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Il Killer della Rosa

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From the series: Un Mistero di Riley Paige #1
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Il Killer della Rosa
Il Killer della Rosa
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Is reading Caterina Bonanni
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Capitolo 34

Quando la fattoria apparve davanti a lei, Riley si sentì agitata in un modo inatteso. Era come se fosse finita in un quadro ad olio, che rappresentava un'ideale America rurale. La casa in legno era intimamente immersa in una piccola valle. Era vecchia, ma ovviamente era tenuta in condizioni decenti.

Pochi fabbricati annessi erano posti nelle vicinanze. Non erano in una buona condizione come la casa. Nemmeno una grande stalla vicina, che sembrava sul punto di crollare. Ma quelle strutture sembravano tutte più affascinanti proprio perché fatiscenti.

Riley parcheggiò a breve distanza dalla casa. Controllò la sua pistola nella fondina, e uscì dall'auto. Respirò l'aria pulita della campagna.

Non dovrebbe essere così bello qui, pensò Riley. Ed era sicura che la cosa avesse perfettamente senso: sin dalla conversazione avuta col padre, aveva ipotizzato che l'assassino potesse vivere in uno splendido posto.

Ma si accorse che lì c'era un tipo di pericolo lì a cui non si era preparata.  Era il pericolo di venire cullata dal profondo fascino del paesaggio, lasciandosi cogliere di sorpresa. Dovette rammentare a se stessa che un orribile male coesisteva con tanta bellezza. Sapeva che stava per ritrovarsi faccia a faccia con il vero orrore del luogo. Ma non aveva idea di dove l'avrebbe trovato.

Si voltò e si guardò attorno. Non vide alcun furgone posteggiato da quelle parti. Dirk era là fuori, che guidava, o il furgone era all'interno di uno dei fabbricati annessi o nella stalla. L'uomo poteva essere ovunque, naturalmente, in uno dei fabbricati forse. Ma decise di controllare la casa per prima.

Un rumore la spaventò; ai margini del suo campo visivo notò un rapido movimento. Ma si trattava solo di alcune galline che gironzolavano lì. Diverse galline beccavano a terra, nelle vicinanze. Non si muoveva altro, se non fili d'erba alti e foglie, agitati da una brezza gentile. Lei si sentì terribilmente sola.

Riley si avvicinò alla fattoria. Arrivata agli scalini, tirò fuori la pistola, poi raggiunse il portico. Bussò alla porta. Non ci fu alcuna risposta. Bussò di nuovo.

“C'è una consegna per Dirk Monroe” lei gridò. “Mi occorre una firma per lasciarla".

Ancora nessuna risposta.

Riley uscì dal portico, e cominciò a girare intorno alla casa. Le finestre erano posizionate in alto e non riusciva a guardare in casa; constatò che anche la porta sul retro era chiusa a chiave.

Tornò allora a quella principale e bussò di nuovo. Ancora una volta un assordante silenzio le rispose. La serratura della porta era di un vecchio tipo, semplice da aprire. Nella sua borsa, aveva un piccolo kit per forzare le serrature, pronto per situazioni del genere. Sapeva che la chiave inglese avrebbe fatto al caso suo.

Rimise la pistola nella fondina e trovò la chiave inglese. La inserì nella serratura, poi tentò di girarla, finché la serratura cedette Quando girò la maniglia della porta, questa si spalancò.  Estraendo nuovamente la pistola, entrò in casa.

L'interno aveva pressoché la stessa qualità pittoresca del paesaggio esterno. Era una perfetta casetta di campagna, pulita e ordinata. C'erano due grandi sedie morbide in soggiorno, con centrini di stoffa bianca ricamati all'uncinetto sui braccioli e sullo schienale.

Per un istante si sorprese ad aspettare che nella stanza arrivasse una amichevole pronto ad accoglierla e ad invitarla a mettersi a proprio agio. Ma, mentre Riley studiava i particolari, quella sensazione svanì. Quella casa in realtà non sembrava affatto vissuta. Tutto era fin troppo ordinato.

Ricordò le parole del padre.

Vuole ricominciare tutto daccapo. Vuole ritornare al principio.

Quello era esattamente ciò che Dirk stava cercando di fare proprio lì. Ma stava fallendo, perché, in qualche modo, la sua vita era stata disperatamente imperfetta sin dall'inizio. Senz'altro, lui lo sapeva e ne era tormentato.

