Free

Il Volto della Morte

Text
Mark as finished
Font:Smaller АаLarger Aa

CAPITOLO VENTISETTE

Zoe aveva già messo la cintura di sicurezza e stava battendo i piedi con impazienza quando Shelley chiuse la chiamata. La loro vettura tornò in vita, ruggendo, e si avviarono lungo la strada, con il GPS già intento a calcolare il percorso più rapido e a suggerire a Shelley di svoltare alla fine della strada, con voce robotica.

“Gli ho detto di non lasciar partire il treno,” disse Shelley. “Non arriverà mai qui.”

“Non importa,” rispose Zoe, stringendosi più saldamente alla cintura. “L’assassino ha preparato qualcosa. La ragazza morirà all’ora in cui il treno è programmato per passare da queste parti, anche se non dovesse mai partire. Ora sappiamo che i binari non sono stati manomessi. Deve esserci qualcosa sul treno stesso.”

Le labbra di Shelley erano diventate una linea sottile e dura, premute in maniera così forte che i bordi stavano diventando bianchi. “Lo so,” disse. “Abbiamo poco meno di due ore e mezza per trovarla, scoprire quale sia la trappola e farla uscire.”

Zoe tirò fuori il cellulare dalla tasca. “Chiederò rinforzi. Artificieri e altri specialisti che sapranno meglio di noi cosa fare.”

Le ruote divorarono i chilometri, con Shelley che mantenne sempre il tachimetro oltre i centosessanta all’ora, indipendentemente dal tipo di strada che, a quell’ora del mattino, era deliziosamente tranquilla, quasi del tutto sgombra. L’unico autocarro che avevano sorpassato ad alta velocità aveva rivolto loro un colpo di clacson, ma il suono si era interrotto in un silenzio confuso non appena erano passate anche le due auto della polizia di stato.

Zoe strinse talmente forte la cintura di sicurezza e la maniglia della portiera che le dita diventarono quasi bianche. Il suo stomaco era sottosopra, ma avrebbe preferito morire piuttosto che dire a Shelley di rallentare. La vita di Aisha dipendeva ormai da quanto fossero veloci a trovarla.

Shelley frenò di colpo a un’angolazione del tutto errata nel parcheggio del deposito ferroviario, e Zoe uscì barcollando dalla vettura, facendo un respiro profondo per rimettersi in sesto. Era a pochi passi alle spalle di Shelley mentre quest’ultima correva in direzione dell’enorme struttura del deposito, la quale presentava imponenti aperture munite di binari per l’entrata e l’uscita di numerosi treni.

Un uomo di un metro e sessantacinque centimetri, con capelli sottili e una grossa pancia, era in piedi vicino a uno degli ingressi e sfogliava frettolosamente un mucchio di carte. Dal fatto che indossasse una giacca invernale sopra quello che sembrava essere un pigiama, Zoe capì che si trattava dell’uomo che avevano svegliato perché le raggiungesse.

“Smith?” urlò Shelley, avvicinandosi.

Lui alzò lo sguardo, confermandolo, quindi agitò le carte. “Sto cercando di identificare il treno. Qui dice che dovrebbe essere nell’hangar sei.”

Zoe sollevò lo sguardo, osservando le dimensioni del posto mentre entravano. Binari e treni si perdevano in lontananza. Contò nove hangar all’ingresso del deposito, e da questa angolazione riuscì a capire che si estendevano in profondità per almeno sessanta vagoni. Diversi treni in ciascun hangar.

“Faccia strada,” gli disse semplicemente Shelley, e lui si voltò e si incamminò davanti a loro, continuando a consultare gli appunti.

Il sesto hangar era abbastanza lontano da far loro perdere minuti preziosi, e in più Smith dovette ricontrollare e confrontare le piantine per accertarsi che quello fosse il treno giusto.

“Ok, è questo,” disse. “Servizio di trasporto merci. Trentasei vagoni. Ognuno di essi è sigillato con un portellone individuale, ma questo è per il carico. La maggior parte di essi non ha finestrini.”

Zoe imprecò, osservando la lunghezza del treno. Trentasei vagoni senza finestrini. Impossibile guardare all’interno senza mettersi in pericolo.

“Quali vagoni ce li hanno?” domandò Shelley.

“Eh, vediamo… la locomotiva, il sesto vagone, il sedicesimo e l’ultimo.”

