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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Non si rimoveva l'imperatore dalla presa deliberazione; mandò di nuovo dicendo al papa, o gli desse il terzo dei cardinali, o si piglierebbe Roma. Tentato di render Pio odioso ai Francesi, il volle fare disprezzabile al mondo. Imperiosamente intimava al pontefice, cacciasse da Roma il console del re Ferdinando di Napoli. Rispondeva Pio, ch'egli non aveva guerra col re, che il re possedeva ancora tutto il reame di Sicilia, che era un sovrano cattolico, e che egli non sarebbe mai per consentire a trattarlo da nemico, cacciando da Roma coloro, che a Roma il rappresentavano.

L'appetita Roma veniva in mano di colui, che ogni cosa appetiva. Se vi fu ingiustizia nei motivi, fuvvi inganno nell'esecuzione. S'avvicinavano i Napoleoniani all'antica Roma, nè ancora confessavano di marciare contro di lei. Pretendevano parole di voler andare nel regno di Napoli: erano seimila; obbedivano a Miollis. Nè bastava un generale per opprimere un papa; Alquier, ambasciadore di Napoleone presso la santa Sede, anch'ei vi si adoperava. Usava anzi parole più aspre del soldato, e ritraeva di vantaggio del suo signore. Era giunto il mese di gennajo al suo fine, quando Alquier mandava dicendo a Filippo Casoni cardinale, segretario di stato, che seimila Napoleoniani erano per traversare, senza arrestarvisi, lo stato Romano; che Miollis prometteva, che passerebbero senza offesa del paese, e che il generale era uomo di tal fama, che la sua promessa doveva stimarsi certezza. Mandava Alquier con queste lettere l'itinerario dei soldati, dal quale appariva, che veramente indirizzavano verso il regno di Napoli il loro cammino, e non dovevano passare per la città. Di tanta mole era l'ingannare un papa! Pure si spargevano romori diversi. Affermavano questi, che andassero a Napoli, quelli, che s'impadronirebbero di Roma. Il papa interpellava formalmente, per mezzo del cardinal segretario, Miollis, dicesse e dichiarasse apertamente, e senza simulazione alcuna, il motivo del marciare di questi soldati, acciocchè sua santità potesse fare quelle risoluzioni, che più convenienti giudicherebbe. Rispondeva, avere mandato la norma del viaggio dei soldati, e sperare, che ciò basterebbe per soddisfare i ministri di sua santità. Il tempo stringeva: i comandanti Napoleonici marciando, e detti i soliti motti e scherni sui preti, sul papa, e sui soldati del papa, minacciavano, che entrerebbero in Roma, e l'occuperebbero. Novellamente protestava il papa, fuori delle mura passassero, in Roma non entrassero; se il facessero, l'avrebbe per caso di guerra, ogni pratica di concordia troncherebbe. Già tanto vicini erano i Napoleoniani, che vedevano le mura della Romana città. Alquier tuttavia moltiplicava in protestazioni col santo padre, affermando con asseverazione grandissima, che erano solamente di passo, e non avevano nissuna intenzione ostile. I Napoleoniani intanto, arrivati più presso, assaltarono a armata mano il dì due febbrajo la porta del popolo, per essa entrarono violentemente, s'impadronirono del castel Sant'Angelo, recarono in poter loro tutti i posti militari, e tant'oltre nell'insolenza procederono, che piantarono le artiglierìe loro con le bocche volte contro il Quirinale, abitazione quieta del pontefice. La posterità metterà al medesimo ragguaglio le promesse di Alquier, ed il suo invocar la fede di un generale da una parte, dall'altra quello sdegnarsi di Ginguenè, ambasciatore del direttorio a Torino, al solo pensare, che il governo Piemontese potesse sospettare, che i Francesi fossero per abusare contro il re della possessione della cittadella. Perchè poi niuna parte di audacia mancasse in questi schifosi accidenti, Miollis domandava per mezzo di Alquier, udienza al santo padre; ed avendola ottenuta, si scusò con dire, che non per suo comandamento le bocche dei cannoni erano state volte contro il Quirinale palazzo, come se l'ingiuria fatta al sovrano di Roma, ed al capo della cristianità consistesse in questa sola violenza, che certamente era molto grave. Della occupazione frodolenta ed ostile di Roma, che era pure l'importanza del fatto, non fece parola.

