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La famiglia Bonifazio; racconto

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VII

La notizia di questa catastrofe colpì tutta Italia come una calamità nazionale; si sparse dovunque, ridestò l'odio degli esuli che soffrivano lontani dal focolare domestico, portò la desolazione a Treviso e in Brianza, ove i parenti e gli amici appresero con orrore la rapida morte dei loro cari, che parve a tutti lo schianto di due fiori prodotto dalla violenza d'un uragano. A tale sventura si aggiunsero le relazioni dell'infame processo, i patimenti di chi languiva nel carcere, i supplizi che lo seguirono, e tutto insieme accumulava le maledizioni degli oppressi sugli oppressori.

I due poveri vecchi che in così breve spazio di tempo avevano perduto i due diletti figliuoli involati violentemente alla pace domestica, compiute le onoranze funebri, ritornarono piangenti alla loro casa, ove un'orfanella innocente li aspettava colle braccia protese invocando il ritorno della sua buona mamma, e del babbo.

La nonna Maddalena dovette assumere gli uffici di madre, e dissimulare la grave disgrazia all'infelice bambina, essa che aveva tanto bisogno di piangere.

Il capitano scriveva lettere di fuoco al figlio superstite, perchè gli esuli si agitassero anche in Francia, e spingessero quella nazione a non tollerare più oltre in Italia la infamia della dominazione straniera, e aiutassero gli schiavi ad infrangere quelle catene che li rendeva impotenti alla rivendicazione dei loro diritti.

Da ogni parte venivano voci di speranza, ma il frutto non era maturo.

Intanto le disgrazie accasciavano i vecchi. Il capitano curvava la schiena sotto il peso degli anni aggravati dal dolore. Soffriva delle vertigini che lo esponevano a cadere, se non trovava un sostegno. Il maestro Zecchini lo consigliava a consultare un medico, il Bonifazio alzava le spalle con dispetto e non gli dava retta.

– Avete bisogno d'un salasso, insisteva a dirgli il maestro.

– Il salasso bisogna farlo all'esercito austriaco, abbondante fino allo svenimento, e allora sarò sicuro di guarire.

La piccola Maria cresceva in salute ed in grazia, sotto quegli alberi maestosi che colle loro ombre avevano protetta l'infanzia di suo padre, ed avevano consolato i giorni più lieti della breve esistenza di sua madre. La bimba giuocava coi fanciulli della sua età, e coglieva fiori e farfalle intorno a quei viali tortuosi che erano stati percorsi dai suoi genitori nel tempo felice.

Il maestro Zecchini le insegnava a leggere sui vecchi libri che avevano servito al suo babbo ed allo zio Gervasio; ma quando la bambina si rifuggiava sui ginocchi della nonna, mostrandosi annoiata della monotona cantilena del maestro, implorando la grazia di ritornare ai suoi diletti infantili, la buona donna la liberava subito dal peso della lezione, e la rimandava libera ai boschetti del parco.

– A che cosa serve l'istruzione per chi non ha patria? essa diceva a Zecchini, a che cosa hanno servito tanti studi al mio povero Stefano? se fosse stato un ignorante, sarebbe ancora con noi.

– È vero! pur troppo è vero! rispondeva il maestro, il diritto, la ragione, la scienza sono impotenti contro la forza brutale. Contro le baionette non valgono che i cannoni, e il nostro popolo subisce la dura tirannide senza rivoltarsi. – L'uomo è un asino!.. condotto colla cavezza e spinto col bastone, cammina rassegnato da vera bestia da soma. – E dopo qualche sospiro, riprendeva: – Tuttavia l'istruzione è l'unica arma che ci resta. Bisogna istruirsi per saper distinguere il male dal bene, l'intelligenza e la coltura aprono tutte le strade, è un dovere di tutti istruirsi; non solo gli uomini, ma anche le donne. Avete torto di incoraggiare la bimba a trascurare lo studio…

– Che sia felice almeno nella infanzia, interrompeva la Maddalena; chi sa a quale sorte è riservata nell'avvenire!.. i pochi giorni felici sono tutti guadagnati.

Così la bambina, secondata dalla nonna, cresceva ignorante, ma bella come la sua mamma, della quale aveva i capelli abbondanti, il sorriso degli occhi, e la bocca un po' grande, ma affettuosa.