Zoe si rivolse agli agenti che le avevano seguite all’interno, ansimanti dopo aver attraversato di corsa il deposito ferroviario. “Controllate prima quelli. Se vedete qualcosa, comunicatelo immediatamente.”

Annuirono e scattarono nuovamente di corsa, tutti pienamente consapevoli del fatto che si trattasse di una questione di vita o di morte. Un agente per ogni vagone. In qualche modo, erano riuscite a trovare il giusto rapporto di persone da portare con loro.

Il rapporto: questo fece riflettere Zoe. I vagoni con i finestrini: questa cosa aveva importanza, no? Uno, sei, sedici, trentasei. Una differenza che raddoppiava ogni volta. Cinque, poi dieci, quindi venti vagoni a separare quelli che ne erano provvisti.

Perfetto, si trattava del treno giusto.

“Fra quanto tempo arriveranno gli specialisti?” chiese Zoe.

“Forse trenta minuti, o poco più,” rispose Shelley, stringendo il ciondolo dorato a forma di freccia che portava al collo in maniera così forte che, quando tolse la mano, Zoe ne notò l’impronta sul palmo. “Li solleciterò. E chiamerò un’ambulanza, nel caso ne avessimo bisogno.”

Quanto tempo ci sarebbe voluto per ispezionare ogni vagone? Una volta arrivati gli specialisti, avrebbero avuto meno di due ore per analizzare e controllare i trentadue sprovvisti di finestrini. Meno di due ore per essere abbastanza meticolosi da avere la certezza che nessun agente sarebbe morto aprendo il portellone.

Troppo poco tempo.

Zoe si scervellò, muovendosi avanti e indietro tra il loro treno e quello adiacente. La sua mente esaminava le varie possibilità. L’istinto le diceva che i vagoni che avrebbero potuto controllare subito non sarebbero stati quelli giusti. Il loro uomo non l’avrebbe resa così semplice. Non avrebbe mai rischiato che qualcuno potesse dare un’occhiata attraverso un finestrino e accorgersi della presenza di qualcosa che non faceva parte del carico.

Doveva esserci qualcosa, un indizio che le suggerisse quale vagone controllare. Era impossibile che ne avesse scelto uno a caso, non il loro assassino. Non un apofenico.

Il vagone centrale? Sembrava troppo scontato e, inoltre, con un numero pari di carrozze, non ce ne sarebbe stata una esattamente al centro. Il centro sarebbe caduto tra due carrozze. Ce n’erano trentasei, quindi forse un multiplo di sei? Ma quale significato aveva il sei per l’assassino? Questo numero non era mai saltato fuori in precedenza. Non rientrava nella sequenza di Fibonacci, come neanche il trentasei, del resto. Cosa gli passava per la mente?

“Mi dica tutto ciò che sa sul treno,” disse Zoe, voltandosi nuovamente verso il responsabile del deposito.

Lui balbettò per un istante, sfogliando le sue carte. “Ok, allora, è stato prodotto nel 2008,” disse. “È arrivato qui nel 2013.”

Otto, tredici. Quei numeri si fissarono ai margini della mente di Zoe, ma lei fece cenno all’uomo di continuare.

“Elevata resistenza, carichi pesanti. È progettato per il trasporto di materiali a basso rischio di tossicità. Effettua da due a sei viaggi al giorno, in base ai tempi di carico e alle prenotazioni. In media attraversa quaranta stazioni a viaggio senza mai fermarsi, sebbene a volte le consegne possano essere più locali o possano anche essere divise tra diverse stazioni.”

Zoe alzò una mano per fermarlo. Adesso lui stava soltanto parlando, un disturbo insignificante. Non c’erano numeri, nessuno schema in ciò che le stesse dicendo. Le medie non avevano alcun peso. Aveva bisogno di dati reali. Di dettagli.

Ma se i dati non si trovavano nel sistema utilizzato per programmare gli orari del treno, allora chi avrebbe potuto accedervi? Sicuramente non un civile. Non uno qualsiasi che doveva scegliere un treno pur non essendo un esperto. No, qui c’era qualcosa di più semplice, una qualche sorta di schema visibile dall’esterno, che avrebbe attirato l’attenzione dell’assassino.