Gli oltraggi al papa si moltiplicavano. L'accusava Napoleone dello aver dato asilo ne' suoi stati a Napolitani briganti, ribelli, congiuratori contro lo stato di Murat; per questo affermava, aver occupato Roma: il papa stesso accagionava di connivenza. Alquier gliene fece querele, quasichè non sapesse, che i soldati di Napoleone già da lungo tempo erano padroni dello stato ecclesiastico, che di propria autorità, e contro il diritto delle genti vi avevano arrestato e carcerato uomini sospetti, o non sospetti, e che il governo pontificio stesso, ogni qual volta che ne era stato richiesto, aveva ordinato arresti, e carcerazioni d'uomini sospetti a Francia. Del rimanente voleva Alquier, non so se per pazzìa, o per ischerno, che il papa avesse, e trattasse ancora, come amiche, le truppe, che violentemente avevano occupato la sua capitale, e la sede del suo governo, e fatto contro il pacifico ed inerme suo palazzo quello, che contro le fortezze nemiche ed armate solo si suol fare. A questo tratto non potè più contenere se medesimo il pontefice: sdegnosamente scrisse all'ambasciadore Napoleonico, non terrebbe più per amici quei soldati, che rompendo le più solenni promesse, erano entrati in Roma, avevano violato la sua propria residenza, offeso la sua libertà, occupato la città ed il castello, voltato i cannoni contro la propria abitazione, e che inoltre con intollerabile peso si aggravavano sopra il suo erario, e sopra i suoi sudditi. A questo aggiungeva, che essendo privato della sua libertà, e ridotto in condizione di carcerato, non intendeva più, nè voleva negoziare, e che solo allora si risolverebbe a trattare delle faccende pubbliche con Francia, che sarebbe restituito alla sua piena e sicura libertà.

Le amarezze del papa divenivano ogni giorno maggiori. Il comandante Napoleonico intimava ai cardinali Napolitani Ruffo-Scilla, Pignatelli, Saluzzo, Caracciolo, Caraffa, Trajetto, e Firrao nel termine di ventiquatt'ore partissero da Roma, e tornassero a Napoli. Se nol facessero, gli sforzerebbero i soldati. Quindi l'intimazione medesima, termine tre ore a partire, fu fatta dal soldato medesimo ai cardinali nati nel regno Italico, che furono quest'essi: Valenti, Caradini, Casoni, Crivelli, Giuseppe Doria, Della-Somaglia, Roverella, Scotti, Dugnani, Braschi-Onesti, Litta, Galeffi, Antonio Doria, e Locatelli. Risposero, stare ai comandamenti del pontefice; farebbero quanto ordinasse.

A tanto oltraggio il pontefice, quantunque in potestà d'altri già fosse ridotto, gravemente risentissi. Scrisse ai cardinali, si ricordassero degli obblighi e dei giuramenti loro verso la santa Sede, imitassero il suo esempio, sofferissero piuttostochè contaminarsi, non potere sua santità permettere che partissero; proibirlo anzi a tutti ed a singoli in virtù di quella obbedienza che a lui giurato avevano. Raccomandava, e comandava loro, prevedendo che la forza gli avrebbe indegnamente divulsi dal suo grembo, che se a qualche distanza di Roma fossero lasciati, non continuassero il viaggio; vedesse il mondo che la forza altrui, non la volontà loro, gli sveglieva da Roma.

