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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Così Napoleone minacciava, Bajana parlava risolutamente, Bertazzoli persuadeva con preghiere e con lagrime. Intanto il ministro dei culti comandava, che nissuna persona che fosse al mondo, salvo i mandatarj, il prefetto, e Lagorsse gendarme, potesse parlare al papa. Fecero bene i mandatarj la parte loro: solo Dugnani e Ruffo diedero in qualche scappata, favellando della libertà del papa: ma furono dette loro certe parole, che fu loro forza pensare ad ogni altra cosa piuttosto che a questa, di procurare la libertà del carcerato. Intanto il concilio di Parigi faceva un decreto conforme alle ultime promesse del santo padre: portasselo a Savona una deputazione del concilio, acciocchè il papa ratificasse, e desse un breve conforme. Furono deputati, e portatori della conciliare deliberazione l'arcivescovo di Tours, l'arcivescovo di Malines, il vescovo di Faenza nominato patriarca di Venezia, l'arcivescovo di Pavia, i vescovi di Piacenza, d'Evreux, di Treveri, di Nantes e di Feltre. Gli vide umanamente e volentieri il papa: ottennero facilmente il dì venti settembre il breve, che appruovava il decreto conciliare: le sedi arcivescovili e vescovili, più di un anno non potessero vacare; l'imperatore nominasse, il papa instituisse; se fra sei mesi non avesse instituito, il metropolitano, od il più anziano instituissero essi. Solo ai notati capitoli aggiunse il pontefice il seguente, che, spirati i sei mesi, e se alcun impedimento canonico non vi fosse, il metropolitano, o il più anziano, innanzi che instituissero, fossero obbligati a prendere le informazioni consuete, e ad esigere dal consecrando la professione di fede, e tutto, che dai canoni fosse richiesto. Volle finalmente, che instituissero in nome suo espresso, od in nome di colui che suo successore fosse, e tantosto trasmettessero alla sedia apostolica gli atti autentici della fedele esecuzione di queste forme. L'avere statuito un termine alle instituzioni pontificie, oltre il quale se il papa non avesse instituito, potessero instituire i metropolitani, era cosa piuttosto di estrema che di grande importanza per la sicurezza e quiete degli stati, e in questo aveva Napoleone bene meritato della potestà secolare; imperciocchè in così stretta congiunzione delle cose temporali e spirituali possono nascere facilmente tra le due potestà gravi controversie, per terminar le quali a suo vantaggio Roma potrebbe usare contro i principi il rimedio nell'interruzione dell'episcopato per mezzo della negazione delle instituzioni. Il termine prefisso di cui si tratta, suppliva, in quanto spetta all'independenza della potestà temporale, agli ordini spenti dell'antica disciplina, o legittimi che si fossero e d'instituzione divina secondo l'opinione di molti dotti teologi, o solamente tollerati per tacita od espressa delegazione dai successori di san Pietro secondo l'opinione della curia Romana. Beato Napoleone, se ciò avesse domandato, ed ottenuto dal pontefice per amor della libertà, non per cupidigia della dominazione! Beato egli ancora, se in ciò si fossero contenuti i suoi pensieri! Ma quanto maggiore si mostrava la condiscendenza del pontefice, tanto più egli osava. Bajana, l'arcivescovo di Tours con tutti gli altri si serrarono addosso al prigioniero, acciocchè consentisse alle altre richieste dell'imperatore. Facilmente si vede, quale libertà ecclesiastica potesse ancora sussistere, se il papa prestasse il giuramento, se vivesse in Roma o in Avignone cinto dai soldati Napoleoniani, e salariato dall'imperatore, se l'imperatore nominasse tutti o quasi tutti i cardinali, se tutti i dispacci del papa si tramandassero per le poste imperiali. Certamente in questo i prelati facevano piuttosto la parte di avvocati dell'imperio, che della Chiesa, e procuravano la libertà intiera della potestà secolare. I principi avrebbero dovuto restar loro obbligati, se tale fosse stata la lor intenzione qual era il fatto. Del resto qui era un caso straordinario, dal quale non si poteva argomentare agli ordinarj; perciocchè tutte le potestà secolari erano a questo tempo serve di una sola, la quale, per l'intiera soggiogazione della potestà ecclesiastica, diventava padrona assoluta del mondo. Caso strano, ma vero: la libertà ecclesiastica era parte e sostegno della libertà universale, e caduta quella, che di tutti i freni era il solo che fosse rimasto, anche questa se n'andava in precipizio per dar luogo ad una universale tirannide.

