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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Così Pio venuto in forza altrui parlava a Napoleone, e contro di lui protestava. Così ancora Napoleone, dopo di avere carcerato i reali di Spagna, carcerava anche il papa, e dopo di aver usurpato la Spagna, usurpava anche Roma. Alessandro di Russia in questo mentre appunto lasciava a posta la sua imperial sede di Pietroburgo per girsene a visitarlo in Erfurt, Francesco d'Austria vi mandava il general San Vincenzo per accarezzarlo.

LIBRO VIGESIMOQUARTO

SOMMARIO

Nuova guerra coll'Austria. L'arciduca Giovanni generalissimo degli Austriaci, il principe Eugenio, vicerè, generalissimo dei Francesi in Italia. Loro manifesti agl'Italiani. L'arciduca vince a Sacile, e s'avanza verso Verona. Mossa generale dei Tirolesi contro i Francesi e i Bavari; qualità di Andrea Hofer. Natura singolare della Tirolese guerra. L'Austria perisce, prima nei campi tra Ratisbona e Augusta, poi in quei di Vagria. L'arciduca si ritira dall'Italia. Pace tra la Francia e l'Austria. Matrimonio dell'arciduchessa Maria Luisa con Napoleone. Fine della guerra del Tirolo; morte di Hofer. Napoleone unisce Roma alla Francia e manda il papa carcerato a Savona. Il papa lo scomunica. Descrizione di Roma Francese, e quello che vi si fa. Che cosa fosse la propaganda. Pratiche di Carolina di Sicilia con Napoleone. Infelice spedizione di Giovacchino in Sicilia. Manhes generale mandato a pacificar le Calabrie, le pacifica, e con quali mezzi.