Invece di trovare il modo per tornare ad un'infanzia più felice, era rimasto intrappolato in un mondo irreale, un'esposizione che poteva essere adeguata in qualche museo storico. Appeso alla parete del soggiorno, c'era anche un lavoro di ricamo a punto croce.  Riley si avvicinò per guardarlo meglio.

Il piccolo ricamo raffigurava una figura femminile in abito lungo, con in mano un parasole. Sotto di lei, erano ricamate delle parole …

Una Bellezza del Sud è sempre

gentile

educata

elegante …

La lista proseguiva, ma Riley non si degnò di leggere il resto. Aveva  compreso quello che le interessava. Il ricamo non era niente di più che un desiderio. Ovviamente, quella fattoria non era mai stata una piantagione. Nessuna cosiddetta bellezza del sud ci aveva mai vissuto, sorseggiando tè dolce e dando ordini alla servitù.

Ma quella fantasia doveva essere cara a qualcuno che viveva lì, o che ci aveva vissuto in passato. Forse quel qualcuno possedeva una bambola, che forse rappresentava una bellezza del sud in un libro di fiabe.

Le orecchie tese ad ascoltare ogni suono, Riley si mosse rapidamente nel corridoio. Da un lato, un'entrata ad arco si apriva in una sala da pranzo. Quello le fece acuire ancora di più la sensazione di essere nel passato. La luce filtrava attraverso le tende di pizzo appese alle finestre. Un tavolo e delle sedie erano posizionate alla perfezione, come nell'attesa dell'arrivo di un familiare. Ma, come tutto il resto, sembrava che la sala da pranzo non fosse stata usata da molto tempo.

Una grande cucina all'antica era dall'altro lato del corridoio. Anche lì ogni cosa era al proprio posto, e non c'era alcun segno di utilizzo recente.

Davanti a lei, alla fine del corridoio, c'era una porta chiusa. Appena Riley si mosse in tale direzione, un mucchio di foto incorniciate catturò la sua attenzione. Le esaminò mentre le scrutava. Sembravano comuni foto di famiglia, alcune in bianco e nero, altre a colori. Erano antiche, forse risalivano al secondo precedente.

Erano il tipo di foto che si può trovare in qualsiasi casa: genitori, nonni, bambini, e la tavola nella sala da pranzo apparecchiata per delle festività. Molte delle immagini erano sbiadite.

Una foto, che non sembrava risalire a più di due decadi addietro quella di uno scolaro, rappresentava uno studente ben curato, con un nuovo taglio di capelli e un sorriso rigido e forzato. La foto sulla destra raffigurava una donna che abbracciava una ragazza in un abito frivolo.

Poi, con un leggero stupore, Riley notò che la ragazza e il ragazzo avevano esattamente lo stesso viso. Quindi erano lo stesso bambino. La ragazza con la donna non era affatto una femmina, ma lo scolaro con indosso un vestito e una parrucca. Riley sussultò. L'espressione del viso del ragazzo travestito le suggerì che questo non era un innocuo travestimento scherzoso. In quella foto, il sorriso del bambino era angoscioso, maligno; esprimeva ira e persino odio.

L'ultima foto mostrava il ragazzo a circa dieci anni. Aveva in mano una bambola. La donna era dietro il ragazzo e sorrideva, esprimendo una gioia del tutto malriposta, incomprensibile. Riley si curvò, per vedere meglio la bambola e sussultò.

Eccola, una bambola che corrispondeva all'immagine sul libro nel negozio. Era proprio la stessa, con lunghi capelli biondi, brillanti occhi blu, le rose e i nastri rosa. Anni prima, la donna aveva dato quella bambola al bambino. Doveva essersi molto raccomandata, aspettandosi che se ne occupasse e l'amasse.

L'espressione distorta sul volto del ragazzino le raccontò la vera storia. Lui non poteva fingere un sorriso stavolta. Il suo volto era segnato da disgusto e odio per se stesso. L'immagine catturava il momento in cui qualcosa si era rotto dentro di lui, per non riaggiustarsi mai più. Proprio in quell'istante, l'immagine della bambola si era installata nella sua giovane e triste mente. Non era riuscito a distaccarsene, mai più. Era un'immagine che stava ricreando con le donne uccise.

Riley si allontanò dalle foto. Si spostò verso la porta chiusa alla fine del corridoio. Deglutì forte.