La sovranità del papa a grado a grado dai violenti occupatori si disfaceva. Commettevano il male, non volevano che si sapesse. Soldati Napoleoniani furono mandati alla posta delle lettere, dove, cacciate le guardie pontificie, ogni cosa recarono in poter loro. Postovi poscia soprantendenti e spie, non solamente s'impadronivano degli spacci, ma ancora, secondochè loro aggradiva, aprivano e leggevano le lettere, enorme violazione della fede sì pubblica che privata, e del diritto delle genti. Al medesimo fine invasero tutte le stamperie di Roma per modo che nulla, se non quanto permettevano essi, stampare si potesse. Quindi nasceva che nelle scritture che ogni giorno si pubblicavano, massimamente nelle gazzette, le adulazioni verso Napoleone, e gli scherni contro il papa erano incessabili. Il papa stesso non potè pubblicare colle stampe una sua allocuzione ai cardinali del mese di marzo, e fu costretto a mandarne le copie attorno scritte a penna, ed autenticate di suo pugno.

Tolta al papa la forza civile, si faceva passo al torgli la militare. Incominciossi dalle arti con subornare i soldati, le Napoleoniche glorie e la felicità degl'imperiali soldati magnificando. Esortavansi instantemente i papali ad abbandonar le insegne della chiesa, ed a porsi sotto quelle dell'imperio. Pochi consentirono; i più resisterono. Riuscite inutili le instigazioni, toccossi il rimedio della forza; l'atto cattivo fu accompagnato da parole peggiori. Parlava Miollis il dì ventisette marzo ai soldati del papa: essere l'imperatore e re contento di loro, non esser più all'avvenire per ricever ordini nè da femmine, nè da preti; dovere i soldati esser comandati da soldati; stessero sicuri, che non mai più tornerebbero sotto le insegne dei preti; darebbe loro l'imperatore e re generali degni per bravura di governargli. Questi erano scherni molto incivili. Del rimanente, che le femmine ed i preti abbiano comandato a soldati, in quel modo che il diceva il generale Napoleonico, poichè nè il papa, nè i cardinali, nè alcuna donna di Roma erano generali, o colonnelli, si è veduto (il che però io non sarò mai per lodare) in tutti i tempi ed in tutti i paesi, anche in Francia, e nel regno ultimo d'Italia. Miollis stesso vide peggio, poichè vide Elisa principessa, e Carolina regina, Napoleonidi, far rassegne e mostre, e comandar mosse d'imperiali soldati. Un Frici colonnello, mancando nella fede, si accomodò coi nuovi signori: fu accarezzato. Un Bracci colonnello ricusò: fu carcerato, poi bandito. Carcerati altri tre, e mandati, per aver conservato la fede loro, nella fortezza di Mantova. A questo modo stimavano e ricompensavano i Napoleoniani gli uomini fedeli ai loro principi ed alle loro patrie. I soldati furono per forza costretti alle insegne Napoleoniche, e mandati prima in Ancona, poscia nel regno Italico per essere ordinati secondo le forme imperiali.

 

Restava il santo padre nel suo pontificale palazzo con poche guardie, piuttosto ad onore che a difesa. Vollero i Napoleoniani che quest'ultimo suo ricetto fosse turbato dalle armi forestiere, non contenti, se non quando il sommo pontefice fosse in vero carcere ristretto. Andavano il dì sette aprile all'impresa del prendere il pontificale palazzo; s'appresentavano alla porta: il soldato svizzero, che vi stava a guardia, rispose che non lascerebbe entrar gente armata, ma solamente l'uffiziale che le comandava. Parve soddisfarsene il capitano Napoleonico: fatto fermar i soldati, entrava solo; ma non così tosto fu lo sportello aperto e l'ufficiale entrato, che aggiungendo la sorpresa alla forza, fece segno a' suoi che entrassero. Entrarono: volte le baionette contro lo svizzero, occuparono l'adito. S'impadronirono, atterrando romorosamente le porte, delle armi delle papali guardie; i più intimi penetrali invasero. Intimarono al capitano della guardia Svizzera, sarebbe ai soldi e sotto le insegne di Francia: ricusò costantemente. Le medesime intimazioni fecero alle guardie delle finanze, e perchè ricusarono, le condussero carcerate in castello. Intanto altri corpi di Napoleoniani giravano per la città: quante guardie nobili incontrarono, tante arrestarono.