Era in Europa rimasta accesa la materia di nuove calamità. L'Austria depressa dal vincitore aspettava occasione di risorgere, alleggerendo le disgrazie presenti per la speranza del futuro. Nè solo la spaventavano i patti di Presburgo, pei quali tanta potenza le era stata scemata, ma ancora i cambiamenti introdotti da Napoleone, non che in altre parti d'Europa, nel cuore della Germania, e sulle frontiere stesse dell'Austria. La spaventavano gli attentati palesi, la spaventavano le profferte segrete, poichè Napoleone le esibiva ingrandimento nella distruzione di uno stato vicino ed amico, il che le dava cagione di temere, che se i tempi od i capricci cambiassero, avrebbe esibito ingrandimento ad altri nella distruzione dell'Austria. Ma la potenza tanto preponderante di Napoleone per la soggiogazione della Prussia e per l'amicizia della Russia, non lasciava speranza all'Austria di riscuotersi; però risolutasi al tirarsi avanti col tempo, ed all'anteporre il silenzio alla distruzione, aspettava, che il rotto procedere di Napoleone fosse per aprirle qualche via di raffrenare la sua cupidità, e di procurare a se medesima salvamento. Le iniquità commesse contro i reali di Spagna, che a tanto sdegno avevano commosso gli Spagnuoli, e che obbligavano il padrone della Francia a mandar forti eserciti per domargli, le parvero occasione da non doversi pretermettere. Per la qual cosa, non abborrendo dall'entrare in nuovi travagli, e dall'abbracciar sola questa guerra, si mise in sull'armare, con fare che le compagnìe d'ordinanza non solo avessero i numeri interi, ma la gente fiorita e bene in ordine; inoltre ordinava, e squadronava tutta quella parte delle popolazioni, che era atta a portar le armi. Si doleva Napoleone di sì romorosi apparecchj, affermando, non pretendere coll'imperator d'Austria alcuna differenza: rispondeva Francesco essere a difesa, non ad offesa. Accusava il primo gli Austriaci ministri, e non so quale Viennese setta, bramosa di guerra, come la chiamava, e prezzolata dall'Inghilterra. Rinfacciava superbamente a Francesco, l'avere conservato la monarchìa Austriaca, quando la poteva distruggere; gli protestava amicizia; lo esortava a desistere dall'armi. Ma l'Austria non voleva riposarsi inerme sulla fede di colui, che aveva incarcerato per fraude i reali di Spagna. La confederazione Renana, la distruzione dell'impero Germanico, Vienna senza propugnacolo per la servitù della Baviera, Ferdinando cacciato da Napoli, il suo trono dato ad un Napoleonide, l'Olanda data ad un Napoleonide, Parma aggiunta, la Toscana congiunta, la pontificia Roma occupata, davano giustificata cagione all'Austria di correre all'armi, non potendole in modo alcuno esser capace, che a lei altro partito restasse che armi, o servitù. Solo le mancava l'occasione; la offerse la guerra di Spagna, all'impresa della quale era allora Napoleone occupato, e la usò. Ma prevedendo che quello era l'ultimo cimento per lei faceva apparati potentissimi. Un esercito grossissimo militava sotto la condotta dell'arciduca Carlo in Germania. Destinavasi all'invasione della Baviera, la quale perseverava nell'amicizia di Napoleone. Se poi la fortuna si mostrasse favorevole a questo primo conato, si aveva in animo di attraversare la Selva Nera, e di andare a tentare le Renane cose. Per ajutare questo sforzo, ch'era il principale, Bellegarde, capitano sperimentatissimo, stanziava con un corpo assai grosso in Boemia, pronto a sboccare nella Franconia, tostochè i casi di guerra il richiedessero. Grandissima speranza poi aveva collocato l'imperatore Francesco nel moto dei Tirolesi, sempre affezionati al suo nome, e desiderosi di riscuotersi dalla signoria dei Bavari. Era questo moto di grave momento sì per la natura bellicosa della nazione, e sì per tener aperte le strade tra i due eserciti di Germania e d'Italia. Sollecita cura ebbero gli ordinatori di questo vasto disegno delle cose d'Italia; perciocchè vi mandarono con un'oste assai numerosa, massimamente di cavalli, l'arciduca Giovanni, giovane di natura temperata, e di buon nome presso agl'Italiani. Stava Giovanni accampato ai passi della Carniola e della Carintia, in atto di sboccare per quei di Tarvisio e della Ponteba sulle terre Veneziane. Concorreva sull'estrema fronte a tanto moto con soldati ordinati, o con cerne del paese Giulay dalla Croazia e dalla Carniola, province, in cui egli aveva molta dipendenza. Questo nervo di guerra parve anche necessario per frenare Marmont, che con qualche forza di Napoleoniani governava la Dalmazia. Stante poi che nelle guerre principale fondamento è sempre l'opinione dei popoli, aveva Francesco con ogni sorta di esortazioni confortato i suoi, della patria, dell'independenza, dell'antica gloria, delle dure condizioni presenti, del futuro giogo più duro ancora ammonendogli: il nome Austriaco risorgeva; concorrevano volentieri i popoli alla difesa comune. Bande paesane armate stavano preste in ogni luogo ai bisogni dello stato; maravigliosa fu la concitazione, nè mai più promettenti sorti per l'Austria aveva veduto il mondo, come non mai ella aveva fatto sì formidabile preparazione.

A questi sforzi, se Napoleone era pari, non era certamente superiore. Fece opera di temporeggiarsi, offerendo la Russia per sicurtà della quiete. Ma da quell'uomo astuto e pratico ch'egli era, non ingannandosi punto sulle intenzioni della potenza emola, e certificato della mala disposizione di lei, che gli parve irrevocabile, si preparava alla guerra con mandar in Germania ed in Italia quanti soldati poteva risparmiare per la necessità d'oltre i Pirenei. Ciò non di meno Francesco, che con disegno da lungo tempo ordito si muoveva, stava meglio armato, e più pronto a cimentarsi. Pensò Napoleone ad andar egli medesimo alla guerra Germanica, perchè vedeva che sulle sponde del Danubio erano per volgersi le definitive sorti e che nissun altro nome, fuorchè il suo, poteva pareggiare quello del principe Carlo. Quanto all'Italia, diede il governo della guerra, in questa parte importante, al principe Eugenio, mandandogli per moderatore Macdonald. Si riposava l'esercito Italico di Napoleone nelle stanze del Friuli, occupando la fronte a destra verso la spiaggia marittima Palmanova, Cividale ed Udine, a sinistra verso i monti San Daniele, Osopo, Gemona, Ospedaletto e la Ponteba Veneta sin oltre alla strada per Tarvisio. Le altre schiere alloggiavano a foggia di retroguardo a Pordenone, Sacile, Conegliano sulle sponde della Livenza. Un altro corpo, che in due alloggiamenti si poteva congiungere col primo, ed era in gran parte composto di soldati Italiani agli stipendi del regno Italico, stanziava nel Padovano, nel Trevisano, nel Bassanese e nel Feltrino. Accorrevano a presti passi dal Bresciano e dalla Toscana nuove squadre ad ingrossare l'esercito principale: l'Italia e la Germania commosse aspettavano nuovo destino.