Otto, tredici. Zoe capì per quale motivo questi numeri le fossero rimasti impressi. Erano numeri dalla sequenza di Fibonacci. Uno, uno, due, tre, cinque, otto, tredici, ventuno, trentaquattro …

Quei numeri dettavano le dimensioni e i punti della spirale di Fibonacci. E quello era il numero delle sue vittime. Trentaquattro, l’uomo all’esterno della fattoria. Ventuno, la donna che camminava sul ciglio della strada. Tredici, il parcheggio. Otto, Linda, l’addetta alla stazione di servizio. Cinque, Rubie, nel bosco. Tre, la dipendente della fiera. Due, se stesso, che giaceva in una pozza di sangue alla tavola calda. E uno, Aisha Sparks, intrappolata nel vagone del treno.

Tenendo conto del fatto che il primo e il secondo punto della spirale erano contraddistinti dallo stesso numero, e quindi dallo stesso luogo, lui avrebbe dovuto uccidere lì una volta sola. Il che voleva dire … cosa? Che la vittima sarebbe stata nel primo vagone?

L’agente incaricato di controllarlo aveva già effettuato una ricerca accurata e aveva proseguito. Nella cabina del conducente non c’era nulla, e se invece il killer avesse iniziato il conteggio dal primo vagone merci, avrebbe accorciato quello schema ordinato di vagoni muniti di finestrini. O lo avrebbe addirittura rovinato, perché il vagone doveva contare. I finestrini non potevano essere ignorati.

Non era il primo vagone. Doveva pensare ancora, pensare al di là la sequenza …

No. Non al di là.

Doveva soltanto capovolgerla.

Non c’era tempo da perdere in spiegazioni.

Doveva correre.

CAPITOLO VENTOTTO

La ragazza sarebbe stata nella trentaquattresima carrozza, per simbolizzare il completamento della spirale.

 

Shelley, dietro, stava urlando, ma Zoe continuò a correre a perdifiato, superando velocemente un paio di attoniti poliziotti che si stavano dirigendo dai propri vagoni verso la coda del treno. I due compresero e iniziarono a seguirla. Alle sue spalle, Zoe riuscì a contare tre paia di passi e capì che le stavano dietro. Di lato sfrecciavano le carrozze, contate così facilmente che sembrava avessero i numeri dipinti sulla fiancata.

Trentaquattro vagoni rappresentavano una distanza piuttosto lunga. Abbastanza lunga da impedirle di distinguere il vagone giusto dalla testa del treno, snellito e nascosto dalle regole della prospettiva. Ma non appena si avvicinò, riuscì a vederlo. Un altro vagone,simile a tutti gli altri. Nessun colore o contrassegno particolare. Ma era quello.

Zoe si fermò di colpo, il cuore le batteva in gola; cercò di riprendere fiato. I suoi occhi esaminarono ogni dettaglio della carrozza, cercando cavi che non vi appartenessero, graffi di vernice mancante, qualsiasi cosa fuori dall’ordinario. Saltò oltre i respingenti del treno, più alti rispetto alle sue ginocchia, per controllare l’altra fiancata, girandovi attorno con determinazione.

“È questo?” domandò Shelley, anche lei a corto di fiato.

Zoe annuì drasticamente. “Lei è qui dentro. È la sequenza.”

Shelley sembrò capire, nonostante non avesse ricevuto una vera e propria spiegazione, e si mise in ginocchio per guardare sotto il vagone. “Non vedo nulla di sospetto.”

Intanto, gli agenti si erano disposti istintivamente a ventaglio, riorganizzandosi in tutti e quattro i punti del vagone, creando una sorta di proprio schema. Zoe apprezzò il loro impegno, ma la stavano soltanto ostacolando. Qui nulla sarebbe stato scontato. Non era lo stile dell’assassino.

Si avvicinò al portellone della carrozza e ci battè sopra, appoggiando l’orecchio al metallo per ascoltare un’eventuale risposta. “Aisha? Riesci a sentirmi?”

Nonostante i suoi sforzi, non sentì nulla. Rimase immobile per secondi interminabili, respirando a malapena, sperando di sentire almeno un mormorio.

La ragazza non era cosciente, qualsiasi cosa lui le avesse fatto. Zoe immaginò un cappio estremamente affilato che si stringeva lentamente e inesorabilmente attorno alla gola di una ragazzina sedata, e rabbrividì, allontanandosi dal portellone.

Ma quello cos’era? Si avvicinò di nuovo, inspirando profondamente dal naso. C’era … qualcosa … una sorta di strano odore nell’aria …

Gas. Era gas.

Shelley si avvicinò a lei e premette il naso sulla sottile fessura della chiusura della porta, annuendo. “Lo sento.”