Di tanti eccessi querelavasi gravissimamente il pontefice con Miollis; ma le sue querele non muovevano il generale Napoleonico; che anzi negli eccessi moltiplicando, faceva arrestare da' suoi soldati monsignor Guidobono Cavalchini, governator di Roma, ordinando che fosse condotto a Fenestrelle, fortezza alle fauci dell'Alpi sopra Pinerolo, che fondata dai re di Sardegna a difesa d'Italia, era ora per volontà di Napoleone divenuta carcere degl'Italiani, che anteponevano la fede alla fellonìa. Accusarono Cavalchini dello aver negato di ministrar giustizia secondo le leggi e regole del paese; del quale fallo, se era vero, il papa solo, non i forestieri, doveano giudicare. I napoleoniani portarono il prelato dentro i cavi sassi dell'orrido Fenestrelle.

A questi tratti il pontefice, fatto maggiore di se medesimo, in istile grave e profetico a Napoleone le sue parole rivolgendo: «Per le viscere, diceva, della misericordia di Dio nostro, per quel Dio, che è cagione, che il sole levante venne dall'alto a visitarci, esortiamo, preghiamo, scongiuriamo te, imperatore e re Napoleone, a cambiar consiglio, a rivestirti dei sentimenti che sul principiar del tuo regno manifestasti: sovvengati, che Dio è re sopra di te: sovvengati, ch'ei non eccettuerà persona; sovvengati, ch'ei non rispetterà la grandezza d'uomo che sia; sovvengati, ed abbi sempre alla mente tua davanti, ch'ei si farà vedere, e presto, in forma terribile, poichè quelli che comandano agli altri, saranno da lui con estremo rigore giudicati».

Napoleone cieco, e dall'inevitabile suo destino tratto, non attendeva alle spaventose e fatidiche voci del pontefice. Decretava il due aprile, che, stantechè il sovrano attuale di Roma aveva costantemente ricusato di far guerra agl'Inglesi, e di collegarsi coi re d'Italia e di Napoli a difesa comune della penisola; stantechè l'interesse dei due reami, e dell'esercito d'Italia e di Napoli esigevano che la comunicazione non fosse interrotta da una potenza nemica; stantechè la donazione di Carlomagno, suo illustre predecessore, degli stati pontificj era stata fatta a benefizio della cristianità, non a vantaggio dei nemici della nostra santa religione; stante finalmente che l'ambasciadore della corte di Roma appresso a lui aveva domandato i suoi passaporti, le province d'Urbino, Ancona, Macerata e Camerino fossero irrevocabilmente e per sempre unite al suo regno d'Italia: il regno Italico il dì undici maggio prendesse possessione delle quattro province, vi si pubblicasse ed eseguisse il codice Napoleone; fossero investite nel vicerè amplissime facoltà per esecuzione del decreto.

Già innanzi che questo decreto fosse preso, e quando ancora i negoziati colla santa sede erano in pendente, aveva Napoleone nelle quattro province, non solamente usato l'autorità sovrana con manifesta violazione di quella del pontefice, ma ancora commesso atti di vera tirannide. Vi aveva mandato con titolo ed autorità di governatore il generale Lemarrois, il quale non così tosto vi fu giunto, che cassò dalla porta d'Ancona le arme del papa; sostituì quelle dell'imperatore, diede e tolse ordini ai magistrati della provincia, e tant'oltre trascorse, che fece arrestare e condur prigione nel castello di Pesaro monsignor Rivarola, governator di Macerata pel pontefice.

Il giorno stesso dei due aprile l'imperatore, conoscendo quanti prelati natii delle provincie unite fossero in Roma ai servigi del pontefice, e volendo privare il santo padre del sussidio di tanti servitori ed amici, decretava, che tutti i cardinali, prelati, uffiziali ed impiegati qualsivogliano appresso alla corte di Roma, nati nel regno d'Italia fossero tenuti, passato il dì venticinque di maggio, di ridursi nel regno; chi nol facesse, avesse i suoi beni posti al fisco: i beni già si sequestrassero a chi non avesse obbedito il dì cinque giugno. Questa deliberazione tanto più era da biasimarsi, quanto con lei s'impediva al pontefice, oltre l'esercizio dell'autorità temporale, la quale sola l'imperatore affermava voler annullare, ancora quello della spirituale, poichè il pontefice da se, e senza consiglieri ed impiegati, non poteva adempire nè l'uno nè l'altro ufficio. Taccio la crudeltà di voler torre sotto pena anche di confiscazione di beni, ad antichi e vecchi servitori sussidj di vita, dolcezza di abitudini, uso di un aere consueto. Nè so comprendere quale nuova dottrina sia questa, che l'uomo onorato non sia padrone di viversene dove più le pare e piace, e che chi è nato in un luogo debba, come se fosse una pianta, dimorarvi perpetuamente.