L'arciduca Carlo mandò dicendo al generalissimo di Francia, andrebbe avanti, e chi resistesse, combatterebbe. L'arciduca Giovanni, correndo il dì nove aprile, al medesimo modo intimò la guerra a Broussier, che colle prime guardie custodiva i passi della valle di Fella, per cui superate le fauci di Tarvisio, si acquista l'adito a Villaco di Carintia. Preparate le armi, pubblicavansi i discorsi. Sclamava Eugenio vicerè, parlando ai popoli del regno, avere l'Austria voluto la guerra: poco d'ora doversene star lontano da loro: girsene a combattere i nemici del suo padre augusto, i nemici della Francia e dell'Italia: confidare che sarebbero per conservare, lui lontano, quello spirito eccellente, del quale avevano già dato con le opere sì vere testimonianze: confidare che i magistrati bene e candidamente farebbero il debito loro, degni del sovrano, degni degl'Italiani popoli mostrandosi: dovunque e quandunque ei fosse, essere per conservar di loro e stabile ricordanza ed indulgente affetto.

Dal canto suo l'arciduca Giovanni, prima di venire al ferro, non se ne stava oziando con le parole, giudicando che potessero sorgere per tutta Italia per le varie inclinazioni dei popoli, gravi e favorevoli movimenti:

«Udite, diceva, Italiani, udite, e nei cuor vostri riponete, quanto la verità, quanto la ragione da voi richieggono. Voi siete schiavi di Francia, voi per lei le sostanze, voi la vita profondete. È l'Italico regno un sogno senza realtà, un nome senza effetto. Gli scritti soldati, le imposte gravezze, le usate oppressioni a voi bastantemente fan segno, che niuna condizione di stato politico, che niun vestigio d'independenza vi è rimasto. In tanta depressione voi non potete nè rispettati essere, nè tranquilli, nè Italiani. Volete voi di nuovo Italiani essere? Accorrete colle mani, accorrete coi cuori, ai generosi soldati di Francesco imperatore congiungetevi. Manda egli un poderoso esercito in Italia: non per sete di conquista il manda, ma per difendere se stesso, ma per restituire l'independenza a tante europee nazioni, di cui la servitù tanto è per tanti segni certa, quanto per tanti dolori dura. Solo che Iddio secondi le virtuose opere di Francesco imperatore, e de' suoi potenti alleati, fia novellamente Italia in se stessa felice, fia da altri rispettata: avrà novellamente il capo della religione i suoi stati, avrà la sua libertà. Una constituzione alla natura stessa, al vero stato politico vostro consentanea, sarà per prosperare le italiche contrade, e per allontanar da loro ogn'insulto di forza forestiera. Promettevi Francesco sì fortunate sorti: sa l'Europa, essere la sua fede tanto immutabile, quanto pura; il cielo, il cielo vi parla per bocca di lui. Accorrete, Italiani, accorrete: chiunque voi siate, o qual nome v'aggiate, o qual setta amiate, purchè Italiani siate, senza temenza alcuna a noi venite. Non per ricercarvi di quanto avete fatto, ma per soccorrervi e per liberarvi siamo in cospetto dell'Italiane terre comparsi. Consentirete voi a restarvi, come ora siete, disonorati e vili? Sarete voi da meno che gli Spagnuoli, eroica gente, che altamente dissero, e che più altamente fecero che non dissero? Meno che gli Spagnuoli amino, amate voi forse i vostri figliuoli, la vostra religione, l'onore e il nome della vostra nazione? Abborrite voi forse meno ch'essi, il vergognoso giogo a cui v'han posti coloro, che con belle parole v'ingannarono, che con tristi fatti vi lacerarono? Avvertite, Italiani, e negli animi vostri riponete ciò, che ora con ragione e con verità vi diciam noi, che questa è la sola, questa l'ultima occasione che a voi si scopre di vendicarvi in libertà, di gettar via dai vostri colli il duro giogo che su tutta Italia s'aggrava: avvertite, e negli animi vostri riponete, che se voi ora non vi risentite, e se neghittosi ancora vi state ad osservare, voi vi mettete a pericolo, quali dei due eserciti abbia ad aver vittoria, di non essere altro più che un popolo conquistato, che un popolo così senza nome, come senza diritti. Che se pel contrario con animi forti vi risolvete a congiungere con gli sforzi dei vostri liberatori anco i vostri, e se con loro andate a vittoria, avrà l'Italia novella vita, avrà suo grado fra le grandi nazioni del mondo, e risalirà fors'anche al primo, come già il primo si ebbe. Italiani, più avventurose sorti or sono nelle mani vostre poste, in quelle mani che in alto alzando le faci indicatrici di dottrina, di civiltà, di arti tolsero il mondo alla barbarie, e dolce, e mansueto, e costumato il renderono. Milanesi, Toscani, Veneziani, Piemontesi, e voi tutti popoli d'Italia, sovvengavi dei tempi andati, sovvengavi dell'antica gloria: e tempi e gloria potranno rinstaurarsi, e rinverdirsi più prosperi e più splendidi che mai, se fia che voi un generoso cooperare ad un pigro aspettare anteponiate. Volere, fia vittoria; volere, fia tornarvi più lieti e più gloriosi, che gli antenati vostri ai tempi del maggiore splendor loro non furono».