Ci siamo, pensò.

Ne era certa. Quella parola era la barriera tra la bellezza morta, artificiale e irreale di quella casa di campagna e l'orribile realtà che si celava dietro di essa. Quella stanza era il luogo in cui  la falsa maschera di felice normalità era crollata una volta per sempre.

Stringendo la pistola nella mano destra, lei aprì la porta con la mano sinistra. La stanza era buia, ma persino nella luce soffusa proveniente dal corridoio, vide che era completamente diversa dal resto dell'abitazione. Il pavimento era cosparso di detriti.

Trovò un interruttore sul lato della porta e accese la luce. Una singola lampadina svelò un incubo, di fronte a lei. La prima cosa che la sua mente registrò fu un tubo di metallo collocato al centro di quello spazio, inchiodato dal pavimento fino al soffitto. Macchie di sangue sul pavimento facevano capire che cosa era accaduto lì. Grida ignorate di donne riecheggiavano nella sua mente, quasi soffocandola.

Non c'era nessuno all'interno della stanza. Riley si preparò ed entrò. Le finestre erano sbarrate, e la luce del sole non riusciva a filtrare. Le pareti erano rosa, dipinte con immagini di libri illustrati. Ma erano sfigurate da macchie orrende.

Mobili di una cameretta per bambine, sedie decorate e sgabelli fatti davvero per una ragazzina, erano sparpagliati, capovolti e rotti. Parti di bambole erano state lanciate ovunque, arti amputati, teste e ciocche di capelli. Piccole parrucche per bambole erano inchiodate alle pareti.

Col cuore agitato da paura e rabbia, perché ricordava la sua stessa prigionia fin troppo bene, Riley si addentrò ancora di più nella stanza, ipnotizzata dalla scena, dalla furia e dall'agonia che lei percepiva lì.

Ci fu un improvviso fruscio dietro di lei, e improvvisamente, le luci si spensero.

 

Riley, colta dal panico, si voltò, preparandosi a usare la pistola, ma perse la sua occasione. Qualcosa di duro e pesante le colpì forte un braccio. La sua arma finì per perdersi nell'oscurità.

Riley provò a schivare il colpo successivo, ma un oggetto rigido e pesante fendette l'aria e la colpì violentemente alla testa; cadde e sbatté contro un angolo buio della stanza.

Il colpo continuò a rimbombare nella sua testa. Scintille si palesarono nell'oscurità della sua mente. Era stata ferita e lo sapeva. Lottò per restare cosciente, ma era come se la sabbia le scivolasse tra le dita.

Eccola di nuovo, quella fiamma bianca e sibilante, brillava nel buio. A poco a poco, la luce svelò chi la stava trasportando.

Stavolta era la madre di Riley. Era proprio di fronte a lei, la ferita fatale, causata dal proiettile, nel bel mezzo del petto, il volto pallido e morente. Ma quando la madre parlò, Riley sentì la voce di suo padre.

“Ragazza, stai sbagliando tutto".

Riley fu investita da uno stordimento nauseante. Tutto continuava a girare. Il mondo non aveva alcun senso. Che cosa stava facendo sua madre con in mano quel tremendo strumento di tortura? Perché parlava con la voce di suo padre?

Riley gridò. “Perché non sei Peterson?”

Improvvisamente, la fiamma si estinse, lasciando soltanto delle tracce persistenti di luce spettrale.

Di nuovo, lei sentì la voce paterna riecheggiare nella profonda oscurità.

“Questo è il tuo problema. Vuoi estirpare tutto il male del mondo, in una volta sola. Devi fare una scelta. Un mostro alla volta".

Con la testa che ancora le girava, Riley provò a decifrare quel messaggio.

“Un mostro alla volta” lei mormorò.

Era cosciente a tratti. Notò che la porta era leggermente aperta, e intravvide una sagoma maschile stagliarsi contro la luce fioca del corridoio. Non riuscì a visualizzarne il volto.

L'uomo aveva qualcosa in mano, un piede di porco, ora comprese. Sembrava scalzo. Doveva essere stato da qualche parte nella casa per tutto il tempo, aspettando il momento giusto per entrare in azione, cogliendola di sorpresa.

Il braccio e la testa le dolevano terribilmente. Sentì un calore, appiccicoso e liquido, sul lato del cranio. Stava sanguinando davvero tanto. Cercò di restare cosciente.