Nè solo la violenza del voler torre i servitori al papa si usò contro coloro, che erano nati nel regno Italico, ma ancora contro quelli che, sebbene venuti al mondo in Roma, possedevano uffizj spirituali in quel regno. Il dì quindici luglio soldati Napoleoniani entrarono nel pontificale palazzo, e minacciosamente introdottisi nelle stanze del cardinal Giulio Gabrielli, segretario di stato e vescovo di Sinigaglia suggellarono il suo portalettere, e il diedero alla guardia di un semplice soldato. Poscia soldatescamente comandarono al cardinale, uscisse da Roma, termine due giorni, e se n'andasse al suo seggio di Sinigaglia. Si opprimeva e scacciava per tal modo da coloro, che di ciò fare niuna legittima facoltà avevano, un uomo nato in Roma, d'illustre legnaggio, di conosciuta innocenza, un vescovo, un cardinale, un primo ministro del papa. Accrebbe gravità al caso l'essergli stata fatta l'intimazione nel palazzo pontificale, ed al cospetto stesso del pontefice. Tanta violenza ed oltraggio commisero i Napoleoniani contro il cardinale, perchè obbediendo agli ordini del suo signore, aveva dato instruzioni per direzioni delle coscienze, a chi ne aveva bisogno. Sclamò il papa, questi essere delitti; i Napoleoniani non vi abbadarono.

Eugenio vicerè con solenne decreto del venti maggio spartiva le quattro provincie in tre dipartimenti, del Metauro, del Musone, e del Tronto chiamandogli. Avesse il primo Ancona per metropoli, il secondo Macerata, il terzo Urbino. Fosse in Ancona ad ulteriore ordinamento di questi territorj un magistrato politico: chiamovvi Lemarrois presidente, e due consiglieri di stato.

Si esigevano nelle province unite i giuramenti di fedeltà all'imperatore, d'obbedienza alle leggi e constituzioni. Il pontefice, che non aveva riconosciuto l'unione, e che anzi aveva contro la medesima protestato, non consentiva ai giuramenti pieni. Inoltre fra le leggi a cui si giurava obbedienza, era il codice Napoleone, nel quale, secondo l'opinione del pontefice, si contenevano capitoli contrarj, massime pei matrimonj, ai precetti del vangelo, ed ai decreti dei concilj, particolarmente del Tridentino. Perciò aveva scritto ai vescovi, decretando che fossero illeciti i giuramenti illimitati, implicando infedeltà e fellonìa verso il governo legittimo, e che solo si potesse promettere, e giurare di non partecipare in alcuna congiura, o trama, o sedizione contro il governo attuale, ed altresì di essergli fedele ed obbediente in tutto, che non fosse contrario alle leggi di Dio e della Chiesa. Ingiungeva ancora, che questo giuramento stesso niuno prestasse, se non astretto dall'ultima necessità, e quando il ricusarlo potesse portare con se qualche grave pericolo o pregiudizio. Protestava, che non intendeva per questa sua condiscendenza e permissione, dismettere o rinunziare i suoi diritti sopra i suoi sudditi, e gli altri che gli competevano, i quali tutti voleva conservare intieri ed illesi. Comandava inoltre, che niuno accettasse cariche od impieghi, dai quali ne nascesse la riconoscenza dell'usurpazione. Dichiarava finalmente, sua volontà essere, che i vescovi ed altri pastori ecclesiastici non cantassero i cantici spirituali, e particolarmente l'Ambrosiano, perchè non si conveniva, che in tanta afflizione della Chiesa, e fra tante opere violente ed ingiuste commesse contro di lei, si dessero segni di allegrezza nei tempj santi.