A tutta la tempesta che gli si faceva intorno, domandava primamente il papa la sua libertà: al che rispondevano i deputati conciliarj (il narro perchè la posterità conosca l'età), ch'egli era libero. Del giuramento, del rinunziare ai vescovi di Roma, del tornare a Roma, o dell'andar ad Avignone in qualità di suddito con fermezza grandissima negava. Il dolce Bertazzoli, che aveva paura, non se ne poteva dar pace: pietosamente sclamava: «Speriamo in Dio, obbidienza al governo, ho speranza, preghiamo Dio»: e così tra queste speranze e questa obbedienza il buon prelato passava tempo, ma nulla fruttava col pontefice: anzi finalmente il papa gl'intimò, non gli parlasse più di faccende. Napoleone, veduto che non si approdava a nulla, volle pruovare, se una solenne e subita minaccia potesse far effetto. Comandò ai deputati, ed il fecero, che si appresentassero al pontefice, e ad aperte parole gli dichiarassero, esser loro per ordine dell'imperatore in sul partire da Savona, lui essere cagione che l'imperatore si ritirasse dai concordati, lui operare che i vincoli della chiesa gallicana colla santa sede si rompessero, lui fare che di tanto notabile diminuzione della cattedra di san Pietro potessero giustamente i posteri, e massimamente i suoi successori, accagionarlo; pensasse bene, quello essere l'ultimo momento, Romana chiesa perduta, imperio trionfante. Aggiungevano molte altre cose sul benefizio che riporterebbe ciascuna delle parti dalla condiscendenza del papa. Rispose, non potere contro coscienza, Dio provvederebbe, non curarsi di quanto dicesse il mondo, manco di quello che cardinali e prelati contaminati a Parigi dicessero. Partirono disconclusi.

Per ultimo cimento, e per ordine risoluto del ministro dei culti, il prefetto, venuto in cospetto del pontefice, gravemente lo ammoniva dell'importanza del fatto, delle calamità sovrastanti, dei pentimenti, che ne avrebbe, dell'opinione di tutto il clero, anzi del mondo, contraria alla sua. Aggiunse, che se non si piegasse, ed in meglio non voltasse le sue risoluzioni, aveva carico di notificargli cosa, che porterebbe grave ferita al suo cuore. Rispose, nol permettere la coscienza; che Dio mostrerebbe la sua potenza. Il prefetto gli significava allora da parte del governo, che il breve dei venti settembre non essendo stato ratificato, l'imperatore teneva i concordati per abrogati, e non soffrirebbe più, che il papa intervenisse nell'instituzione canonica dei vescovi.