“Dovremmo aspettare l’arrivo dell’altra squadra,” disse nervosamente uno degli agenti. “Potrebbe esplodere.”

“Soltanto se introduciamo una scintilla,” rispose Zoe, scuotendo la testa. Riusciva a stento a respirare al pensiero di Aisha lì dentro, con il gas che stava lentamente soffocando i suoi polmoni. “Per quanto ne sappiamo, l’assassino non era un esperto nell’uso di questo tipo di materiale. Ci sono buone probabilità che abbia organizzato tutto in modo errato. È anche probabile che la ragazza stia morendo, adesso.”

“O che vada incontro a danni irreparabili, se anche riuscissero a farla uscire da lì ancora viva,” convenne Shelley, inclinando la sua testa per rivolgere uno sguardo spalancato verso Zoe. “A cosa stai pensando?”

Zoe non stava affatto pensando. Aveva già preso la sua decisione, ed era quella più ovvia. “State tutti indietro,” disse. “Indietro. Apro il portellone.”

“Dovremmo aspettare gli specialisti,” ripetè uno degli agenti.

“Non ho nessuna intenzione di perdere altro tempo,” insistette Zoe. “La vita di quella ragazza è in pericolo. Sono un vostro superiore. Spostatevi.”

Gli agenti si spostarono velocemente senza ulteriori discussioni. Dovevano aver visto la determinazione sul suo viso e sapevano che non avrebbe accettato un no come risposta.

“Anche tu,” aggiunse Zoe, rivolgendosi a Shelley. “Mettiti al riparo. Nel caso dovesse esplodere.”

“Non te lo lascio fare da sola. Abbiamo iniziato tutto questo insieme.”

“Tu hai una figlia.” Zoe cercò di mantenere la sua voce ferma e regolare, ma stava perdendo la pazienza. “Shelley, devo aprire questa porta, adesso. Torna con gli altri.”

Shelley si morse il labbro e abbassò lo sguardo. La luce che scintillava nei suoi occhi quando lo rialzò doveva sicuramente essere uno scherzo dei listelli che componevano il soffitto del deposito; non erano assolutamente lacrime, quelle che si stavano raccogliendo. “Resto qui,” disse. “Ti copro le spalle.”

Proprio come gli agenti erano stati costretti a cedere alla determinazione di Zoe, adesso era lei a trovarsi di fronte la volontà irremovibile di Shelley. Avrebbe potuto discutere, ma i minuti stavano passando. “Resta a lato del portello. Sarai protetta in parte dall’esplosione. Tieniti pronta a muoverti non appena esco.”

Zoe fece un bel respiro e attese che il rumore di passi si allontanasse. Quindi, alzando gli occhi al soffitto per pregare silenziosamente un Dio della cui esistenza non era neanche sicura, mise la mano sulla maniglia del portellone e la girò.

Si aprì facilmente: le serrature elettroniche erano disattivate, a treno fermo. Il sibilo del gas che fuoriusciva dal vagone divenne chiaro non appena fece un passo all’interno, aspettando che i suoi occhi si adeguassero all’oscurità oltre il riquadro di luce garantito dal portellone aperto.

Quindi la vide.

Zoe scattò in avanti e appoggiò le mani sulla gola di Aisha Sparks, provando sollievo nel sentire un debole battito sotto le dita. Nell’angolo opposto rispetto alla porta c’era la bombola del gas, contrassegnata da simboli di colore rosso cupo che suggerirono a Zoe di uscire da lì il più velocemente possibile. Era grande, abbastanza da poter stimare che l’aria del vagone avrebbe avuto una concentrazione molto elevata di gas, una volta svuotata.

Si avvicinò, cercando una valvola o qualunque cosa potesse essere girata per interrompere la fuoriuscita di gas. Le sue dita individuarono un piccolo foro sul lato della bombola, e il ronzio si interruppe non appena vi premette sopra. Cercando a tentoni qualcosa per chiuderlo, Zoe iniziò a sentirsi già un po’ stordita e rinunciò; sarebbe stato compito degli specialisti. Non aveva gli strumenti per tappare il foro, e con un’apertura così piccola non si sarà neanche svuotata a metà.

Zoe notò la presenza di corde alle caviglie e ai polsi di Aisha quando avanzò per prenderla in braccio. La ragazza pesava soltanto quarantasette chili con tutti i vestiti; era priva di sensi, e lo rimase anche quando Zoe la sollevò da terra.