Essa, che adorava la nonna, si prestava però volentieri per assisterla nelle faccende domestiche, le piaceva di stare in cucina ad ammannire le vivande, imparava prontamente ad apparecchiare a condire ed a cuocere le varie pietanze, e a sorvegliare i fornelli. Faceva grande attenzione alle faccende della casa, voleva che la nonna la lasciasse fare da sola, era contentissima quando riusciva bene, e che il nonno le faceva un elogio, per qualche manicaretto elaborato dalle sue tenere mani.

E imparò presto a cucire, a rammendare la biancheria, a inamidarla e stirarla a dovere. Faceva bene la pulizia delle camere, metteva tutto in assetto con attenzione, le piaceva l'ordine in ogni cosa.

Si annoiava soltanto quando le mettevano in mano un libro, o la facevano scrivere; allora sbadigliava, faceva delle smorfiette, e si rassegnava soltanto per contentare il nonno, che non divedeva l'opinione di sua moglie sull'istruzione, ed esigeva questo sacrifizio come un dovere indispensabile. La nonna difendeva sempre Maria, che non aveva voglia di studiare.

– Lasciala in pace, diceva a suo marito, lascia che sia felice, le donne più felici sono quelle che sanno meno.

– Non dir sciocchezze… rispondeva il capitano, una donna ignorante è una vera disgrazia!.. il maestro ha ragione.

– Il maestro ha torto. Se l'uomo è un asino, come egli asserisce, non è necessario che la donna sia sapiente…

– Tanto gli uomini che le donne devono distinguersi dai bruti colla istruzione. Gli asini tirano il carretto carico, e i padroni li fanno camminare a legnate; se gli asini fossero istrutti caccierebbero a calci il padrone.

E così dicendo se ne andava maneggiando il bastone come fosse una sciabola, usciva nel parco borbottando fra i denti le più tremende minaccie contro il governo, abbatteva furiosamente le capsule dei papaveri per dare uno sfogo a quella collera impotente, che avrebbe voluto tagliare in quel modo le teste dei nemici.

La bambina gettava i libri, e correva in fondo al parco per sfuggire alla seccatura dello studio, ed alle prediche del nonno.

Così passarono alcuni anni fino che un carbonaro di Bologna, entrato nell'Assemblea nazionale francese, e poi salito sul trono imperiale dello zio, alzava lo stendardo delle nazionalità, promettendo l'emancipazione d'Italia, alla quale aveva giurato di contribuire, facendo parte della setta italiana nella vendita bolognese nel 1831.

È facile immaginare l'entusiasmo del capitano Bonifazio quando lesse il Proclama di Napoleone III che voleva l'Italia «libera dalle Alpi all'Adriatico.» Il carbonaro trivigiano andava ripetendo ad alta voce, e in uno stato di esaltazione, alcune frasi che lo avevano colpito: «Andiamo su questa terra classica, illustrata da tante vittorie, a ritrovare le traccie dei nostri padri.» Tutta la sua gioventù ritornava a rifiorire, tutte le aspirazioni della sua vita di cospiratore si avvicinavano al trionfo, tutto l'odio accumulato nel suo petto andava a sfogarsi colla vendetta del figlio e della nuora uccisi collo stesso colpo dall'aborrito governo austriaco.

Il vecchio soldato di Napoleone I si sentiva ringagliardire alle parole di Napoleone III, e la spina dorsale curvata sotto il peso degli anni dolorosi, si rialzava rigogliosa alla scossa elettrica scoppiettante nelle solenni promesse. Egli era vicino ai settantatrè anni ma gli pareva di essere ancora abbastanza robusto da poter portare un fucile, e intanto nell'impazienza d'un primo assalto, egli percorreva le camere a passo di marcia, armato del suo bastone, la sola arma che gli era stata lasciata dall'Austria, e si arrestava davanti i ritratti di Napoleone I, facendogli il saluto militare. All'arrivo del maestro si gettò nelle sue braccia; questi fu sorpreso e beato di tanta intimità, che non aveva mai ottenuta nei lunghi anni della loro relazione, passati brontolando sopra ogni argomento.

La vecchia Maddalena temeva che suo marito diventasse matto in quello stato d'orgasmo e di esaltazione irrefrenabile.

Il vecchio Pigna, tenendo per mano il figlio di suo figlio, un bambino di otto anni, lo condusse per la prima volta in casa Bonifazio a vedere i quadri delle battaglie di Napoleone, per fargli capire che cosa fosse la guerra.