 

A questo modo l'arciduca spronava gl'Italiani, acciò non avessero a disperarsi di vedere la patria loro rimanere in altro grado che d'ignominiosa e perpetua servitù. Ma le sue esortazioni non partorirono effetti d'importanza, perchè coloro che avevano le armi in mano, parteggiavano, come soldati, per Napoleone: gl'inermi odiavano bensì la signoria Francese, ma non si fidavano di quella dell'Austria, nè che la vittoria di lei fosse per essere la libertà d'Italia pareva lor chiaro: tutti poi spaventava la ricordanza ancor fresca del caso di Ulma. Nè appariva che fosse per nascere alterazione tra Napoleone ed Alessandro, la quale sola avrebbe potuto dare speranza probabile di buon successo.

Addì dieci d'aprile la tedesca mole piombava sull'Italia. L'arciduca, varcata la sommità dei monti al passo di Tarvisio, e superato, non però senza qualche difficoltà per la resistenza dei Francesi, quello della Chiusa s'avvicinava al Tagliamento. Al tempo stesso, con abbondante corredo di artiglierìe e di cavallerìa passava l'Isonzo, e minacciava con tutto lo sforzo de' suoi la fronte dei Napoleoniani. Fuvvi un feroce incontro al ponte di Dignano, perchè quivi Broussier combattè molto valorosamente. Ma ingrossando vieppiù nelle parti più basse gli Austriaci, che avevano passato l'Isonzo, Broussier si riparò per ordine del vicerè sulla destra; che anzi, crescendo il pericolo, andò il principe a piantare il suo alloggiamento in Sacile sulla Livenza, attendendo continuamente a raccorre in questo luogo tutte le schiere, sì quelle che avevano indietreggiato, come quelle che gli pervenivano dal Trevisano e dal Padovano. Stringevano i Tedeschi d'assedio le fortezze di Osopo e di Palmanova. Eugenio, rannodati tutti i suoi, eccetto quelli che venivano dalle parti superiori del regno Italico e dalla Toscana, si deliberava ad assaltar l'inimico, innanzi che egli avesse col grosso della sua mole congiunto le altre parti che a lui si avvicinavano. Del quale consiglio, non che lodare, biasimare piuttosto si dovrebbe il principe; poichè sebbene l'arciduca non avesse ancora tutte le sue genti adunate in un sol corpo, tuttavia sopravvanzava non poco di forze, e non che fosse dubbio il cimento, era da temersi che gli Austriaci sarebbero rimasti superiori; che se conveniva all'arciduca, siccome fornito di maggior forza, il dar dentro, non conveniva al principe, che l'aveva minore: doveva Eugenio in questo caso anteporre la prudenza all'ardire.