Le minacce di lontano non avendo prodotto impressione, si volle far pruova, se da vicino fossero più fruttuose. Oltre a ciò già i tempi incominciavano a stringere, e i fati a dar di mano a Napoleone: quel papa renitente e lontano dava qualche timore. Deliberossi l'imperatore a tirarlo in Francia, dove potesse e vederlo e minacciarlo egli medesimo. La segretezza parve più sicura della pubblicità, la notte più del giorno. Diessi voce, che Lagorsse, capitano di gendarmi, che doveva accompagnare il papa cattivo nel suo viaggio, fosse venuto in disgrazia dell'imperatore, per essersi mostrato troppo agevole ed amico con Porta, medico del papa, e che il principe Borghese il chiamasse a Torino per udire da lui gli imperiali comandamenti. Tant'oltre andò la simulazione, che i Savonesi ingannati compativano Lagorsse, e davano attestati di buona vita a copia per discolparlo: la cosa allignava. L'ingegnere, capo dei ponti e strade, apprestava ogni cosa alla partenza. La notte dei nove giugno era scurissima per accidente; al tocco della mezzanotte, messogli addosso una sottana bianca, un cappello da prete in capo, la croce vescovile in petto, lui non ripugnante, anzi serbante serenità, spignevano il capo della cristianità nella carrozza apprestata, e l'incaminavano alla volta di Alessandria. Spargevano che fosse il vescovo d'Albenga, che andasse a Novi. Passarono per Campomarone non per Genova, per sospetto della città. Niuna cosa cambiata in Savona: ogni giorno, e durò ben quindici dopo la partenza, i magistrati andavano in abito al palazzo pontificale per far visita al pontefice, come se fosse presente: i domestici preparavano le stanze, apparecchiavano e sparecchiavano le mense, andavano a mercato per le provvisioni, cuocevano le vivande: Fenestrelle in vita, se parlassero. Le guardie vigilavano al palazzo, i gendarmi attestavano a chi il voleva udire, ed a chi nol voleva, avere testè veduto il papa con gli occhi loro o nel giardino, o sul terrazzo, o in cappella; Suard, luogotenente di Lagorsse, che era consapevole del maneggio, compiangeva il povero Lagorsse per aver perduto le grazia dell'imperatore. Chi non sapeva parlava, chi sapeva non parlava. Ma si voleva che niuno parlasse: un pover uomo della riviera ebbe a dire, per sua disgrazia, che aveva veduto il papa a Voltri: gli fu intimato si ritrattasse: quando no, mal per lui: si ritrattò, e fu lasciato andare con le raccomandazioni: fece proponimento di non nominar mai più papa. I Napoleonici stavano in sentore, se mai qualche voce in Savona, o nei luoghi vicini sorgesse: i magistrati scrivevano, ogni cosa essere sicura; nissuno addarsi. Insomma già era il pontefice a dugento leghe, che ancora si credeva che fosse in Savona. Tanto erano perfettamente orditi i disegni del Napoleonici! Arrivava il pontefice a nuovi soldateschi insulti in Fontainebleau: poco dopo arrivava anche Napoleone. Caso fatale, che là, dove otto anni prima era Pio arrivato trionfante, ora prigioniero arrivasse, e di là dove ora Napoleone signore del mondo arrivava, prigioniero due anni dopo se ne partisse.

LIBRO VIGESIMOSESTO

SOMMARIO

Accidenti di Sicilia. Constituzione data dal re Ferdinando ai Siciliani ai tempi di Bentinck. La regina Carolina, costretta dagl'Inglesi, si ritira dalla Sicilia, e muore a Vienna. Guerra tra Francia e Russia. Sono giunti i tempi fatali per Napoleone. Perisce la sua potenza in Russia. Fa un nuovo sforzo, e comparisce sui campi di Germania. È prostrato a Lipsia: tutta la Germania sdegnata insorge contro di lui. Concordato di Fontainebleau. Pratiche di Giovacchino, d'Eugenio, di Bentinck per le sorti d'Italia. Eugenio sulla Sava; l'Italia assalita da parecchie parti. S'avvicina il fine della tragedia.