Il capitano gli dava le spiegazioni necessarie. Il piccolo Andrea col naso in aria, gli occhi sbalorditi, la bocca aperta, guardava ora le battaglie ed ora il capitano, ed aveva più paura di costui, gesticolante con furore, che degli eserciti combattenti nei quadri fra i morti e i feriti.

La Maria venne a prendere per mano il piccolo Andrea, che era circa della sua età, e lo condusse in giardino per liberarlo dagli assalti del nonno.

Il vecchio Pigna si fregava le mani in segno di giubilo, pensando che il nuovo governo avrebbe diminuite le imposte e il prezzo del sale, sperando che la guerra avrebbe fatto aumentare il valore del frumento, dell'avena, del vino, del fieno, come al tempo della guerra in Crimea.

Ogni momento entrava qualche nuovo curioso per aver notizie della Lombardia. Il capitano non salutava nessuno, ma gettava in aria il berretto, e lo metteva in cima al bastone, alzandolo in segno di tripudio, e diceva a Zecchini:

– È venuto il tempo del salasso!

Assicurava tutti dell'imminente liberazione; ed esclamava:

– L'Austria è finita!.. fra poco saremo a Vienna!.. Evviva i Napoleonidi!

Al primo indizio di guerra Gervasio aveva fatto i bauli, e rinunziato alla cattedra, per ritornare in patria. Ma prima di lasciare la Bretagna, il padre ed il figlio erano andati a fare l'ultima visita al cimitero, e genuflessi sulla tomba della moglie e della madre, l'esule sentiva che l'affetto e il dolore ci fanno mettere le radici anche nella terra straniera, e non poteva staccarsi da quel mesto soggiorno senza lasciarvi un lembo del cuore. La povera defunta restava sola e non avrebbe più l'omaggio delle lagrime e dei fiori dei suoi superstiti. Pei morti sulla terra straniera, il giorno della liberazione della patria, l'esilio diventa isolamento. I parenti, gli amici, i compagni ritornano al loro paese, ed essi rimangono affatto soli.

 

Gervasio e Silvio partirono piangendo, e deplorando di non poter portare con loro le ceneri sacre della loro povera morta.

Erano anche dolenti di non poter rientrare in patria colle armi alla mano, ma il padre era rimasto storpio per la ferita del 48, e il figlio aveva appena otto anni.

Il reduce difensore di Venezia anelava ardentemente di riabbracciare i vecchi genitori, di consolarli colla presentazione di suo figlio, che avrebbe occupato il posto del povero Stefano, e anelava ansiosamente di rimettere il piede nell'eroica città, alla quale aveva consacrata la vita, e della quale dipingeva gl'incanti e il prestigio al figliuolo che stava estatico ad ascoltarlo.

Attraversando la Savoja gli pareva che le Alpi si fossero moltiplicate per ritardare il suo ritorno. Finalmente giunsero a Torino e lo trovarono in festa per la battaglia di Magenta che aveva aperta la porta della Lombardia. Visitarono la capitale del Piemonte con rispettosa riconoscenza, come il tempio santo della rigenerazione nazionale.

Il 9 giugno, Gervasio scriveva a suo padre: «Jeri siamo entrati a Milano, dopo gli eserciti alleati che accompagnarono il re e l'imperatore, i quali furono accolti con indescrivibile entusiasmo dalla popolazione esultante. Silvio è felice di trovarsi in Italia, e desidera vivamente di abbracciare i suoi nonni; domani visiteremo quelli di Brianza, e in breve tempo saremo in seno della famiglia, per non dividerci mai più. E questo pensiero mi consola in modo tale da farmi dimenticare molti dolori sofferti nella troppo lunga lontananza.»

Poi furono interrotte le comunicazioni, e non corsero più nè le lettere nè le notizie stampate.

Il 24 giugno nella villa Bonifazio si udiva il rombo lontano del cannone. Tutti ascoltavano in silenzio, il capitano era in uno stato di esaltazione eccessiva, fremeva d'essere lontano dal combattimento, si agitava convulso all'idea della vicina liberazione, che gli rappresentava il trionfo delle sue idee di patriotta, il meritato compenso dei pericoli di cospiratore, la vendetta dei figli perduti, la gioia di rivedere il suo primogenito, lontano da tanti anni, e di conoscere alfine il nipote, che continuava la discendenza mascolina della famiglia. Maddalena sospirava fra le speranze consolanti e le apprensioni dolorose, pensando alla gioia di abbracciare il figlio e il nipote, e palpitando per le nuove vittime della guerra.