Uscì, muovendosi maldestramente con il suo carico e richiudendo il portellone con un gomito per far sì che il gas rimanesse all’interno, almeno per il momento. Quindi gridò, la sua voce riecheggiò nel deposito dagli alti soffitti. “Ho la ragazza! Dov’è quell’ambulanza?”

EPILOGO

Zoe non fu per niente sorpresa di trovare un cielo grigio e un clima piuttosto fresco al rientro a casa. L’aereo atterrò con un crepitio delle ruote, e i passeggeri liberarono il solito, leggero, collettivo sussulto di sorpresa, che si trasformò in sollievo per il fatto che il velivolo fosse rimbalzato sulla pista in tutta sicurezza. Smise di guardare fuori dal finestrino e iniziò a raccogliere le proprie cose, prendendo un blocchetto di appunti dalla tasca sul sedile di fronte.

“Aspetta un momento,” disse Shelley accanto a lei, fermandola con un gesto. Si allungò, faccia a faccia, e prese una delle mani di Zoe. “Volevo soltanto dirti una cosa.”

Zoe si irrigidì per un istante, ma subito dopo si rilassò. Da qualsiasi altra persona si sarebbe aspettata il solito discorso: che non avrebbero più lavorato come partner dopo questo caso e che avrebbero preso strade diverse. Ma non da Shelley.

Zoe aveva smesso da tempo di vedere Shelley come un imprevisto temporaneo, l’ennesimo partner che l’avrebbe abbandonata da un giorno all’altro. Le aveva dimostrato che sarebbe rimasta al suo fianco per molto tempo. E Zoe aveva la netta sensazione che la loro collaborazione sarebbe andata benissimo.

“Nessuno verrà a sapere delle tue capacità, non da me,” continuò Shelley, stringendo la sua mano. “Non fino a quando non sarai pronta, se mai dovesse accadere. Manterrò il tuo segreto.”

“Ti ringrazio,” rispose semplicemente Zoe. A volte avrebbe potuto difettare in quanto a convenevoli, ma li conosceva. Le era grata, profondamente e sinceramente. Shelley doveva saperlo. Era tutto ciò che importasse.

E, per la prima volta, allontanandosi dalla sua partner in aeroporto, Zoe capì quanto desiderasse lavorare di nuovo con lei.

***

Zoe entrò in casa con un sospiro di sollievo. Un forte miagolio proveniente dalla cucina e la vista di Eulero con la coda alzata, le confermarono che non era l’unica a essere felice di essere tornata.

Lasciò cadere la valigetta all’ingresso, promettendo a se stessa che se ne sarebbe occupata più tardi. La prima cosa da fare era dar da mangiare ai gatti, quindi preparare la cena per sé e poi fare una doccia. E magari dormire per le successive ventiquattro ore.

Dopo aver versato il cibo per gatti nelle scodelle, Zoe grattò Pitagora dietro le orecchie fino a quando lui non allontanò la mano con una zampata spazientita, desideroso soltanto di mangiare senza fastidi. Rimase in ginocchio, guardandoli per un momento.

Anche se i suoi gatti le volevano bene soltanto per il fatto che desse loro da mangiare, almeno non era più persona non grata altrove. Ben lungi dall’essere il fallimento contro cui i suoi superiori l’avevano messa in guardia, i metodi di Zoe erano stati riscattati. Aisha Sparks se l’era cavata con sintomi leggeri causati dal sedativo che le era stato somministrato e dalla fuga di gas, ma aveva dovuto comunque trascorrere la notte in ospedale per accertamenti. Era stata dimessa prima che Shelley e Zoe finissero di svolgere le ultime pratiche e salissero a bordo dell’aereo.

Con la prova che il killer avesse davvero preso di mira la fiera, e che ad intralciare la strada fosse stato soltanto l’errore forense di ipotizzare il colore della sua auto, era ormai chiaro a tutti che Zoe ci avesse visto giusto. L’ultima chiamata da parte del comandante era stata decisamente diversa da quella precedente: tutta lodi e congratulazioni. Nelle riunioni interne l’avevano descritta come un agente brillante con poteri di deduzione superiori alla norma, e la stampa si stava già crogiolando con i problemi mentali dell’assassino. Ma i pettegolezzi sarebbero svaniti, come anche le lodi. C’era sempre un altro caso.