Erano i Francesi ordinati per modo nei contorni di Sacile, che Seras e Severoli occupavano il campo a destra, Grenier e Barbou nel mezzo, Broussier a sinistra: le fanterìe e le cavallerìe del regno Italico formavano gran parte della destra. Fu quest'ala la prima ad assaltar i Tedeschi, correva il dì sedici aprile: destossi una gravissima contesa nel villaggio di Palsi, da cui e questi e quelli restarono parecchie volte cacciati e rincacciati: i soldati Italiani combatterono egregiamente. Pure restò Palsi in potestà dell'arciduca: e già i Tedeschi minacciosi colla loro sinistra fornitissima di cavallerìe, insistevano; la destra dei Francesi molto pativa; Seras e Severoli si trovavano pressati con urto grandissimo, ed in grave pericolo. Sarebbero anche stati condotti a mal partito, se Barbou dal mezzo non avesse mandato gente fresca in loro ajuto. Avuti Seras questi soldati di soccorso, preso nuovo animo, pinse avanti con tanta gagliardìa, che pigliando del campo scacciò il nemico, non solamente da Palsi, ma ancora da Porcia, dove aveva il suo principale alloggiamento. L'arciduca, veduto che il mezzo della fronte Francese era stato debilitato pel soccorso mandato a Seras, vi dava dentro per guisa che per poco stette, che non lo rompesse intieramente. Ma entrava in questo punto opportunamente nella battaglia Broussier, e riconfortava i suoi, che già manifestamente declinavano: Barbou eziandìo si difendeva con molto spirito. Spinse allora l'arciduca tutti i suoi battaglioni avanti: la battaglia divenne generale su tutta la fronte. Fu la zuffa lunga, grave e sanguinosa, superando i Tedeschi di numero e di costanza, i Francesi d'impeto e d'ardire. Intento sommo degli Austriaci era di ricuperar Porcia; ma contuttochè molto vi si sforzassero, non poterono mai venirne a capo. In quest'ostinato combattimento rifulse molto egregiamente la virtù del colonnello Giflenga, mentre guidava contro il nemico uno squadrone di cavalli Italiani. Fuvvi gravemente ferito il generale Teste, guerriero molto prode. Durava la battaglia già da più di sei ore, nè la fortuna inclinava. Pure finalmente rinfrescando sempre più l'arciduca con nuovi ajuti la fronte, costrinse i Napoleoniani a piegare, non senza aver disordinato in parte le loro schiere, e ucciso loro di molta gente. Patì molto la cavallerìa di Francia; fu anche danneggiata fortemente la schiera di Broussier, che servendo di retroguardo alle altre mezzo rotte e ritirantisi, ebbe a sostenere tutto l'impeto del nemico vincitore. Se la notte, che sopraggiunse, non avesse posto fine al perseguitare del nemico avrebbero i Francesi e gl'Italiani pruovato qualche pregiudizio molto notabile. Perdettero in questa battaglia di Sacile i Napoleoniani circa due mila cinquecento soldati tra morti, feriti e prigionieri: non mancarono dei Tedeschi più di cinquecento. Dopo l'infelice fatto non erano più le stanze di Sacile sicure al principe vicerè. Per la qual cosa si ritrasse, seguitato debolmente dai Tedeschi, sempre lenti perseguitatori dei nemici vinti, e perciò perdenti molte buone occasioni, sulle sponde dell'Adige. Quivi vennero a congiungersi con lui i soldati di Lamarque, che già stanziavano nelle terre Veronesi, e quelli che sotto Durutte dalla Toscana erano venuti. Nè piccola cagione di dare novelli spiriti ai Napoleoniani fu l'arrivo di Macdonald. Fu egli veduto con allegra fronte, ma con animo poco lieto da Eugenio, che stimava aver a passare in lui la riputazione di ogni impresa segnalata. Passò l'arciduca la Piave, passò la Brenta, tutto il Trivigiano, il Padovano e parte del Vicentino inondando. Assaltava in questo mentre Palmanova, ma con poco frutto: tentò con un grosso sforzo il sito fortificato di Malghera per aprirsi la strada alle lagune di Venezia; ma non sortì effetto. Si apprestava non ostante ad andar a trovar il nemico sulle rive dell'Adige, sperando di riuscire nella superiore Lombardìa, dominio antico dei suoi maggiori. Non trovò nelle regioni conquistate quel seguito che aspettava. Vi fu qualche moto in Padova, ma di poca importanza; si levarono anche in arme gli abitatori di Crespino, terra del Polesine; e fu per loro in mal punto; perchè Napoleone tornato superiore per le vittorie di Germania, fortemente sdegnatosi, gli soggettò all'imperio militare, ed alla pena del bastone per le trasgressioni. Supplicarono di perdono. Rispose, perdonare, ma a prezzo di sangue; gli dessero, per essere immolati, quattro di loro. Per intercessione del vicerè, che tentò di mollificare l'animo dell'imperatore, fu ridotto il numero a due; questi comperarono coll'ultimo supplizio l'indennità della patria.