 

Regnava in Napoli Giovacchino Napoleonide, in Sicilia Carolina d'Austria. Molto operava Napoleone nel regno di qua dal Faro per la sua potenza, molto gl'Inglesi in quello di là dal Faro per la presenza; molti, e varj furono gli effetti ed in chi regnava di nome, ed in chi regnava di fatto, ma una la cagione, cioè l'ambizione. Tanto è dolce agli uomini, ed anche alle donne il comandare! Parte degli accidenti che seguirono, già furono da noi raccontati, parte accennati: ora è ragione, che coll'ulterior narrare quelli si terminino, questi maggiormente si spieghino; poi presto verrassi al fine di questa mia troppo lagrimevole narrazione. Da più rimoto principio si ha per noi da cominciare. Era Giovacchino, siccome quegli che si nutriva facilmente con vane speranze, tutto intento a turbare le cose di Sicilia sì colle dimostrazioni guerriere, sì colle instigazioni, e colle spie. Carolina dal canto suo, in ciò ajutata dagl'Inglesi, si era in tutto dirizzata a questo disegno, che la denominazione dei Napoleonidi nel regno di terraferma mal quieta e mal sicura rendesse. Il sangue sparso a copia nelle Calabrie, i fiumi biancheggianti di umane ossa attestavano le Napolitane e le Palermitane instigazioni, e già furono da noi in queste carte vergati. Raccontammo ancora, come i tentativi armati di Giovacchino finissero: resta, che il seguito delle Siciliane mutazioni, facendo principio dall'esito delle insidie dei Napoleonidi, da noi si descriva, crudi accidenti e degni dei tempi. Tentavano principalmente i Napoleonidi Messina, per la vicinanza ed importanza del luogo. Vi avevano segrete intelligenze con alcuni uomini di umile condizione, il cui fine era operare moti contrarj al governo. I congiurati, come gente di basso stato, non avevano alcuna dipendenza d'importanza, ma si temeva ch'essi fossero gli agenti d'uomini più potenti, non potendosi restar capace come i Napoleonidi, per fare una rivoluzione in Sicilia, adoperassero gente di così piccole condizioni, come calzolari, marinari e pescatori. Per la qual cosa per iscoprire fin dove il vizio si stendesse, il governo mandava da Palermo sul luogo un marchese Artali, uomo non solo inclinato a fare quanto il governo volesse, ma capace ancora di far degenerare la giustizia in sevizia. Terribile fu il suo arrivo, terribile la dimora. Pose in carcere non solamente i rei, ma ancora i sospetti, e non che plebei e poveri, magnati e ricchi. Condotti i carcerati in sua presenza, faceva loro udire, che sarebbe meglio per loro che confessassero; quando no, avessero a sapere ch'egli era Artali marchese, che ministrerebbe giustizia alla Palermitana, che avrebbero ceppi ai piedi, manette alle mani, che gli farebbe tirare sulla colla, arroventare coi ferri, che solo che una sua parola parlasse, conoscerebbe Messina ch'egli era Artali. I fatti poi consenzienti, anzi peggiori delle parole; perchè serrati in una segreta così bassa e stretta, che nè stare in piedi nè giacere alla distesa potevano, eran lasciati per ben cinquanta giorni a dimenticanza, solo un misero panicciuolo al giorno essendo loro ministrato. Sorgeva l'acqua tutto all'intorno, il suolo aspro di acuti sassi. Non lume avevano nè aria: fra breve venne l'aria pestilente. A questi erano lacerate le carni con nerbi, a quelli scottate con ferri; a questi davansi droghe da procurar loro sogni spaventevoli, da cui solamente erano svegliati con brace accesa, o con piastrelle arroventate. Fuvvi chi ebbe le membra tirate dalla colla orribilmente, e chi la pelle tagliata fino al cranio da funicelle strettissimamente avvinte. Scioglievansi, perchè le carni davano in mortificazione: temevano i carnefici, che la morte togliesse le vittime ai nuovi ed apprestati tormenti. Fora pur troppo dolorosa narrazione l'andar raccontando minutamente il lungo e moltiforme martirio. Solo dirò, che le Messinesi carceri furono come le Verrine: la Siciliana terra rispondeva alla Napolitana, furore a furore, crudeltade a crudeltà opponendo: infausto cielo, che vide quanto possa l'eccessiva