Ma stavolta qualcosa era andata diversamente; qualcosa era cambiato, dentro di lei, le aveva dato una scossa. Prima d’ora non si era mai confrontata direttamente con un serial killer, scoprendo di avere così tante cose in comune. Da questo confronto, Zoe si era rialzata più forte, la fiducia in se stessa era sopravvissuta alla tempesta. Era una brava persona. Anche la voce di sua madre, che ancora le riecheggiava in testa, non avrebbe potuto fare nulla per cambiare questa verità.

Parte della vittoria era sicura dipendesse direttamente dall’altra “prima volta” legata a questo caso: la prima partner a scoprire le sue capacità e non fuggire. Gli altri non le avevano neanche fatto domande; si erano semplicemente spaventati e l’avevano abbandonata, incapaci di gestire le idiosincrasie di Zoe e il fatto che lei fosse sempre quella più veloce a risolvere il caso. Shelley era diversa. Zoe comprese subito quanto avesse fatto la differenza; quanto le avesse fatto crescere la fiducia in sé.

Forse, se si fosse confidata subito con Shelley, sarebbe stata in grado di fermare prima lo schema e salvare altre vite. Era quello il suo unico rimpianto.

Lasciò da soli i gatti e si alzò, andando verso il freezer per tirare fuori qualcosa di veloce da infilare in forno. Fece una smorfia quando allungò un po’ troppo il braccio, sentendo uno strattone, la contrazione dei nuovi punti. Ci avrebbe messo un po’ per abituarsi. Il dottore le aveva detto che probabilmente sarebbe rimasta una brutta cicatrice, considerando quanto tempo avesse lasciato passare prima di farsi visitare.

Zoe si diresse verso la sagoma familiare del suo computer, accendendolo. Quantomeno scrivere non avrebbe richiesto nessuno sforzo particolare, nulla per cui la ferita avrebbe potuto risentirne. Aspettando di cenare, entrò nel suo account di posta elettronica, controllando eventuali aggiornamenti.

 

In effetti c’era un messaggio, sepolto sotto le dieci e-mail spam e le solite richieste ufficiali di recarsi dallo psicologo del Bureau per il fatto di aver sparato con la propria arma. Ma questo non se lo aspettava. L’avvocato di immobili, John. L’uomo con il quale aveva avuto quell’imbarazzante appuntamento un po’ di tempo fa, anche se le sembrò fossero passati mesi; quello che si era riempito di pane e le aveva augurato ogni bene alla fine della serata, senza però prometterle un seguito. Non immaginava si facesse vivo di nuovo, eppure c’era il suo nome, mostrato dallo stesso sito d’incontri attraverso il quale lui l’aveva contattata la prima volta.

Ciao Zoe, spero tu stia bene. Continuo a pensare al nostro appuntamento. In quell’occasione sono stato un po’ spento; distratto da un caso, a dire il vero. Cosa ne dici di concedermi una seconda possibilità?

Zoe ci pensò su, facendo anche attenzione a un eventuale trillo del timer del forno,e lesse il suo messaggio più volte. Che strano. Pensava fosse stata lei a rovinare l’incontro, e invece lui stava pensando la stessa cosa. Forse la colpa era di entrambi al cinquanta percento. Lei avrebbe anche preso il novantotto percento, perché era sicuramente meglio del cento percento.

Il carattere a dieci punti continuò a fissarla, fino a quando lei non si voltò con decisione, afferrando il cellulare e componendo un numero. Squillò quattro volte prima che qualcuno rispondesse.

“Pronto?”

Zoe esitò. Quasi non si aspettava una risposta. “Salve, parlo con la dottoressa Lauren Monk?”

“Sono io. Come posso aiutarla?”

Zoe si fece forza. Era arrivato il momento di fare il salto. Non era minimamente pronta a concedersi un secondo appuntamento con un uomo, men che meno con uno che, in effetti, avrebbe potuto rappresentare un’interessante prospettiva. Avrebbe dovuto lavorare su se stessa, e sui demoni che la tenevano ancora sveglia di notte, se avesse voluto andare ragionevolmente avanti.

E adesso che aveva una partner fissa, sarebbe stato meglio, per il bene di Shelley, se lei avesse imparato a essere anche un po’ meno irritabile.

“La dottoressa Applewhite mi ha consigliato di rivolgermi a lei. Mi chiamo Zoe Prime. Vorrei fissare un incontro.”

Segnando la data sulla sua agenda, Zoe sperò semplicemente che non la chiamassero per un nuovo caso prima che avesse la possibilità di recarsi all’appuntamento.