Sentì poi l'uomo ridere, e quella risata non era familiare. I suoi pensieri divennero disperatamente confusi. Non era la voce di Peterson, così crudele e beffarda in quel buio. E dov'era la sua torcia? Per quale motivo tutto era così diverso?

Provò ripetutamente a ripetersi la verità della sua situazione.

Non è Peterson, si disse. E' Dirk Monroe.

Sussurrò forte a se stessa: “Un mostro alla volta.”

Quel mostro era intenzionato ad ucciderla.

Graffiò intorno al pavimento. Dov'era la sua pistola?

L'uomo le si avvicinò, brandendo il piede di porco e fendendo l'aria con movimenti rapidi. Riley riuscì ad alzarsi quasi in piedi, prima che lui la colpisse alla spalla, facendola di nuovo cadere a terra. Lei si preparò ad un altro colpo, poi sentì il suono del piede di porco cadere sul pavimento.

Qualcosa si era avvolta intorno al suo piede sinistro e la tirava. L’uomo l'aveva legata al piede e la stava trascinando lentamente lungo il pavimento, in mezzo ai rifiuti e verso il tubo al centro della stanza. Era lì che le donne avevano sofferto e poi erano morte.

Riley provò a riflettere. Lui non l'aveva spiata o scelta. Non l'aveva neanche mai vista acquistare una di quelle bambole che così tanto detestava. Nonostante ciò, lui intendeva trarre vantaggio dal suo arrivo. Ne avrebbe fatto la sua prossima vittima. Era determinato a farla soffrire. Sarebbe morta soffrendo.

Ma, ciò nonostante, Riley colse uno spiraglio di speranza, giustizia sarebbe stata fatta. Bill e una squadra sarebbero arrivati presto. Che cosa avrebbe fatto Dirk quando l'FBI sarebbe piombato in casa? Lui l'avrebbe uccisa naturalmente, e all'istante. Non le avrebbe mai concesso di venire salvata. Ma era comunque condannato.

Ma perché Riley doveva essere la sua ultima vittima? Lei vide i volti delle persone care, April, Bill, persino suo padre. Ora Riley sapeva di condividere con lui un legame tenace di saggezza oscura, una comprensione del male illimitato nel mondo. Lei pensò al lavoro da svolgere ogni giorno, e lentamente, una nuova determinazione nacque in lei. Non si sarebbe lasciata trascinare da lui facilmente. Sarebbe morta alle sue condizioni, non a quelle del serial killer.

Graffiò intorno al pavimento con la mano. Trovò qualcosa di solido, non una parte di una bambola, ma qualcosa di duro e appuntito. Afferrò il manico del coltello. Era senz'altro l'arma che aveva utilizzato sulle quattro donne.

Il tempo rallentò. Si rese conto che Dirk aveva appena passato la corda intorno al tubo centrale. Ora, stava avvicinando il piede al palo.

Le dava le spalle, troppo certo che lei fosse già indifesa. La sua mente era concentrata sul fatto che la stesse legando al palo e su che cosa poi le avrebbe fatto.

La sua imprudenza diede a Riley un momento, e un momento soltanto, per agire. Da prona sul pavimento, riuscì a mettersi seduta. Lui se ne accorse e cominciò a voltarsi, ma lei si mosse più rapidamente. Puntò il piede  destro, rimasto libero, sotto di sé e si sollevò per affrontarlo.

Gli piantò il coltello nello stomaco, poi lo estrasse e lo accoltellò ancora e ancora. Lo sentì urlare e lamentarsi. Continuò ad accoltellarlo follemente, finché non svenne.

Capitolo 35

Riley aprì gli occhi. Aveva dolore in tutto il corpo, specialmente alla spalla e alla testa. Il viso di Bill le si palesò davanti. Stava forse sognando?

“Bill?” lei chiese.

Lui sorrise, sembrando sollevato. Le stava tenendo qualcosa di morbido premuto sulla testa, per bloccare l'emorragia.

“Bentornata” le disse.

Riley si rese conto di essere ancora nella stanza, con il palo vicino. Fu assalita da un momento di panico.

“Dov'è Dirk?” lei domandò.

“E' morto” Bill rispose. “Gli hai dato quello che meritava.”

Riley ancora si domandava se fosse un sogno.

“Devo vedere” lei ansimò. Riuscì a girare la testa. Vide Dirk steso sul pavimento, a faccia in giù,  in una pozza del suo stesso sangue. Aveva gli occhi aperti. Imperturbabili.