natura dell'uomo. Di Manhes e di Artali parlando, mostrano le Calabresi terre, mostrano le Siciliane la terribile natura loro; ma il primo fu inesorabile, il secondo crudo; quegli pacato, questi sdegnoso; l'uno sanò un paese, l'altro fece un paese infermo e pregno di vendetta. Messina tutta piangeva, tremava, fremeva; niuna cosa più sicura a nissuno: imprecavano e chi comandava e chi tollerava; un gran vituperio ne nasceva per gl'Inglesi andati là per difendere le popolazioni, e che le vedevano straziare. Gridarono i Messinesi, venne avviso della tragedia a Giovanni Stuart, generale dei soldati Britannici. Mandò un lord Forbes a visitare le segrete dolorose: gli diede per compagno parecchi chirurghi, perchè sapeva che abbisognavano, per sanare le vestigia impresse dal furore dei carnefici. Seppesi queste cose il governo del re Giorgio: gliene fu fatta anche fede indubitata. Non so se gl'importasse dei tormentati: bene gli calse dell'odio che ne veniva contro il governo Siciliano, e contro l'Inghilterra: indebolivasene la difesa dell'isola. Di gran momento era agl'Inglesi la conservazione della Sicilia, sì per se medesima, come pel sito opportuno a difendere Malta, ed a percuotere nel cuore del regno di Napoli. Non poca molestia dava loro il vedere, che l'imperio violento della regina, perciocchè a lei massimamente attribuivano i popoli la direzione delle faccende, tendeva ad alienare gli animi da lei e dagli alleati; perciò pensarono ai rimedj. Per verità i Siciliani, che con molta allegrezza avevano veduto la corte venire in Sicilia nel novantotto, ora mutatisi intieramente, alla medesima erano avversi. Della qual mutazione, oltre i rigori eccessivi, molte e gravi furono le cagioni. Morto Acton, col quale la regina principalmente si consigliava, era stato chiamato ministro delle finanze il cavaliere Medici, uomo, come già abbiam detto altrove, di singolare destrezza d'ingegno, ma che amava il governare assoluto. Per questo aveva piaciuto alla regina, e la regina a lui. Della sua elezione si mostrarono male soddisfatti i Siciliani, sì per questa stessa sua natura molto tirata, come perchè Napolitano era. A queste male soddisfazioni se n'aggiunsero delle altre di non poco momento. La regina che sapeva, che a volta a volta tornava al re il desiderio di prendersi nel governo tutto l'imperio che gli si conveniva, aveva fatto opera, per fermare questi rigogli, che fosse eletto a primo ministro il duca d'Ascoli, nel quale Ferdinando aveva molta affezione, e che molto ancora da lei dipendeva. Confidava in questo di essere del tutto padrona dell'animo del re sì per l'imperio proprio, come per quello del duca. Ma oltre che Ascoli era uomo d'intelletto incapace a sopportare tanto peso, e neppure gli dispiacevano i piaceri di cui tanto si dilettava Ferdinando, avvenne che appresso a lui acquistò grande autorità una donna, che chiamava col nome di sua amica. Costei traendo, contro il dovere, ad utilità propria il credito del duca, fu cagione che un gran romore si levasse contro di lui con diminuzione del suo nome presso i popoli. Il mal umore si accese anche contro la corte, massimamente contro la regina, che per tenersi il duca benevolo, accarezzava l'amica di lui.

Cagione molto forte di disgusto furono i Napolitani venuti colla corte in Sicilia. Costoro, se pochi si eccettuano, o messisi a grandeggiare fra un popolo povero, od a far le spie fra un popolo sdegnato, accrescevano l'odio naturale dei Siciliani contro i Napolitani, e gli umori già mossi viemaggiormente pervertivano. Il denaro del pubblico, cavato a grande stento dai sudditi spolpati, si profondeva con grave scandalo in Napolitani o Calabresi, parte insolenti, parte viziosi, immoderati tutti nella quantità delle spese: intanto i soldati quasi nudi, e colle paghe corse da mesi ed anche da anni, attestavano colla miseria loro la pessima amministrazione del regno. Nè la corte rimetteva dal consueto lusso, come se il regno solo oltre il Faro potesse da se solo sopperire a quella voragine, alla