dovere di pronunciarsi energicamente per la sua liberazione dal giogo papale.

La vittoria degli alleati sui campi Lombardi – la disfatta dell'esercito ponteficio nelle Marche – la marcia trionfale di Garibaldi nel regno di Napoli – avevano a tal punto entusiasmato la gioventù liberale romana da volere senz'altro che si uscisse dall'inerzia, nella quale l'aveva fatta addormentare il Comitato nazionale.

Ma questo Comitato nazionale romano faceva ogni sua possa per rattenere la brava gioventù dicendo: "La liberazione di Roma è questione difficile – solo la diplomazia può riuscirvi, quindi necessità assoluta di non crearle ostacoli e rimanere tranquilli lasciandone la cura al governo di Torino".

Il partito democratico di Roma, abbenchè stremato, non era del tutto spento. Esistevano ancora non pochi avanzi del 48 e 49 che alla azione del tempo ed alle seduzioni avevano resistito conservando integra la loro fede e i loro principi.

Questi patrioti, insofferenti a tanta sottomissione, s'intesero coi più animosi e migliori della emigrazione e coi capi del partito d'azione; ruppero gl'indugi e organizzarono dei nuclei indipendenti dal Comitato nazionale pronti all'azione; disgraziatamente, però, mancava un'unica direzione.

Il fatto poi di Aspromonte fu lo stimolo ad un azione concorde, e stabilita la fusione dei vari nuclei si costituì un Comitato d'Azione Romano col seguente programma:

"Fare propaganda incessante ed efficace onde indurre il popolo a scuotersi ed a sollevarsi, non fosse altro per dare pretesto al Governo di Torino di portare con maggiore utilità sul tappeto diplomatico la questione romana.

"Raggranellare gli elementi d'azione esistenti in città, organizzarli e prepararli per un dato momento alla riscossa. – Provvedere d'armi la città. – Stabilire mezzi regolari e sicuri al confine per lo scambio della corrispondenza. – Organizzare un servizio di corrispondenza coi giornali italiani ed esteri".

L'impresa era ardua – trattavasi di lottare col prete, coi francesi, col comitato nazionale! Bisognava agire con arditezza e ad un tempo con prudenza poichè le tre polizie, pontificia, francese e quella del comitato nazionale, erano intente a spiare e a sventare le mosse del nuovo centro d'azione.

Contro tutte queste difficoltà lottavano i direttori del partito d'Azione Romano – ed il programma tracciatosi ebbe in parte il suo svolgimento. Un giornale clandestino dal titolo Roma o morte fu istituito e in mezzo a mille ostacoli e peripezie non cessò dalla patriotica sua propaganda, combattendo per tre anni con accanimento le turpitudini del governo dei preti e la condotta del Comitato nazionale che a quello assicurava l'esistenza, consigliando al popolo la inazione.

In questo giornale oltre a patrioti romani, collaboravano Mazzini, De Boni, Asproni, Alberto Mario, Pianciani, Scifoni ed altri. Era direttore il dottore Giuseppe Pastorelli.

Si procedette dal Comitato d'azione all'organizzazione delle forze con forma e carattere proprio. La corrispondenza al di là dei confini fu organizzata con elementi d'indiscutibile sicurezza. Le armi erano state raccolte in luogo da potere essere, a momento opportuno, introdotte in città coll'aiuto di provati patrioti quali il Cucchi, il Guerzoni, l'Adamoli ed altri.

Certo è dunque che il lavoro lento sì, ma costante del Comitato d'azione romano valse a scuotere dall'inerzia la gioventù ed a preparare gli elementi che nella città dovevano prendere parte ad un fatto che doveva affrettare la liberazione di Roma.

L'11 febbraio 1867, il ministro Ricasoli, disapprovato nella perpetua questione del diritto di riunione, aveva sciolto la Camera.

Convocata la nuova, questa non apparendo diversa da quella disciolta, il barone Ricasoli senza attendere alcun voto che lo giudicasse, rassegnava il potere, che veniva raccolto da Urbano Rattazzi.