Intanto l'arciduca Carlo, varcato l'Oeno, aveva occupato la Baviera; e col suo grosso esercito s'incamminava alla volta del Reno. Ogni cosa pareva su quei primi principj dar favore allo sforzo dell'imperatore Francesco. Ma parte molto principale era la sollevazione dei Tirolesi. Annidavansi negli animi di questo popolo armigero e virtuoso molte male soddisfazioni. Assuefatti da lungo tempo al mansueto dominio della casa d'Austria, molto mal volentieri sopportavano la signorìa dei Bavari, come non consueta, e come, se non per antico costume, almeno per gli esempj freschi, e fors'anche pei comandamenti Napoleonici, dura e soldatesca. S'aggiungeva, che il re di Baviera aveva abolito l'antica constituzione del Tirolo, riducendo la forma politica alla potestà assoluta, anche in materia di tasse. S'accordarono parte segretamente, parte palesemente per secondare con ogni nervo l'impresa dell'antico loro signore. L'Austria gli aveva fomentati, mandando per le montagne di Salisburgo nel Tirolo Jellacich con un corpo di regolari.

Il giorno stesso in cui l'arciduca Carlo aveva passato l'Oeno, e l'arciduca Giovanni le strette di Tarvisio, i Tirolesi mossi da una sola mente e da un solo ardore, si levarono tutti improvvisamente in armi, e diedero addosso alle truppe Bavare e Francesi, che nelle terre loro erano poste a presidio. Fecero capo al moto loro un Andrea Hofer, albergatore a Sand nella valle di Passeira. Non aveva Andrea alcuna qualità eminente, dico di quelle alle quali il secolo va preso: bensì era uomo di retta mente, e d'incorrotta virtù. Vissuto sempre nelle solitudini dei Tirolesi monti, ignorava il vizio e i suoi allettamenti. I Parigini ed i Milanesi spiriti, anche i più eminenti, correvano alle lusinghe Napoleoniche, povero albergator di montagna, perseverava Hofer nell'innocente vita. Allignano d'ordinario in questa sorte d'uomini due doti molto notabili, l'amore di Dio, e l'amore della patria: l'uno e l'altro risplendevano in Andrea. Per questo la Tirolese gente aveva in lui posto singolare benevolenza e venerazione. Non era in lui ambizione; comandò richiesto, non richiedente. Di natura temperatissima, non fu mai veduto nè nella guerra sdegnato, nè nella pace increscioso, contento al servire od al principe, od alla famiglia. Vide vincitori insolenti, vide incendj di pacifici tuguri, vide lo strazio e la strage dei suoi; nè per questo cessò dall'indole sua moderata ed uguale: terribile nelle battaglie, mite contro i vinti, non mai sofferse che chi le guerriere sorti avevano dato in sua potestà, fosse messo a morte: anzi i feriti dava in cura alle Tirolesi donne, che e per se, e per rispetto di Hofer gli accomodavano di ogni più ospitale servimento. Distruggeva Napoleone le patrie altrui, sdegnoso anche contro gli amici: difendeva Hofer la sua, dolce anche contro coloro, che la chiamavano a distruzione ed a morte. Lascio io volentieri le illustri penne della vile età nostra lodare i colpevoli fatti dei potenti; ma non mi sarà, credo, negato, ch'io col mio basso ed oscuro stile mi diletti spaziando nel raccontare le generose opere di coloro, ai quali più arrise la virtù che la fortuna.

 