quale appena bastarono i due regni uniti. Quindi accadeva, che sebbene alcune terre appartenenti alla corona col fine di sostenere le esorbitanti spese si vendessero, nondimeno sempre l'erario penuriava, e mentre la corte spendeva e spandeva, ogni servizio del pubblico mancava. Le strade massimamente, per le quali il parlamento aveva conceduto proventi particolari, rotte e malconce dimostravano, che ciò che per loro si era dato, in altri usi si convertisse. S'aggiunsero a sprofondar l'abisso gli enormi dispendj fatti per le fazioni della Calabria, per la difesa di Gaeta, per le spedizioni contro Castellamare, e contro le isole di Procida, d'Ischia e di Capri. Già si era dato fondo alle ricchezze portate via nella fuga di Napoli, avvegnachè fossero di non poca entità, e le cose erano ridotte a tale, che la regina per ultimo sussidio, mandò ad impiegar le gioje dotali e sopraddotali per cavarne diecimila once, che sono circa cinquemila luigi di Francia. Crescevano gli sdegni, pensando che l'Inghilterra pagava alla corte di Sicilia trecentomila sterlini all'anno di sussidio, nè potevano i popoli restar capaci come tant'oro Napolitano, Siciliano ed Inglese in una e medesima voragine senza nissuno, o con debole frutto si gettasse: ricchezza certa, dispendio enorme, povertà rea, dicevano. Gl'Inglesi stessi perdevano di riputazione appresso ai popoli e per l'uso, e per l'abuso del sussidio. Adunque, i Siciliani gridavano, fan le spese gl'Inglesi alla Sicilia, perchè ne siano pagate le Napolitane spie, i Calabresi sicari? Adunque gli sterlini di Londra vengono a Palermo, perchè l'amata d'Ascoli, ed il dispotico dominio di Medici ne siano protetti e sicuri? Adunque perchè un duro giogo sul collo dei Siciliani, miseri colla corte assente, ancor più miseri colla corte presente s'aggravi, i Britannici salari sulle Siciliane terre sono chiamati? Adunque perchè dei Napoleonidi ogni ora si tema, tanti domestici e forestieri tesori si profondono? Incominciavano gl'Inglesi ad accorgersi, che avevano a fare con un alleato, il quale dopo di aver procurato odio a se, il procurava anche a loro. Già se ne gettavano motti aperti nei giornali di Londra: il governo stesso pensava ai rimedj. Il fine era questo, che si togliesse alla regina l'autorità che si era arrogata nelle faccende, e che la parte popolare si accarezzasse, si conciliasse, si fortificasse.

Ma prima che gl'Inglesi comandassero, si sperava in un rimedio domestico: quest'era il parlamento Siciliano. Lo aveva il re convocato nell'ottocentodieci. Aveva Medici dato molte speranze di questo parlamento, come se fosse per essere molto liberale di sussidj: donativi gli chiamano in Sicilia. Era Medici uomo molto ingegnoso ed inframmettente, nè mancava di ardimento: perciò sempre confidente in quanto imprendesse a fare, sperava di volgere a suo grado il parlamento. Fece suoi brogli appresso ai rappresentanti, questi sono il braccio demaniale, nè senza frutto. Alcuni degli eletti liberamente dalle città tirò a se colle promesse e coi doni, altri fece eleggere a sua posta; che anzi ottenne che parecchie città, bruttissimo vizio della constituzione Siciliana, dessero il mandato parlamentario ad una medesima persona. Erano moltiplici questi rappresentanti, ed al favore di Medici obbligati, e da lui dependenti. Si era anche destramente insinuato, ed aveva acquistato credito nel braccio ecclesiastico: non pochi vi erano inclinati a secondare i suoi disegni. Bene considerate erano tutte queste cose da Medici; ma errò per altra parte in due modi, perchè credendosi sicuro dei due bracci, demaniale ed ecclesiastico, omise di accarezzare il baronale più potente di tutti, ed oltre a questo usò l'opera di certe persone, le quali, avvengadiochè fossero dotate di singolare abilità, erano nondimeno venute in odio ai popoli, perchè nel parlamento dell'ottocentosei si erano adoperate con molto calore, acciocchè si aumentassero i dazj. I baroni, parte per amor di bene, parte per odio di Medici, che gli aveva o trascurati od