Maria girava pel parco col suo amico Andrea Pigna, e i due ragazzi inconsci del solenne momento si trastullavano coi giuochi infantili.

Il giorno seguente giunse la notizia della battaglia di Solferino. Il maestro Zecchini ritornò da Treviso con relazioni confuse, che lasciavano incerti i risultati. Il capitano montò sulle furie e lo coperse d'improperi, ma il povero diavolo aveva fatto la pelle dura, dopo la lunga abitudine col vicino. Maddalena, come al solito, cercava di metter pace, ma questa volta i suoi tentativi riuscivano vani, suo marito si esaltava sempre più e non voleva ammettere altro che vittorie e trionfi d'Italia e Francesi, e sole disfatte d'Austriaci.

Più tardi giunsero alcuni particolari precisi. La battaglia era stata micidiale da ogni parte, il furore del cielo s'era aggiunto al valore degli alleati, e dopo la strage guerresca l'uragano aveva costretto gli Austriaci alla ritirata.

– Dunque fu una vittoria decisiva, esclamava il capitano, adesso i nostri devono girare le fortezze, ed entrare francamente nel Veneto; fra due o tre giorni saranno a Treviso!..

E il maestro si arrischiava di rispondere:

– Taluno, che si pretende bene informato, asserisce che i nostri non si muovono, e che l'Austria riceve rinforzi.

– Baie! baie! urlava il capitano, baie fatte spargere apposta dal governo per persuadere i credenzoni e gli sciocchi…

– Ma a Treviso il governo non si muove, e a Venezia si aspettò invano l'arrivo delle flotte riunite…

– Mi pare che siate troppo soddisfatto!..

– Anzi al contrario sono dispiacentissimo, ma…

– Non ci devono essere dei ma!.. nè ci possono essere altri dubbi, altre reticenze e incertezze che quelle dei nemici della patria… e delle spie!..

Maddalena volgeva gli occhi supplichevoli verso il maestro per farlo tacere, ed egli che era sempre innamorato di quella santa donna, sopportava in pace le ingiurie, abbassava la testa, e si rassegnava al silenzio.

Il capitano dava un gran pugno sul tavolo e usciva inviperito, per correre in traccia di più consolanti notizie. Ma camminava barcollando sorpreso dalle solite vertigini.

Frattanto la buona Maddalena metteva in assetto le camere destinate al suo Gervasio, e a Silvio, che amava tanto senza averlo veduto mai altro che in fotografia, e raccoglieva con materna sollecitudine tutte quelle cose che potevano tornare gradite ad entrambi, per la memoria del passato e le tradizioni di famiglia.

Il vecchio Mosè la secondava del suo meglio, e contemplando i ritratti di Gervasio e di Silvio si commoveva al pensiero di vederli giungere al cancello, incontrati dai genitori e dai parenti, fra il giubilo degli amici, dei concittadini, di tutti coloro che amavano e stimavano Gervasio, del quale gli chiedevano sempre le nuove.

Passarono alcuni giorni nell'incertezza, fino che giunse la notizia dell'armistizio. La Maddalena pregò il maestro e tutti di casa di nascondere la brutta novità per non esacerbare i nervi di suo marito, ed anche colla speranza che fosse una delle tante menzogne che circolavano in quei giorni, e non avevano alcun fondamento.

Il capitano inquieto di quel silenzio uscì per cercare delle notizie, ma appena giunto al cancello vide un ragazzetto che gli veniva incontro con un viglietto. Lo aperse rapidamente. Lo scritto gli veniva da un amico fidato, e conteneva queste poche parole: «Hanno firmata la pace. Il Veneto resta all'Austria.»

– Tradimento!.. – urlò il capitano. Fece due passi, si fermò, voleva gridare ancora tradimento ma non riuscì che a balbettare poche sillabe interrotte. Alzò le braccia, e parve che cercasse d'intorno un sostegno che gli mancò, era barcollante, stramazzò a terra come se fosse colpito da un fulmine, battendo la testa sul pavimento. Il ragazzetto spaventato corse in tutta fretta a chiamar gente.

Mosè si precipitò sul padrone, e mentre cercava di fargli riprendere i sensi, bagnandogli la fronte e ripetendo delle frizioni coll'aceto, gli altri domestici accorsero in cerca del medico, il quale non tardò a comparire. Il polso non batteva più, gli mise una mano sul cuore… il capitano era morto.