Si sapeva del nuovo presidente del Consiglio le opinioni su Roma. Egli aveva censurato la convenzione di settembre, e s'era risolutamente opposto alla convenzione Lagrand Dumonceau.

Era pur noto che egli non intendeva fare alcuna concessione alla Chiesa se non quando fosse cessato il potere temporale dell'autorità ecclesiastica ed il governo italiano fosse insediato in Roma.

L'entrata al potere del Rattazzi fece nascere nel partito liberale italiano la speranza che con lui si sarebbe andati a Roma; e il partito d'azione si mise subito all'opera per accelerare l'evento.

Da parte sua il generale Garibaldi inviava al Comitato insurrezionale di Terni il capitano Galliano e il tenente Perelli col mandato di armare quanti giovani fuorusciti romani avessero potuto raccogliere, e con questi, fatta insurrezione nello Stato Pontificio, gettarvi la prima favilla dell'incendio. I rappresentanti del partito d'azione nel Ternano conte Massarucci e Frattini, caldi patrioti e vecchi cospiratori, consentivano di dar mano all'impresa; e il 19 giugno il Galliano ed il Perelli raccolti ed armati centoquattro giovani arditi, tragittata la Nera marciavano per la Sabina. Se nonchè giunti nel punto di sconfinare nei pressi di Ponte Catino e Castelnuovo, una compagnia di granatieri, che si teneva ivi imboscata, circuì la colonna e le intimava la resa.

Questo fatto non influì in ciascun modo a raffreddare l'opera di Garibaldi, chè anzi servì a spronarla. Difatti Garibaldi mandava Cucchi Francesco a Roma per annodare in sua mano le fila della rivoluzione; mandava suo figlio Menotti a sondare il terreno e a stringere patti col Nicotera e con altri nel mezzogiorno; incaricava Acerbi della raccolta dei giovani e delle armi alla frontiera Umbro-Toscana e lo mandava in suo nome a scandagliare le intenzioni del Rattazzi: da quanto ne fu trapelato parve che il Rattazzi non dissentisse dall'idea del generale ed era pronto a coadiuvarlo. Solo dimostrava la necessità che il generale, per acquietare le rimostranze del governo francese e stornare i sospetti del governo pontificio, lasciasse per qualche tempo il continente e si recasse a Caprera.

Intanto nella prima quindicina di agosto il generale aveva dati i suoi ordini e distribuite le parti come alla vigilia di un entrata in campagna; Menotti doveva sconfinare da Terni coll'obbiettivo Monterotondo; Acerbi da Orvieto obbiettivo Viterbo; Nicotera e Salomone da Aquila e Pontecorvo obbiettivo Velletri.

Già il 13 luglio 1867 i comitati riuniti avevano annunziata la loro fusione col seguente manifesto:

Romani!

"Il voto comune, il voto di tutti quelli a cui batte il cuore per l'onore e la libertà della patria, si è realizzato.

"Non più dissensi, non più divisioni; tutte le frazioni del partito liberale si sono data la mano, hanno unite le forze per abbattere per sempre questo resto del governo papale e dare Roma all'Italia.

"Il Comitato Nazionale Romano ed il Centro d'insurrezione fanno quindi luogo ad una Giunta Nazionale Romana la quale assume la suprema direzione delle cose.

"Rallegriamoci di questa santa concordia, e diamo opera a fecondarla con unità di fede e di disciplina, con unità di propositi e di sacrificii. Il fascio romano è ora veramente formato: facciamo che non si sciolga mai più e che presto ci dia la vittoria.

Romani!

"I cittadini rispettabili, che fanno parte della Giunta a cui rassegneremo l'ufficio, sono degni dell'alta missione; ma a nulla riuscirebbero senza il vostro concorso.

"Secondateli adunque, fidenti ed animosi e l'impresa non fallirà.

"Vogliamolo tutti, e ben presto venticinque milioni di fratelli saluteranno Roma Capitale d'Italia".

Il Comitato Nazionale Romano
Il Centro d'Insurrezione.