Adunque la nazione Tirolese, al suo antico signore badando, ed avendo a schifo la signorìa nuova, uomini, donne, vecchi e fanciulli da Andrea Hofer ordinati e condotti, insorsero, e dalle più profonde valli, e dai più aspri monti uscendo, fecero un impeto improvviso contro i Bavari ed i Francesi. Assaltati in mezzo a tanto tumulto i Bavari a Sterchinga, a Inspruck, a Hall, e nel convento di San Carlo, non poterono resistere, e perduti molti soldati tra morti e cattivi, deposero le armi, erano circa diecimila, in potestà dei vincitori rimettendosi. Nè miglior fortuna incontrò un corpo di tremila Napoleoniani Francesi e Bavari, che in soccorso degli altri arrivava, sotto le mura di Vildavia. Quindi quante squadre comparivano alla sfilata o degli uni o degli altri, tante erano sottomesse dai sollevati. Nè luogo alcuno sicuro, nè ora vi erano per gli assalitori; perchè da ogni parte, e così di notte come di giorno, i Tirolesi uscendo dai loro reconditi recessi, e viaggiando per sentieri incogniti, siccome quelli che ottimamente sapevano il paese, opprimevano all'improvviso gl'incauti Napoleoniani. Fu questa una guerra singolare e spaventosa, conciossiacchè al romore delle armi si mescolava il rimbombo delle campane, che continuamente suonavano a martello, e le grida dei paesani sclamanti senza posa, in nome di Dio, in nome della santissima Trinità. Tutti questi strepiti uniti insieme, e dall'eco delle montagne ripercossi facevano un misto pieno di orrore, di terrore, e di religione.

Quest'erano le voci di una patria santa ed offesa. Chi con le carabine trapassava da lontano i corpi degli offenditori, chi con sassi sparsamente lanciati gli tempestava, chi con enormi massi strabalzati gli ammaccava. Hofer composto in volto, e torreggiante per l'alta e forte sua persona in mezzo a' suoi, e solo da loro conosciuto per lei, non per l'abito conforme in tutto a quello dei compagni, appariva ora incitante contro gli armati, ora raffrenante verso gl'inermi, uccisore ardentissimo di chi resisteva, difensore magnanimo di chi si arrendeva. Dovunque, e quandunque andava, era una volontà sola per combattere, una volontà sola per cessare, e più poteva l'autorità del suo nome in quegli animi bellicosi, che in soldati ordinatissimi l'uso della disciplina, ed il timore dei soldateschi castighi. I fanciulli fecero da adulti, i vecchi da giovani, le femmine da uomini, gli uomini da eroi; nè mai più onorevole e giusta causa fu difesa da più unanime e forte consenso. Camminavano i vinti, erano una moltitudine considerabile, per la strada di Salisburgo verso il cuore dell'Austria, gratissimo spettacolo a Francesco. I Tirolesi vincitori sulle terre Germaniche, passate le altezze del Brenner, vennero nelle Italiane, e mossero a romore le regioni superiori a Trento. Propagavasi il romore da valle in valle, da monte in monte, e la Trentina città stessa era in pericolo. Certo era, che quando l'arciduca Giovanni fosse comparso sulle rive dell'Adige, la massa Tirolese sarebbe calata a fargli spalla; il che avrebbe partorito un caso di grandissima importanza per tutta Italia: quest'era il disegno dei generali Austriaci. L'imperatore Francesco, sì per ajutare la caldezza di questo moto, e sì per dimostrare che non aveva mandato in dimenticanza quelle popolazioni tanto affezionate, mandava in Tirolo Chasteler, un generale per arte e per valore fra i primi dell'età nostra, acciocchè nelle cose di guerra consigliasse Hofer. Mandava altresì, come abbiam notato, un corpo di regolari usi alle guerre di montagna, sotto la condotta di Jellacich, capitano esperto e conoscitore del paese. Come prima le insegne ed i soldati dell'Austria comparirono, sentirono i Tirolesi una contentezza incredibile. Entrarono gl'imperiali a guisa di trionfo; tante erano le dimostrazioni d'allegrezza che i popoli facevano loro intorno. Le campane suonavano a gloria, le artiglierìe, e le archibuserìe tiravano a festa: i vincitori popoli applaudivano: abbracciavano, s'abbracciavano, erano pronti a ristorare i soldati d'Austria con le più gradite vivande di quei monti: giorni felicissimi per l'eroico Tirolo.