La violenta commozione gli aveva fatto salire il sangue al cervello; l'apoplessia, e il colpo ricevuto alla testa lo avevano ucciso.

Gervasio aspettava il momento di passare il Mincio, quando ricevette la triste notizia. La pace di Villafranca che lo privava della patria, gli aveva rapito il padre.

Maddalena che attendeva da un giorno all'altro il figlio e il nipote, perdette anche il marito; e si trovò isolata nel dolore, con una bambina, che le ricordava le passate sventure.

Sono disinganni che vanno fino allo spasimo e al delirio. E non era la sola famiglia Bonifazio la vittima del prolungato dominio straniero, ma centinaia di famiglie venete restavano separate dai figli; e molte rimasero senza patria e senza figli, i quali erano morti sul campo di battaglia, difendendo l'indipendenza del loro paese.

Furono giorni di lutto universale, da far disperare della libertà e della vita, se l'incrollabile fermezza degli Italiani non li avesse sostenuti in mezzo a tante minaccie, davanti a tanti pericoli, col voto costante di lottare sempre, senza contarsi, contro tutti, fino che fosse raggiunto lo scopo.

Il maestro Zecchini tentò di consolare il profondo cordoglio della vedova, divenne la provvidenza della famiglia, e il tutore della bambina. Si occupò dei funerali del capitano, che riuscirono decorosi, dimenticò tutti i rabbuffi di lui, per non ricordarsi che delle buone qualità del vicino, faceva l'elogio del morto, con tutti gli amici e conoscenti, come si fa sempre in tutte le iscrizioni e in tutti i discorsi funebri.

La nonna Maddalena e Maria rimasero sole in quella casa, che aveva tutto sacrificato pel paese, e il cómpito della povera vedova le era chiaramente definito: allevare Maria, conservare la modesta sostanza al figlio e ai due nipoti; e dato sfogo al dolore colle lagrime, dovette alfine rassegnarsi al destino, e si accinse con coraggio a fare il suo dovere.

Il maestro Zecchini la consigliava di collocare la fanciulla in un buon collegio per educarla secondo la sua condizione, o almeno di mandarla in una buona scuola in città, ma la Maddalena vi si rifiutò recisamente.

– Le donne, essa diceva, basta che sieno buone padrone di casa.

Il maestro tentennava la testa, e le rispondeva:

– No, cara signora, questo non basta; adesso si esige di più anche dalle donne, destinate alla vita sociale. Maria avrà una buona dote, può fare un buon matrimonio, e non deve restare ignorante.

– Io non soffrirò mai che Maria si allontani da casa, voglio averla sempre sotto gli occhi, non devo abbandonarla, nè essere abbandonata dalla sola creatura che mi resta…

– Ma qui in campagna, senza istruzione, non potrà sposare che un uomo al di sotto della sua condizione…

– Purchè sia felice che importa?.. credete che in città sarebbe più felice?.. Io ho vissuto sempre in campagna, e non avrebbe mancato nulla alla mia felicità senza le disgrazie della politica…

– Ma se un giorno la stessa Maria vi facesse il rimprovero di averla privata d'educazione, come potreste consolarvi di questa accusa?..

– Non lo farà mai! Caro maestro, non si rimpiange quello che non si conosce…

– Domando scusa. Io non conosco i milioni, eppure deploro continuamente d'esserne privo. Quante belle cose avrei fatto, se fossi stato milionario…

– Credete che i milioni vi avrebbero reso felice? v'ingannate. Maria sarà felice, senza essere tanto ricca. Ci penso io, ve lo prometto, io saprò farne un'eccellente massaia; e suo marito, e i suoi figli saranno bene contenti d'averla per moglie e per madre.

– Lo voglia il cielo, ma non sono di questa opinione. Farete di Maria una brava massaia, ma sarà una donna incompleta…

– Nulla è perfetto sulla terra! concludeva la Maddalena.

E così andavano discutendo sovente fra loro, e pareva destino che il migliore amico di casa Bonifazio fosse sempre in contradizione prima col marito e poi colla moglie, che non potevano star senza di lui, trovandosi continuamente discordi.

Ma se le cure per la bambina erano incessanti ed affettuose, le cure del giardino e del parco erano totalmente abbandonate.