aspreggiati, fecero tra di loro un'intelligenza per isturbare i disegni al ministro. Fra gli avversarj, per essere stato offeso ed allontanato dalla corte per opera di lui, risplendeva il principe di Belmonte, uomo assai ricco, di famiglia nobilissima, e di molta dipendenza in Sicilia: nè l'ingegno mancava in lui, nè la liberalità; perchè amico ai letterati, cortese ai forestieri, mostrava che di buoni frutti non era sterile la Sicilia. Quest'erano le sue virtù: i vizj, un orgoglio intollerabile. Assunse impresa di vendicarsi di Carolina e di Medici. I baroni si collegarono con Belmonte. Il ministro s'accorse, che se era stato buono il tirare a se i dipendenti, sarebbe stato meglio il tirare gl'independenti. L'esito fu, che il parlamento concedè un piccolo aumento di donativi, ma interpose tante difficoltà alla distribuzione e riscossione loro, che fu impossibile di esigergli. Maggiori segni sorsero del mal umore parlamentario, perchè, essendo solito il parlamento a domandare molte grazie al re, grazie, che si concedevano a ragguaglio della largizione dei donativi, a questa volta i baroni domandarono, come per modo d'ironia, la grazia di sua maestà: l'esempio fu efficace; anche i due altri bracci risposero nella medesima sentenza: solo gli ecclesiastici richiesero il re, facesse prigioni separate pei preti. I Siciliani, secondo la natura dei popoli che sempre pagano mal volentieri, e peggio quando sono entrati in opinione che chi maneggia il denaro loro lo sparge, alzarono voci di plauso in tutta l'isola a favor dei baroni: pel contrario con discorsi acerrimi laceravano il nome di Medici, e di coloro che nel parlamento l'avevano secondato.

 

Fu molto memorabile il parlamento Siciliano dell'ottocentodieci, di cui abbiamo fin qui toccato. Imperciocchè le terre obbligate a feudo furono ridotte all'allodio, ed aboliti molti baronaggi, consentendo volentieri e con singolar lode i baroni ad una riforma, che recava loro, quanto alle rendite, notabile pregiudizio. A ciò si aggiunse, che per la più acconcia distribuzione dei dazj, si crearono nuovi ordini di gabelle, e le terre, affinchè il terratico fosse stanziato con più equalità, si accatastarono, facendo stima dai contratti d'affitto, o dalle confessioni dei possidenti sul fruttato di dieci anni; dal che ne sorse un censo o catasto, che, sebbene imperfetto, diè non pertanto qualche utile norma in una faccenda intricatissima. Migliorò anche il parlamento gli ordini giudiziali, cosa in quei tempi di estrema necessità, per la frequenza intollerabile che era invalsa dei furti e delle rapine; perchè siccome per lo innanzi i capitani di tutte le città e villaggi erano obbligati a compensare del proprio i rubati, il che di rado aveva effetto, essendo per lo più i predetti capitani uomini poveri, che amavano meglio o fuggire o andar carcerati, che pagare, così il parlamento creò tante compagnìe di gendarmi, quanti erano i distretti, volendo, che ciascuna compagnìa purgasse il distretto proprio dai ladri, e fosse tenuta dei furti che vi succedessero. Le strade ed i casali sparsi, che prima erano molto infestati, diventarono più sicuri, i popoli lodavano il parlamento del prudente consiglio, i baroni sorgevano in maggior credito pel favor dell'opinione. La regina, che si recava a diminuzione di potenza il favore acquistato dal parlamento e dai baroni, mal volentieri sopportava questa variazione. Medici, o che il facesse da se, perchè sapeva che e come Napolitano, e come aderente alla regina, aveva perduta la grazia dei Siciliani, o che Carolina gliel comandasse, rinunziò alla carica di ministro delle finanze. Creossi in sua vece il principe di Trabia, come Siciliano, per conciliare: s'intendeva piuttosto di commercio che di stato. Piacque un tempo, dispiacque fra breve, perchè pensava a tôrre le spese inutili, ed a formare migliori ordini per la camera. Intanto le tasse a mala pena si riscuotevano, ogni cosa in ruina. Per ultimo rimedio si chiamava un secondo parlamento. Diè maggiore agevolezza nel riscuotere le