La volontà del pontefice manifestata ai vescovi nella materia dei giuramenti gli constituiva in molto difficile condizione; perchè dall'un de' lati Napoleone non voleva rimettere della sua durezza, dall'altro i vescovi ripugnavano a trasgredire i comandamenti del capo supremo della Chiesa. Posti fra le pene spirituali e le temporali, non sapevano a qual partito appigliarsi: ed era venuta la cosa tra la confiscazione e l'esilio da una parte, e il trasgredire dall'altra. Nè non meritava considerazione il pensare, quanto all'esilio, a quale mancanza di sussidj e di conforti spirituali verrebbero esposti i fedeli, se i pastori eleggessero quello, che il papa loro comandava. Napoleone intanto fulminava, e per mezzo del suo ministro dei culti intimava, che chi non andasse a Milano per giurare, avrebbe bando e confiscazione di beni. Vinse nei più la volontà del pontefice: e però già il cardinal Gabrielli, vescovo di Sinigaglia, i vescovi d'Arcolo Cappelletti, e di Castiglione di Montalto con altri loro compagni, erano in punto d'esser presi e trasportati in lontane regioni, con quell'aggiunta della confiscazione. A mitigare la durezza del tempo, ed a procurare loro qualche conforto giunse opportunamente Eugenio vicerè, mandato dal padre, che temeva gli effetti della resistenza ecclesiastica. Videro il giovine principe i vescovi, e con lui ristrettisi udirono da lui lodarsi gli scrupoli e la costanza loro nel non voler far quello, a che ripugnavano la coscienza propria e gli ordini del moderatore sovrano della Chiesa. Gl'informava, intenzione essere dell'imperatore, che si sospendessero per qualche giorno le esecuzioni rigorose: mandassero intanto i loro deputati al santo padre, e procurassero d'impetrare da lui, che i giuramenti si prestassero con alcuna modificazione. Le modificazioni alle quali consentiva l'imperatore erano di tre sorti; primieramente, fossero dispensati i vescovi dal viaggio di Milano ed in cospetto dei prefetti prestassero i giuramenti; secondamente, non sarebbe da loro richiesto altro giuramento, che quello statuito nel concordato ed appruovato dal pontefice, nel quale non si parlava nè di leggi, nè di costituzioni; terzamente, fosse loro lecito, innanzichè pronunziassero la forma del giuramento, esprimere, con quanta pubblicità volessero, che non volevano e non intendevano pronunciarla, se non nel senso diritto e puramente cattolico; dal che si sperava, che e il governo resterebbe appagato, e le coscienze illese. Non si lasciò il pontefice piegare ad alcuna modificazione. Da ciò ne nacque, che alcuni vescovi giurarono, fra gli altri l'arcivescovo d'Urbino, cosa sentita con molto sdegno dal papa: gli altri che ricusarono, andarono soggetti alle pene.