Bill le girò la testa, verso di lui.

“Non provare a muoverti” lui disse. “Hai una brutta ferita. Starai bene. Ma hai perso molto sangue.”

Uno spasmo di nauseante capogiro le comunicò che Bill aveva ragione. Riuscì a sussurrare cinque parole, prima di perdere di nuovo conoscenza.

“Un mostro alla volta.”

Capitolo 36

L'Agente Speciale Brent Meredith aprì la spessa busta di carta da pacchi che conteneva le foto e i rapporti scritti con evidente soddisfazione. Riley provava la stessa soddisfazione, ed era certa che fosse così anche per Bill e Flores. Erano tutti seduti al tavolo nella sala conferenze dell'Unità d'Analisi Comportamentale. Se solo Riley non fosse stata bendata e ferita in ogni parte del corpo, il momento sarebbe stato perfetto.

“Quindi, la madre di Dirk voleva una figlia anziché un figlio” Meredith disse. “Ha provato a trasformarlo in una bellezza del sud. Questo era probabilmente soltanto la punta dell'iceberg. Soltanto Dio sa che cos'altro ha dovuto passare lui da bambino".

Bill si poggiò allo schienale.

“Non mostriamogli troppa simpatia” lui disse. “Non tutti quelli che hanno avuto un'infanzia triste diventano sadici assassini. Lui ha fatto le sue scelte”.

Meredith e Flores annuirono in segno d'accordo.

“Ma qualcuno sa che cosa è successo alla madre di Dirk?” Riley chiese.

“Stando ai registri, è morta cinque anni fa” Flores rispose. “Il padre è sparito molto prima,  quando Dirk era ancora piccolissimo".

Un sobrio silenzio piombò sul gruppo. Riley capiva esattamente che cosa significasse. Era in presenza di tre persone, le cui vite erano dedicate alla distruzione del male. Anche nella loro soddisfazione, lo spettro di un altro male, e molto altro lavoro da svolgere, incombevano su tutti loro. Non sarebbe mai finita. Non per loro.

La porta si aprì ed entrò Carl Walder. Era davvero sorridente.

“Avete tutti svolto un ottimo lavoro” lui disse. Mise pistola e distintivo di Riley sul tavolo, verso di lei. “Questi sono suoi".

Un sorriso sarcastico si palesò sulle labbra di Riley. Walder non si sarebbe scusato, e nemmeno avrebbe ammesso le sue colpe. Ma le stava bene. Riley non avrebbe saputo come rispondere, in caso di una ammissione di colpa. Probabilmente, non avrebbe scelto parole eleganti.

“Ad ogni modo, Riley” Walder disse. “Il Senatore mi ha chiamato stamattina, e invia i suoi migliori auguri per la sua pronta guarigione ed i suoi ringraziamenti. Sembra essere orgoglioso di lei".

Ora Riley dovette reprimere la propria gioia. Quella telefonata, ne era certa, era esattamente il motivo per cui Walder le aveva restituito pistola e distintivo. Ricordò una delle ultime cose che Newbrough le aveva detto.

“Lei non è il lecchino di nessuno".

La stessa cosa non si poteva certo dire di Carl Walder.

“Passi presto dal mio ufficio” Walder disse. “Parleremo di promozione. Una posizione amministrativa, forse. La merita”.

Senza aggiungere altro, Walder lasciò l'ufficio. Riley sentì che tutti i colleghi facevano un sospiro di sollievo, per il fatto che se ne fosse andato tanto in fretta.

“Dovresti pensarci, Riley” osservò Meredith.

Riley esplose in una risatina.

“Riesci davvero a vedermi in un lavoro amministrativo?”

Meredith alzò le spalle.

“Hai fatto più che il tuo dovere. Hai svolto più lavoro tu fino ad oggi della maggior parte degli agenti in una vita intera. Forse dovresti diventare istruttrice. Saresti bravissima a preparare i nuovi, con la tua esperienza e la tua intuizione. Che cosa ne pensi?”

Riley ci rifletté su. Che cosa avrebbe davvero potuto insegnare ai giovani agenti? L'istinto era tutto quello che aveva, e, per quanto ne sapesse, l'istinto non poteva essere insegnato. Non si poteva in alcun modo preparare qualcuno a seguire l'istinto. Che l'avesse o meno.