In quel tempo, invitato Garibaldi ad intervenire al Congresso Socialista Internazionale della pace, che doveva tenersi a Ginevra, vi andò accompagnato da Cairoli, da Alberto Mario, da Ceneri, da Riboli, e da altri amici, e dopo un suo discorso, concretava la sua opinione colle seguenti affermazioni:

1o Tutte le Nazioni sono sorelle.

2o La guerra fra di loro è impossibile.

3o Tutte le querele che sorgeranno tra le Nazioni, dovranno essere giudicate da un Congresso.

4o I membri del Congresso saranno nominati dalle società democratiche dei popoli.

5 °Ciascun popolo avrà diritto di voto al Congresso, qualunque sia il numero dei suoi membri.

6o Il papato, essendo la più nociva delle sette, è dichiarato decaduto.

7o La religione di Dio è adottata dal Congresso e ciascuno dei suoi membri si obbliga di propagarla. Intendo per religione di Dio la religione della verità e della ragione.

8o Supplire il sacerdozio dell'ignoranza, col sacerdozio della scienza e dell'intelligenza.

"La Democrazia sola può rimediare al flagello della guerra.

"Lo schiavo solo ha il diritto di far la guerra al tiranno; è il solo caso in cui la guerra è permessa".

A questo colpo inatteso, che urtava contro le idee predominanti nel Congresso, successe un inferno. Garibaldi non attese neppure la votazione, abbandonò il Congresso, rientrò in Italia, e fermatosi un poco a Belgirate, fece ritorno a Firenze.

 

Intanto le sue istruzioni per la concentrazione delle colonne invadenti il territorio romano erano date e stava per partire egli pure pel luogo dell'azione, quando il 23 settembre in Sinalunga venne arrestato; doveva essere tradotto ad Alessandria. A Pistoia, mentre si era per un momento fermato nel viaggio ebbe tempo di consegnare al Del Vecchio il seguente biglietto da pubblicarsi:

24 settembre

"I romani hanno il diritto degli schiavi, insorgere contro i tiranni.

"Gli italiani hanno il dovere di aiutarli e spero lo faranno a dispetto della prigionia di cinquanta Garibaldi.

"Avanti adunque nelle vostre belle risoluzioni, Romani e Italiani. Il mondo intero vi guarda, e voi, compiuta l'opera, marcerete colla fronte alta e direte alle Nazioni: Noi abbiamo sbarazzata la via alla fratellanza umana, dal suo più abominevole nemico.

G. Garibaldi

Il 27 imbarcato nella Ra nave l'"Esploratore" veniva portato a Caprera dove doveva essere sorvegliato a vista da navi da guerra e dalle loro imbarcazioni.

Intanto che il governo sequestrava Garibaldi, i suoi amici discutevano sul modo di raggiungere lo scopo; se l'accordo nel fine era generale —la liberazione di Roma– vi era discordia sui mezzi di esecuzione: Crispi, Fabrizi, Cucchi, Cairoli, Guastalla, Miceli, La Porta, Oliva, Guerzoni, Adamoli, Damiani, tutta quasi la frazione politica-militare del partito garibaldino opinava che il segnale della riscossa dovesse partire da Roma; Menotti, Canzio, Acerbi e qualche altro, tenendosi più ligi alle istruzioni del generale, volevano che le mosse dovessero essere parallele; il Cucchi, che più di tutti la caldeggiava, dava per sicura l'iniziativa romana.

Mentre avvenivano queste trattative fra i capi del movimento; ad un tratto, all'improvviso per tutti, un circa duecento giovani capitanati dal trentino Luigi Fontana dei Mille, passavano il confine nel Viterbese, si buttavano sopra Acquapendente e dopo una zuffa accanita facevano prigionieri una quarantina di gendarmi pontifici e s'impossessavano del paese.

All'annunzio dell'inopinato assalto di Acquapendente Menotti ed Acerbi credettero non essere più questione di discutere – essere impegnato il loro onore ad accorrere in soccorso degli arditi patrioti – e quindi Acerbi diede ordine alle sue genti di sconfinare.