tasse; negò più grossi donativi: ogni promessa o minaccia della corte indarno; i baroni non si lasciarono piegare nè alle lusinghe delle parole, nè alle profferte d'onori: lo stato periva, e' bisognava uscirne. Un Tommasi chiamato nelle consulte regie trovò questi due rimedj: pagassesi una tassa dell'uno per centinajo del valsente di tutti i contratti, stromenti e carte private che si facessero dai particolari, e perchè nissuno potesse far fraude, si mandò ordine ai notaj, ed ai banchi pubblici di Palermo e di Messina, che avessero cura dell'esecuzione. L'altro trovato del Tommasi fu, che si vendessero alcuni beni stabili appartenenti a luoghi pii, a possessori forestieri, ed alla religione di Malta: perchè la vendita non riuscisse vana per mancanza di avventori, si facesse per mezzo di lotto. Non fu consentaneo alle speranze l'effetto dei due decreti; perchè essendo gli umori mossi e l'opinione avversa, i rimedj si cambiavano in veleni. Primieramente la nazione recandosi a dispetto e ad oltraggio un atto, che stimava essere arbitrario e contro gli ordini della constituzione, fece risoluzione, che tutti gli atti privati, come vendite di beni sì stabili che mobili, affitti, pigioni, pagamenti, e tutt'altro contratto, dove la natura del negozio il permettesse, di buona fede e senza rogito di notajo si facessero. Quanto al lotto, malgrado del guadagno ingordo che vi si poteva fare, nissuno accorse alle polizze, e riuscì vano il tentativo. Tanto quei popoli amarono meglio pericolare nelle sostanze e rinunziare al lucro, che sottoporsi ad una tassa, che riputavano illegale e contraria agli statuti del regno, onorata risoluzione dei Siciliani. La regina dispensò le polizze ai suoi cortigiani, magistrati, partigiani ed aderenti, debole sussidio in tanta angustia.

Questa condizione non era tale, che lungo tempo potesse durare senza variazione. La regina non rimetteva dal solito procedere, da lodarsi per costanza, da biasimarsi pei mezzi e pel fine. I baroni instavano, nè erano uomini da non usar bene il tempo. Gl'Inglesi ci mettevano la mano, perchè vedevano che gli andamenti di chi reggeva precipitavano le cose in favor dei Francesi per la mala soddisfazione dei popoli; e giacchè avevano pruovato che i consigli dati alla regina non avevano prodotto frutto, si erano risoluti a prevalersi della nuova inclinazione d'animi che era sorta. Tutti volevano comandare, regina, Inglesi, baroni, chi per superbia, chi per interesse, chi per desiderio di regolate leggi. In questo nacque un accidente, dal quale doveva avere la sua origine il cambiamento delle Siciliane sorti. Fecersi avanti i baroni, cui più muovevano il fastidio dell'imperio Caroliniano, e la voglia di veder ridotto a migliore forma il governo, e si appresentarono con una rimostranza al re, supplicandolo della rivocazione dei due decreti, come contrarj alla constituzione Siciliana fino allora inviolata nel diritto di porre le contribuzioni. Portarono la medesima rimostranza alla deputazione del regno, la quale dal parlamento eletta, sedeva secondo i Siciliani ordini, tra l'una tornata e l'altra dal parlamento. Capo di questa mossa fu il principe di Belmonte. La regina, che non era donna da lasciarsi sopraffare dai venti contrarj, non solamente non si piegò a questo assalto dei baroni, ma persuase ancora al re, che gli facesse arrestare e condurre in luogo, dove fosse loro mestiero di pensar ad altro piuttosto che a rimostrare. Furono arrestati, condotti in varie isole, serrati in prigioni diverse, e trattati con sevizia cinque dei primarj baroni del regno, che furono quest'essi: il principe di Belmonte sopraddetto, i principi d'Aci, di Villarmosa, di Villafranca, e il duca d'Angiò. Parlossi anche nelle più segrete consulte della regina, che si uccidessero: i suoi aderenti più stretti, credendo di andarle a versi, domandavano la morte loro. Ma Medici, col quale principalmente ella restringeva i suoi consigli, contraddisse, allegando, che un fatto tanto grave sarebbe certamente occasione di rivoluzione.