Inoltre, voleva davvero che qualcuno avesse il suo stesso istinto? Viveva terrorizzata dai suoi stessi pensieri, perseguitata dalla sua cupa capacità di penetrare in una mente malvagia. Era una cosa difficile con cui fare i conti.

“Grazie” disse Riley, “ma mi piace quello che faccio.”

Meredith annuì e si alzò dalla sedia. “Che giornata. Riposatevi ora".

L'incontro si concluse, e Riley e Bill si ritrovarono a camminare insieme silenziosamente lungo il corridoio. Lasciarono l'edificio e si sedettero insieme, su una panchina fuori. Passarono diversi minuti. Nessuno di loro pareva sapere che cosa dire. Eppure c'era molto di cui parlare.

“Bill” lei chiese con esitazione, “pensi che potremo essere di nuovo partner?”

Dopo una pausa, Bill disse: “Che cosa pensi?”

Si voltarono e si guardarono negli occhi. Riley vide il dolore persistente sul volto di Bill. La ferita che gli aveva inflitto, con la sua telefonata da ubriaca, non era ancora guarita. Ci sarebbe voluto molto tempo.

Ma ora sapeva qualcosa di più: qualcosa che era vero da sempre ma che non aveva mai osato ammettere neppure a se stessa. Il suo legame con Bill era intenso e forte, ed era quasi certo che lui ricambiasse questo sentimento. Non era più un segreto che potessero nascondere entrambi. Non c'era modo di tornare com'erano prima.

La loro unione lavorativa era giunta al termine. Lo sapevano entrambi. Nessuno dei due osava dirlo ad alta voce.

“Vai a casa, Bill” Riley disse gentilmente. “Prova a sistemare le cose con tua moglie. Devi pensare ai tuoi figli".

“Lo farò” Bill disse. “Ma spero di non perderti, voglio dire, la tua amicizia.”

Riley dette un colpetto alla mano dell'uomo e sorrise.

“Per quello non c'è pericolo” lei disse.

Si alzarono entrambi dalla panchina, e si diressero alle rispettive auto.

*

“Che hai in mente, mamma?” April chiese.

Riley ed April erano state in soggiorno a lungo quella sera, a guardare la televisione. Ma in precedenza, quella stessa sera, Riley aveva raccontato alla figlia tutto quello che era accaduto, o almeno tutto ciò che riteneva di poterle dire.

Riley esitò prima di rispondere alla domanda di April. Ma sapeva che doveva parlare ad alta voce. Inoltre, April già sapeva. Non era un segreto. Era soltanto qualcosa che Riley non poteva scuotersi via dalla mente.

 

“Oggi ho ucciso un uomo” Riley disse.

April la guardò con amore e preoccupazione.

“Lo so” lei disse. “Come ci si sente?”

“E' difficile da esprimerlo a parole” Riley disse. “E' terribile. E' qualcosa che nessuno ha il diritto di fare, mai, davvero. Ma talvolta è l'unica scelta che ti resta".

Riley rimase in silenzio. “Sento dell'altro” lei poi disse. “Non sono sicura che dovrei dirlo".

April rise leggermente. “Pensavo che non saremmo più state in silenzio, mamma".

Riley restò immobile e disse: “Mi sento viva. Che Dio mi aiuti, mi fa sentire viva. E da oggi in poi, so che qualsiasi donna che entrerà nel negozio di Madeline e comprerà una bambola, non sarà mai più in pericolo. Sono solo … ecco, sono solo felice per loro. Sono contenta di averlo ottenuto, anche se quelle donne non lo sapranno mai".

Riley strinse la mano di April.

“E' tardi, e domani devi andare a scuola” lei disse.

April baciò la madre sulla guancia.

“Buonanotte, mamma” la ragazza disse, poi andò in camera sua.

Riley percepì una nuova ondata di dolore e sfinimento. Si rese conto che avrebbe fatto meglio ad andare a letto, o avrebbe rischiato di addormentarsi sul divano.

Si tirò su e si diresse in camera da letto. Era già in camicia da notte, e non passò neanche in bagno a lavarsi i denti. Voleva soltanto andare a letto.

Quando entrò in camera e accese la luce, qualcosa attirò immediatamente la sua attenzione. Il cuore cessò quasi di battere.

Lì, nel suo letto, c'era qualcosa di strano.

Era una manciata di ciottolini.