Il 3 ottobre Menotti Garibaldi rotti gli indugi con pochi compagni e col capitano Tringalli varcava nascostamente il confine. Si diresse a Poggio Catino ove fu accolto con amore fraterno in casa del conte Galeazzo Ugolini. Ma non volle fermarvisi e tosto si mise in moto. A S. Valentino il Sindaco Nardi con venti giovanotti ingrossava il drappello che a Poggio Mirteto accoglieva altri trenta animosi; a Montemaggiore trovava il capitano Fontana con cinquanta circa volenterosi e vi pernottava. Sull'albeggiare la colonna si dirigeva a Montelibretti.

Menotti con circa 80 uomini precedeva, gli altri col Tringali e coll'Ugolini seguivano alla distanza di mezzo chilometro. Giunto Menotti nella macchia di Manocchio si trovò assalito da buona schiera di gendarmi e di zuavi pontifici che lo attendevano in imboscata.

I nostri sebbene sorpresi non si perdettero d'animo; guidati dal valoroso Menotti Garibaldi i bravi volontari si lanciarono sull'inimico; questo dopo breve resistenza preso da sgomento si dava a fuga precipitosa.

Il giorno 6 accampavano i nostri a Carmignano di fronte a Nerola occupata dal colonnello De Charette; quivi la colonna fu raggiunta dal maggiore Salomone che conduceva circa 150 volontari; dal maggiore Valentini di Aquila con altri 100 volontari circa; giungevano pure altri 60 baldi giovani guidati da Lodovico Petrini e dal conte Ippolito Vicentini di Rieti; 100 circa da Montopoli sotto gli ordini dei fratelli Rondoni e dell'emigrato romano Ovidi Ercole; arrivava infine il maggiore Fazzari che conduceva oltre 300 volontari da lui formati in un bello e valente battaglione.

Sotto gli ordini di Menotti erano ormai 900 circa volontari. Intanto il collonnello de Charette informato che la colonna che gli stava di fronte erasi molto ingrossata, abbandonava Nerola per Montelibretti.

La mattina dell'8 ottobre, Menotti fece muovere la colonna ed alla sera occupava Nerola; ivi attendeva all'organizzazione della sua truppa ed a provvederla dell'armamento che giungeva da Terni. La mattina del 13 ordinava la marcia su Montelibretti e la colonna vi giungeva verso le due pomeridiane. Si erano avute informazioni che il nemico erasi allontanato, per cui i garibaldini credendosi sicuri avevano formato i fasci d'armi e ognuno per conto suo cercava di provvedere ai propri bisogni ed a ristorarsi del lungo cammino.

D'improvviso una scarica di fucilate avverte i volontari che il nemico è alle porte del paese. Si corse senza ritardo alle armi. Il Fazzari montato a cavallo scorreva le vie animando ed incitando quanti incontrava a formarsi in colonna. Messo assieme un gruppo di circa 50 uomini esce animoso dalla porta e precipita contro il nemico che a passo di carica veniva ad investire il paese.

Era un battaglione di zuavi pontifici, i quali visto Fazzari a cavallo lo accolgono con una scarica a bruciapelo che gli uccide il cavallo e lo ferisce alla gamba; il cavaliere precipita di sella ma non si dà per vinto; ha in pugno il suo revolver, lo scarica addosso a chi ha la disgrazia di avvicinarglisi e sparati tutti i colpi finisce per scaraventare il suo revolver stesso contro i nemici che lo accerchiavano. Questo eroismo incute rispetto agli ufficiali che comandavano i zuavi, i quali invece di finirlo lo lasciavano in custodia di tre dei loro, mentre la massa continuava ad avanzare mantenendo fuoco vivissimo contro i nostri che, sebbene in pochi, tenevano testa.

Intanto Menotti aveva riunito intorno a sè il grosso dei volontari e a passo di carica investe i nemici che fanno resistenza ma infine il valore dei nostri li vince e dei zuavi pochi poterono salvarsi, i più erano rimasti sul terreno morti e feriti.

Nel combattimento molto si distinsero, senza dire del Menotti e del Fazzari, il capitano Tringalli ed i tenenti conte Ugolini Galeazzo e Nani Raffaele, e il sottotenente Campagnoli Aldebrando della colonna Salomone.