Maddalena da brava padrona di casa amava il risparmio, e giudicava il lusso contrario all'economia, non rifiutava mai di fare le spese pei campi che aumentano la rendita, ma le ripugnava di spendere pel giardino e pel parco. Preferiva occuparsi dell'orto che forniva la cucina e la mensa di eccellenti prodotti, trascurava la coltura delle serre e dei fiori che le sembravano superflui. E al posto delle piante rare dietro le invetriate faceva distendere al sole le reste delle cipolle e dell'aglio; in luogo dei vasi di gerani, e di viole a ciocche che il capitano esponeva alle finestre, essa vi metteva le zucche. Si compiaceva di avere dei bei sedani bianchi, delle rape dolci, dei cavoli giganti, dei poponi profumati e saporiti.

Il resto lo confidava alla natura, e lasciava tutte le piante ornamentali in piena libertà.

Ma chi credesse rovinato il parco sarebbe in errore, esso non aveva fatto che cambiare di aspetto, acquistando, dall'assoluto abbandono, una bellezza artistica senza pari. Gli alberi che non furono più tormentati dal coltello e dalla forbice che limitavano la loro espansione, si erano vendicati della passata disciplina gettandosi con pieno vigore ad ogni eccesso di sfrenata vegetazione, gli arbusti avevano invase le strade, le sementi cadute da tutte le piante avevano germogliato in un caos indescrivibile che presentava l'aspetto d'una foresta vergine dove le bignonie, le edere, le clematidi, e tutte le ampelidee si arrampicavano sugli alberi e ricadevano in festoni.

I fiori moltiplicandosi senza freno erano usciti dalle aiuole, avevano invaso il prato e i viali, crescevano confusamente, e fiorivano in abbondanza nell'anarchia. I rosai che non furono mai regolati da nessun freno, erano saliti sulle piante più robuste, andavano a cercare il sole fuori dei rami del loro tutore, e fiorivano in alto ricadendo pel loro peso naturale in nappe e frangie fiorite come se ne vedono sulle scene del teatro in qualche ballo fantastico. I venti e gli uragani scuotendo violentemente tutte le fronde avevano compiuta l'opera della natura, infrante le cime di qualche abete, lacerate alcune piante antiche, e data l'ultima pennellata al quadro stupendo.

 

Per certi viali non si passava più, ma in compenso erano sorti dei boschetti rigogliosi, con tutto il vigore della natura indipendente, in un terreno divenuto fertilissimo dal terriccio prodotto da vari strati di foglie cadute e marcite al posto, e si formarono delle macchie con viluppi inestricabili di rami di varie piante, con foglie, fiori e sementi della più bizzarra e capricciosa complicazione, che formavano cupole e pergolati che la più strana fantasia architettonica non avrebbe saputo immaginare.

In cambio delle strade a curve studiate c'erano dei sentieri formati naturalmente dal passaggio dei contadini che andavano a falciare il fieno, o attraversavano il parco per altri motivi; i padroni, gli amici, i domestici passando sempre sulle stesse traccie si formava la nuova strada.

Maria andava ad appiattarsi sotto quelle ombre, e vi si faceva dei nidi fra i rami, per riposarsi in compagnia d'Argo, un enorme cane di Terranuova, più grande di lei, dal quale era amata colla tenera affezione d'un protettore formidabile, che secondava tutti i suoi capricci, intendeva le sue parole, le serviva di morbido origliere, le lavava il viso colla lingua, e la avrebbe difesa validamente da chiunque le si fosse avvicinato senza il suo permesso.

Maria e il suo cane passavano delle ore deliziose in quei nascondigli, dormivano, rosicchiavano biscotti, giuocavano insieme, e talvolta si udiva lo scroscio cristallino di risa della fanciulla, eccitato da qualche ghiribizzo del suo fedele compagno.

La nonna li lasciava in pace malgrado le censure del maestro Zecchini, il quale odiava quel cane, chè ora gli rubava il berretto per portarlo in giardino, ora gli posava le zampe sporche da fango sui calzoni nuovi, ora tornando dal bagno che aveva fatto nel laghetto andava ad asciugarsi il pelo al suo vestito. Ma la ricreazione della fanciulla non durava tutto il giorno, ed era sovente un meritato compenso alle ore impiegate nel disimpegno delle cure domestiche, delle quali diventava sempre più esperta. Dopo ammannita una vivanda, apparecchiato il pranzo, e messa in ordine la biancheria, fatte le mende, stirato il bucato, la nonna lasciava Maria in libertà, Argo saltava su dal suo giaciglio, abbaiando in segno di contentezza, e i due amici si mettevano a correre per il parco, entravano nel bosco, e sparivano.