Circa l'accettazione degli impieghi ed uffizi civili, ed all'amministrazione dei sacramenti a coloro, che gli avessero accettati, aveva il pontefice statuito, che incorressero le censure coloro, che accettassero quegl'impieghi ed uffizi, i quali tendessero a ruina delle leggi di Dio e della Chiesa; gli altri fosse lecito accettare per dispensa del vescovo. Ma Napoleone, seguitando la sua volontà inflessibile ed arbitraria, ed a lei posponendo ogni altro rispetto, voleva che i vescovi pubblicamente dichiarassero, esser lecito per le leggi della Chiesa servire in qualunque carica od impiego il governo, e che a chi il servisse, amministrerebbero i sacramenti. Non obbedirono: affermavano, che se l'imperatore diceva sue ragioni per impadronirsi delle provincie, il papa diceva anche le sue per conservarle, e che alla fine a loro non s'apparteneva il definire sì gran contesa: che però senza taccia d'infamia e di prevaricazione, non potevano dichiarare lecito indistintamente ogni ufficio ed impiego; che l'amministrazione de' sacramenti, e nominatamente l'assoluzione dei peccati e delle censure ecclesiastiche, intieramente dipendevano dall'autorità superiore del pontefice; che se i subordinati oltrepassassero i termini posti da lei, l'assoluzione sarebbe nulla e di niun valore, non solamente nel foro esteriore, ma ancora a cospetto di Dio; che queste non erano opinioni che potessero ancora venir in controversia, ma dogmi inconcussi, dogmi di quella religione che dominava nel reame d'Italia per confessione stessa dell'imperatore; che se il papa era stato spogliato di una parte del suo dominio temporale, rimaneva intiera e piena la sua potestà spirituale; che a lui solo spettava la facoltà di definire in queste materie il lecito e l'illecito, e di allargare o di restringere la giurisdizione dei prelati inferiori; che pertanto sarebbe attentato scismatico e distruttivo dell'unità cattolica, il contraddire pubblicamente i suoi giudizi; essere parati, attestavano, a promuovere e mantenere con tutti i mezzi, che fossero in facoltà loro, la quiete dello stato, ma non voler arrogarsi una giurisdizione che a loro non competeva, e che non potrebbero, se non se sacrilegamente ed inutilmente usare. Così era nelle quattro province un conflitto tra armi ed opinioni, armi forti ed opinioni inflessibili: gli uomini distratti tra la coscienza e gl'interessi non sapevano più dove volgersi: prigioni a chi s'allontanava dalle armi, maledizioni a chi s'allontanava dalle opinioni, discordia, dolore e miseria per tutti. Tal era la condizione delle Marche, una volta sì prospere e sì felici, ora cadute ed infelici. Quanto al papa bene aveva operato Pio settimo col protestare, come fece, con tanta energia contro la usurpazione della sua sovranità: ma nel restante avrebbe dovuto imitare la prudenza, e la paterna sopportazione di Pio sesto, suo glorioso antecessore. L'usare inflessibilità, mentre era inutile, contro Napoleone, esponeva i sudditi a calamità innumerabili. Il protestare contro l'usurpatore era ufficio indispensabile di sovrano, ed anche bastava per conservar incolumi i suoi diritti; il sopportare con agevolezza e mansuetudine la faccenda dei giuramenti era ufficio di padre verso i suoi figliuoli.

 

Pubblicava Pio una solenne protesta:

«Il decreto pubblicato, diceva, d'ordine dell'imperatore e re Napoleone, che subitamente ci spoglia del dominio libero ed assoluto delle province della Marca d'Ancona, dominio, di cui per consentimento di tutti, durante dieci secoli e più, hanno sempre i nostri predecessori goduto, non solamente contro di noi fu fatto, contro di noi per tanti anni da tanti dolori trafitti, da tante tempeste battuti per cagione di colui, che con quella maggiore amorevolezza che per noi si è potuto, abbracciato abbiamo, ma ancora contro la Chiesa Romana, contro la Sedia apostolica, contro il patrimonio del principe degli apostoli. Nè sappiamo, se in questo decreto sia maggiore l'oltraggio della forma, o la iniquità del fatto. Per certo, se in così grave accidente tacessimo, ciò fora meritamente a mancanza del nostro apostolico dovere, a violazione dei giuramenti nostri imputato. Che se poi vogliamo por mente ai motivi del decreto, facilmente ci persuaderemo, maggiore obbligo legarci a rompere il silenzio, perciocchè ingiuriosi sono, e contaminano la purità e l'integrità delle nostre deliberazioni. L'oltraggiare ed il mentire sonsi aggiunti all'ingiustizia. Che un principe inerme e pacifico, che non solo non dà cagione di dolersi di lui ad alcuno, ma che ancora allo stesso imperatore dei Francesi ebbe con tanti manifesti segni la sua affezione dimostrato, i propri interessi e quelli de' suoi sudditi anche offendendo, sia spogliato de' suoi dominj per non aver creduto, che gli fosse lecito di obbedire agli ordini di colui, che gl'ingiungeva di abbandonare la sua neutralità con tanta fede e scrupolo conservata, e di far lega di guerra contro coloro, che a modo nissuno turbato nè offeso l'avevano, già per se sarebbe una grandissima ingiustizia; che se poi un principe, che fosse signore di un grande impero avesse giustissime cagioni di ricusare una lega nemica, qual cosa si dovrebbe dire, e pensare del sommo pontefice, vicario in terra dell'autor primo di pace, obbligato in forza del suo apostolato supremo al ministerio di padre comune, ad un uguale amore verso tutti i fedeli di Gesù Cristo, ad un eguale odio contro tutte le nimicizie? Passa il decreto per dissimulazione artifiziosa sotto silenzio questi obblighi nostri, queste voci della coscienza nostra, obblighi e voci, che tante volte, e per lettere nostre, e per bocca dei nostri legati, candidamente e sinceramente all'imperator Napoleone rappresentammo. Ma l'ingiustizia sua procede anche più oltre, posciachè ci rimprovera l'esserci noi da quest'alleanza astenuti, per non essere obbligati a volgere le armi contro gl'Inglesi esclusi dalla comunanza cattolica. Nella quale ingiustizia contiensi una grande ingiuria: poichè sa egli, quantunque il taccia, quante volte gli protestammo, non poter entrare in una lega perpetua per non essere costretti a guerra contro tanti principi cattolici, a quanti a lui piacesse di far guerra ora e per sempre. Dogliamoci inoltre, come di offesa grave ed odiosa, ch'ei ci accusi di rifiutar l'alleanza, affinchè la penisola resti facilmente esposta agli assalti dei nemici. Sallo, e chiamiamo in testimonio e giudice tutta l'Europa, che vede da tanti anni le Italiane spiagge occupate da soldati Francesi, sallo, e chiamiamo in testimonio e giudice l'imperatore stesso, che tace la condizione da noi offerta, ch'ei mettesse in tutt'i porti ed in tutti i lidi nostri i suoi presidj. Havvi in questo silenzio più ingratitudine ancora, che menzogna, posciachè ei non ignora punto, quanto danno ridonderebbe ai sudditi nostri dalla chiusura dei porti, e quanto sdegno contro di noi ne prenderebbero i suoi nemici. Ma se per onestare la sua usurpazione, offende la verità del pari che la giustizia, incredibile da un altro canto è la maraviglia da noi concetta, che pel fine medesimo non gli abbia ripugnato l'animo al servirsi della donazione di Carlomagno. Noi non possiamo restar capaci, come l'imperatore, dopo lo spazio di dieci secoli, s'attenti di risuscitare, e di attribuirsi la successione di Carlomagno, nè come la donazione di Carlomagno risguardi i dominj usurpati della Marca d'Ancona.

«Stante adunque che per le ragioni finora raccontate egli è chiaro e manifesto, che per forza di un attentato enorme i diritti della Romana Chiesa sono stati dall'ultimo decreto di Napoleone violati, e che una ferita ancora più profonda è stata a noi ed alla santa sede fatta, acciocchè tacendo non paja ai posteri, che noi l'iniquissimo delitto commesso con violazione di tutte le regole della rettitudine e dell'onore, quanto pure merita non abbiamo (il che sarebbe perpetua vergogna nostra) a sdegno ed abborrimento avuto, di nostro proprio moto, di nostra certa scienza, di nostra piena potenza dichiariamo, e solennemente, ed in ogni miglior modo protestiamo, l'occupazione delle terre, che sono nella Marca d'Ancona, e la unione loro al reame d'Italia, senza alcun diritto e senza alcuna cagione per decreto dell'imperator Napoleone fatte, ingiuste essere, usurpate, nulle: dichiariamo altresì, e protestiamo, nullo essere, e di niun valore quanto sino al giorno d'oggi si è fatto per esecuzione del detto decreto, e quanto potrà essere d'ora in poi sulle terre medesime da qualunque persona fatto e commesso: vogliamo inoltre e dichiariamo, che anche dopo mille anni, e tanto quanto il mondo durerà, quanto vi si è fatto, e quanto sarà per farvisi, a patto niuno possa portar pregiudizio o nocumento ai diritti sì di dominio, che di possessione sulle medesime terre; perchè sono, e debbono essere di tutta proprietà della nostra santa Sedia apostolica».