Il 13 di ottobre Nicotera esso pure sconfinava con ottocento uomini a Vallecorsa e l'indomani s'avviava a Falvaterra.

Si aspettava che Roma desse qualche segno di vita e Cucchi, Guerzoni, Adamoli, Bossi, Celle, Costa si erano stretti in lega coi membri del Comitato di Azione; ma tutti sentivano che la sollevazione intempestiva nella provincia aveva resa impossibile una sorpresa nella Capitale.

Mentre questo avveniva in Sabina, Canzio e Vigiani pensavano di trarre Garibaldi dalla prigionia di Caprera. Noleggiata una paranzella salparono da Livorno il 14 ottobre, cautamente accostarono alla Maddalena ed a mezzo della Signora Collin, fatto pervenire un biglietto al Generale, proseguivano pel porticello di Brandinchi per aspettarvelo. La notte del 16 ottobre il Generale avventuratosi sopra un guscio di noce, faceva il tragitto da Caprera al punto di ritrovo, e deludendo la vigilanza dei R. Equipaggi, prendeva imbarco nella paranzella, sbarcava a Livorno, ed in sul mezzogiorno del 20 arrivava a Firenze con grande sorpresa del Governo e gioia degli amici.

Il 21 ottobre 1867 veniva diramato il seguente manifesto:

Romani all'armi!

"Per la nostra libertà, per il nostro diritto, per l'unità della patria Italiana, per l'onore del Nome Romano.

All'armi!

"Il nostro grido di guerra sia:

"Morte al papato temporale! Viva Roma Capitale d'Italia. Rispettiamo tutte le credenze religiose, ma liberiamoci una volta e per sempre da una tirannia, che ci separa violentemente dalla famiglia italiana e tenta perpetuare l'inganno, che Roma sia esclusa dal diritto di nazionalità ed appartenga a tutto il mondo, fuorchè all'Italia.

"Da molti giorni i nostri fratelli hanno levato il vessillo della santa rivolta e bagnata del loro sangue la via sacra di Roma.

"Non tolleriamo più che siano soli e rispondiamo al loro eroico appello con la campana del Campidoglio.

"Il nostro dovere, la solidarietà della causa comune, le tradizioni di Roma ce lo impongono.

All'armi!

"Chiunque può impugnare il fucile accorra, facciano di ogni casa un fortezza, di ogni ferro un'arma.

"I vecchi, le donne, i fanciulli elevino le barricate, i giovani le difendano.

"Viva l'Italia!

"Viva Roma!"

Durante la traversata della paranzella da Brandinchi a Livorno Garibaldi redigeva il seguente manifesto:

Da bordo, 18 ottobre 1867.

"Redimere l'Italia e poi morire".

Cari compagni,

"Eccomi ancora con voi, prodi sostenitori dell'onore italiano. Con voi, per compire un dovere, per aiutarvi nella più santa e gloriosa impresa del nostro risorgimento.

"L'Italia s'è persuasa, che non può vivere senza il suo corpo, senza il cuore, senza la sua Roma, che alcuni servili ledendo un diritto e il decoro nazionale, vogliono sacrificare ai capricci d'uno spregevole tiranno.

"Dunque avanti, e costanza soprattutto! Io non vi chieggo coraggio, valore, perchè vi conosco. Vi chieggo costanza. Gli Americani durarono quattordici anni nella lotta gloriosa, che li fece la più potente, la più libera nazione del mondo: a noi concordi bastano pochi mesi per lavare l'Italia dal sudiciume che l'infesta, voglia o non voglia un semplice bastardume ed i suoi padroni.

"G. Garibaldi".

Il 22 partì per Terni. Ivi giunto sapendo che il Governo aveva dato ordine di arrestarlo, in sull'albeggiare del 23, sconfinava a Passo Corese e dava ordine a Menotti, comandante del centro, di riunire tutte le colonne che si trovavano già pronte e di sconfinare senza ritardo. Intanto altre colonne erano in formazione a Terni. E nella notte del 24 Garibaldi telegrafava al Comitato di Firenze: "Occupo Passo Corese e Monte Maggiore con le forze riunite di Menotti". Nel giorno stesso ordinò si investisse Monte Rotondo, che voleva ad ogni costo occupare, ancorchè non avesse alcun pezzo di artiglieria.