Qui finirono le allegrezze dell'Austria; poichè nel colmo più alto delle sue maggiori speranze, Napoleone fatale giunto sulle terre Germaniche, e recatosi in mano il governo della guerra, vinse in pochi giorni tre grossissime battaglie a Taun, a Abensberga, a Ecmul. Per questi accidenti, fu costretto l'arciduca Carlo a ritirarsi sulla sinistra del Danubio, e restò aperta la strada sulla destra ai Napoleoniani per Vienna. Produssero anche le rotte dell'arciduca un altro importante effetto, e questo fu, che oltrandosi Napoleone alla volta di Vienna, fu forza all'arciduca Giovanni il tirarsi indietro dall'Italia; affinchè non gli fosse impedita la facoltà di ritornarsene in Austria, e perciò non solo l'Italia si perdeva per lui, ma ancora il Tirolo. Così per le vittorie acquistate dall'imperator dei Francesi tra Augusta e Ratisbona si cambiò la condizione della guerra. Chi aveva assaltato, era costretto a difendersi; chi era stato assaltato, aveva acquistato facoltà di assaltare; l'Italia si perdeva per l'Austria. Vienna pericolava, e niuna speranza restava a chi aveva mosso la guerra, che quelle dell'Ungherìa, della Moravia e della Boemia.

Quando pervennero all'arciduca Giovanni le novelle delle perdite del fratello, s'accorse, e n'ebbe anche comandamento da Vienna, che quello non era più tempo da starsene a badare in Italia, e che gli era mestiero accorrere in ajuto della parte più vitale della monarchìa. Ordinava adunque il suo esercito, che già era trascorso oltre Vicenza, alla ritirata, solo proponendosi di fare qualche resistenza ai luoghi forti per poter condurre in salvo le artiglierìe, le munizioni e le bagaglie; opera difficile e pericolosa, con un nemico a fronte tanto svegliato e precipitoso. Ritiravasi l'arciduca, perseguitavalo il principe. Fuvvi qualche indugio alla Brenta per la rottura dei ponti. Fermaronsi gli Austriaci sulle sponde della Piave, e si deliberarono a contendere il passo. Erano alloggiati in sito forte, distendendosi colla destra sino al ponte di Priuli, stato a bella posta arso dall'arciduca, e colla sinistra a Rocca di Strada, sulla via che porta a Conegliano. Numerose artiglierìe rinforzavano la fronte che occupava le vicine eminenze in faccia al fiume; i luoghi bassi erano assicurati da alcune torme di cavalli. S'apprestavano i Francesi al passo, sforzandosi di varcare a quello di Lovadina, che è il principale. Non ostante che i Tedeschi furiosamente tempestassero coll'artiglierìe poste nei luoghi eminenti, Dessaix venne a capo dell'intento. Poi passò il vicerè, sopra e sotto a Lovadina, con la maggior parte dell'esercito. Ordinò tostamente i soldati sotto il bersaglio stesso dei nemici, che con palle, e cariche continue di cavallerìa l'infestavano. Pareggiossi la battaglia, che continuava con grandissimo furore da ambe le parti; perchè i Francesi volevano sloggiare gli Austriaci dalle alture, gli Austriaci volevano rituffar i Francesi nel fiume. Non risparmiavano nè il principe nè l'arciduca, in questa terribile mischia, a fatica od a pericolo, ora come capitani comandando, ed ora come soldati combattendo. Era il conflitto tra la Piave e Conegliano; fossi profondi munivano la fronte Tedesca. Diedero dentro i Francesi, Abbé a destra, Broussier in mezzo, Lamarque a sinistra: secondavangli Pully, Grouchy, Giflenga. Dopo ostinato affronto i soldati dell'arciduca furono costretti a piegare: la fortuna si scopriva a favor del principe. Restava a superarsi il molino della Capanna, dove i Tedeschi ostinatamente si difendevano. Lamarque ajutato da Durutte, superati velocemente i fossi, e caricando con le bajonette, s'impadroniva finalmente di quel forte sito; il che fece del tutto sopravvanzare le sorti di Francia. Si ritirarono gli Austriaci, non senza disordine nelle ordinanze, a Conegliano. Poi pressando vieppiù il nemico, cercarono salvamento in Sacile. Fu molto grossa questa battaglia, e molto vi patirono i Tedeschi: tra morti, feriti e prigionieri, i perduti sommarono circa a diecimila. Morirono fra gli altri, o vennero in potestà del vincitore, i generali Wolskell, Risner e Hager. Perdettero quindici cannoni, trenta cassoni, molte munizioni e bagaglie. Dei Napoleoniani mancarono tra morti e feriti circa tremila. Principal onore in questo fatto riportarono dalla parte dei Francesi, oltre il principe, Dessaix e Pully: da quella dei Tedeschi, oltre l'arciduca, Wolskell, che finì poco dopo per le ferite l'ultimo dì della sua vita con molto rincrescimento de' suoi, perchè era veramente valoroso, e perito capitano di guerra.