La notizia che Garibaldi era entrato nel territorio pontificio, fece accorrere volontari da tutte le parti; anche Ancona eccitata alla guerra da un patriottico proclama non mancò di fare il suo dovere.

Messi assieme pochi fondi, e raccolte delle armi, partiva una colonna di cui veniva affidato il comando ad Elia. Prima però, che questa colonna composta di più di mille ducento volontari fosse armata, si dovette perdere molto tempo a Terni. Infine rotto ogni indugio e sebbene non poche armi mancassero per l'armamento completo, Elia ordinava la partenza e raggiungeva il generale Garibaldi e suo figlio a Monte Rotondo, ove già si combatteva.

La difesa di Monte Rotondo fu accanita. L'attacco incominciato all'alba era durato tutta la giornata; stava per calare la notte ed il fuoco continuava accanito da parte dei papalini; già molti dei nostri erano feriti, fra i quali, Mosto, Martinelli, Uziel; morti il Giovagnoli, l'Andreucci ed altri. "Bisogna finirla" grida Garibaldi – ed ordina di dar fuoco alla porta; verso le otto di sera la porta andava in fiamme e fattavi una apertura i garibaldini vi si precipitano dentro, gli antiboini si rifuggiano nel Castello ed all'albeggiare riprendevano le fucilate; ma visto che i volontari, penetrati nelle scuderie del principe Piombino, che era coi garibaldini a combattere per la liberazione di Roma, si preparavano a dare fuoco al Castello, incendiando il fienile, verso le 9 di mattino si arrendevano, lasciando in nostre mani due cannoni con un centinaio di cariche, circa 300 fucili e poche munizioni.

Nella presa di Monterotondo si comportarono da valorosi, rimanendo feriti, Antonio Lazzari, Emilio Pignocchi, Guerrino Galeazzi, Giovanni Dottavi, Massimiliano Gianforlini, Gennaro Montevecchio, Vincenzo Spadolini, Campagnoli Aldebrando, tutti di Ancona.

Ecco come il generale partecipava la presa di Monterotondo:

Caro Fabrizi

"L'impresa di Monterotondo è certamente una delle più gloriose per questi poveri prodi volontari.

"In tutte le campagne in cui ebbi l'onore di comandarli non li vidi mai sì travagliati dai disagi, dalla nudità e dalla fame.

"Eppure questi valorosi giovani, stanchi ed affamati, hanno compito in questa notte un sanguinoso e difficile assalto, come non avrebbero fatto meglio i primi soldati del mondo. Sono le 4 e siamo padroni di Monterotondo, meno il palazzo in cui si sono rifugiati i zuavi, antiboini e svizzeri.

 

"Abbiamo in mano molti trofei della vittoria, cavalli, armi e prigionieri.

"Monterotondo, 26 ottobre 4 ant.

G. Garibaldi".
ORDINE DEL GIORNO

"Anche in questa campagna di Roma i valorosi volontari hanno compito il loro glorioso Calatafimi; temporali, nudità, fame quasi da non credersi sostenibili, non furono capaci di scuotere il brillante loro contegno.

"Essi assaltarono una città murata, colle porte barricate e cannoni per difenderla, guernita dagli esperti tiratori che i preti regalano agli italiani da tanti secoli, con uno slancio di cui l'Italia può andare superba!

"Dio benedica questi generosi.

"Monterotondo, 26 ottobre.

G. Garibaldi".

Al Comitato Centrale di Roma:

Cari Amici

"Dopo l'assalto e la presa di Monterotondo ci siamo spinti sino a sei miglia da Roma, ove ci troviamo ora.

"Dei nemici non abbiamo notizie. Se la spedizione francese è vera, spero vedere ogni italiano fare il suo dovere.

"Casina S. Colomba, 27 ottobre.

G. Garibaldi".

Il 24 ottobre Acerbi assaliva Viterbo, ma nonostante il valore spiegato dai suoi, nel quale primeggiò il bravo Napoleone Parboni che l'Acerbi promoveva maggiore, fu necessità desistere dall'attacco.

Il giorno 26 i ponteficii abbandonavano Viterbo e l'Acerbi se ne impadroniva senza colpo ferire. Nella giornata del 24 si distinse anche il capitano Greco, siciliano.

Il Nicotera che aveva per obiettivo Velletri ebbe un serio e micidiale combattimento a Monte San Giovanni, ove cadeva l'eroico Di Benedetto con ben ventidue valorosi compagni; il 28 il Nicotera prendeva la sua rivincita a Frosinone, ove fugava il nemico cagionandogli forti perdite ed il 30 occupava Velletri.

Appena si seppe in Roma che bande di garibaldini erano entrate nel territorio del papa, il governo non ebbe più ritegno. Chiuse alcune delle porte della città; le altre fortemente custodite; sorvegliati gli alberghi e le case; cacciati i forestieri sospetti; infine rigori e vessazioni di ogni sorta; difficile quindi più che mai preparare una sommossa, senza che la polizia non ne venisse a cognizione.

Cucchi Francesco era stato incaricato, con amplissima credenziale di Garibaldi, d'intendersi col Comitato d'insurrezione e coi membri della Giunta Nazionale per promuovere e dirigere il movimento di Roma.

A coadiuvare il colonnello Cucchi erano entrati in Roma, il maggiore Guerzoni il maggiore Adamoli, il colonnello Bossi, il Cella, i quali sfidando ogni pericolo lavoravano indefessamente perchè scoppiasse la scintilla rivoluzionaria ma, nonostante i prodigi d'operosità e d'ardire del Cucchi e dei suoi compagni, i preparativi per l'audace impresa non si erano potuti completare; e, quel che peggio, le armi, senza le quali i congiurati romani si protestavano impotenti a qualunque tentativo, non erasi ancora trovato modo di farle entrare in Roma.

Ma da quelli di Firenze si scriveva al Cucchi "una schioppettata, una sola schioppettata entro Roma e basta"; e la schioppettata fu tirata.

Disegno dei cospiratori era d'assalire il Campidoglio, impadronirsene ed asserragliarvisi. Un drappello di congiurati guidati dal Cucchi e dal Costa Nino era incaricato di questa faccenda. Il colonnello Bossi con altra squadra doveva sorprendere il corpo di guardia di piazza Colonna; Guerzoni con cento uomini forzare Porta S. Paolo e distribuire agli insorgenti le armi depositate nella Villa Matteini. Giuseppe Monti con altri doveva minare e fare saltare la Caserma Serristori, e Zoffetti e altri cannonieri inchiodare le artigliere del Castel Sant'Angelo. I fratelli Cairoli dovevano scendere il Tevere fino a Ripetta, e portare armi che dovevano prendere a Terni. Senonchè, tutte queste imprese audaci abortirono, perchè il Governatore di Roma venutone a cognizione, aveva prese le misure preventive; solo la Caserma Serristori andò in parte all'aria, ma senza scopo, perchè vuota di soldati ponteficii. I fratelli Cairoli con settanta valorosissimi compagni, arrivati all'altezza di Ponte Molle, saputo che i preparativi di sommossa erano falliti, furono costretti a tenersi nascosti durante la notte fra i canneti, ed a cercarsi poi un migliore rifugio appena fatta l'alba. Credevano d'averlo trovato a Villa Glori sui monti Parioli; ma scoperti ed assaliti da truppe cinque o sei volte superiori, dopo eroica resistenza, caduto Giovanni Cairoli, ferito mortalmente Enrico mentre cercava d'assistere il fratello moribondo, la più bella schiera d'eroi, che avesse mai fatto sagrifizio di sè per la patria veniva decimata e dispersa.

Fallito il moto insurrezionale della notte del 22 ottobre, in Trastevere buon numero di arditi popolani si apparecchiavano alla riscossa.

Giulio Aiani patriota e giovane pieno di ardimento, proprietario di un lanificio in via della Lungaretta, aveva dato convegno a quanti erano giovani liberali, forti e coraggiosi in Trastevere, e per quanto potè, raccolse nel suo stabilimento fucili, revolver e munizioni.

In quella casa erasi istituito un laboratorio ove si fabbricavano cartuccie al cui bisogno erano intente alcune giovinette del popolo, addette come lavoranti nel lanificio.

Prossima allo stabilimento eravi l'abitazione di Francesco Arquati, altro vero patriota, molto popolare nel rione di Trastevere. La moglie di lui e le figlie anche esse attendevano alla preparazione delle munizioni, mentre il figlio maggiore dell'Arquati, Pasquale, insieme a Giulio Aiani, percorrevano quel popoloso quartiere per la propaganda alla rivolta, eccitando ad un'ardito movimento i più animosi di quei popolani.

In fatti il 25 ottobre l'opera ferveva nel lanificio Aiani, divenuto focolare di quel manipolo di patrioti, decisi a morire per la libertà di Roma. Fra questi eravi pure Cesare Sterbini, parente del triumviro della repubblica romana nel 1849; quando alle 2 1/4 uno dei giovani che stava di vedetta su una terrazza, dava l'avviso dell'approssimarsi di un corpo di zuavi accompagnati da forte stuolo di gendarmi; fu chiusa e barricata la porta di strada e tutti corsero ad armarsi risoluti all'estrema difesa.

Gli zuavi si slanciano per abbattere coi calci dei fucili la porta della casa, ma dall'alto si tirano delle bombe nelle loro file, e sono ricevuti da fucilata così viva, da costringere la truppa papalina ad abbandonare l'assalto ed a ripararsi nelle vicine vie, ove appiattata, iniziava un vivo fuoco di fucileria contro i patrioti romani.

Al rumore delle fucilate Giulio Aiani che si trovava in casa Arquati corre verso l'uscio per uscirne, ma la casa è in un baleno circondata dagli zuavi e dai gendarmi, che, forzata la porta, si slanciano per le scale; l'Aiani col revolver in pugno si precipita sugli invasori, ma assalito da ogni parte dopo una lotta terribile, sopraffatto dal numero, viene legato e tratto in prigione.

Intanto il combattimento contro la casa Aiani si fa sempre più vivo. Paolo Gioacchini, uomo di 50 anni, capo del lanificio, coi di lui figli Giuseppe e Giovanni incoraggiano alla resistenza e nessuno pensa di arrendersi. Infine il comandante degli zuavi, irritato nel vedere che un pugno d'uomini teneva testa a più di trecento soldati, fa suonare la carica; gli zuavi si lanciano all'assalto della porta, ma per la seconda volta vengono respinti, e molti sono i morti e i feriti. Da due ore si combatteva, quando si vide sopraggiungere altre truppe in rinforzo e la fucilata si faceva più viva.

I tre Gioacchini e Pietro Luzzi lanciano bombe e tirano fucilate dalla terrazza, vengono feriti uno dei Gioacchini ed un giovane trombettiere disertato dalle truppe pontificie. Si combatteva da quattro ore quando agli zuavi riesce di sfondare la porta; la casa è invasa dalla truppa inferocita per la lunga resistenza e fa macello di quanti incontra; Angelo Marinelli, vecchio settantenne, gridava ai giovani di porsi in salvo pei tetti, mentre egli teneva testa agli invasori atterrandone quanti gli si facevano vicini a colpi di accetta, finchè crivellato da ferite cadde per non più rialzarsi; intanto ad alcuni dei difensori era riuscito di mettersi in salvo pei tetti delle case vicine, dove poscia vennero arrestati.

Quelli che non poterono salvarsi non cessavano da combattere sulle scale, sugli abbaini, a corpo a corpo colle daghe, coi pugnali, coi denti, dominante in mezzo a tutti l'eroica donna Giuditta-Tavani-Arquati, che incuora, comanda e combatte, terribile nell'ira nel vedere avanti a se il cadavere del marito e quello del giovinetto figlio, entrambi trucidati; alla fine soccombeva essa pure trafitta da replicati colpi.