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La plebe, parte IV

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– Bel guadagno di codice! Bel tesoro di leggi! esclamò, avvicinando però ancora più la bocca all'orecchio del suo uditore. Leggi rivoluzionarie che sanciscono l'uguaglianza nelle cose civili come nelle criminali fra il figliuolo del ministro e il figliuolo del portagerle. Sono un'assurdità. Quella di voler fare il legislatore liberale, il riformatore in preteso vantaggio del popolo, è una manìa di Carlo Alberto…

Queste parole erano pronunciate a voce tanto bassa che niun altro orecchio le poteva cogliere, fuor quello a cui erano susurrate, pur tuttavia il comandante de' carabinieri si guardò dintorno con qualche turbamento, e credette suo obbligo di servo fedele del Re e di cortigiano, protestare con un'esclamazione:

– Oh oh! non parlate a questo modo, conte. Il torto non vogliamo darglielo all'augusto Sovrano; ma se c'è qualche cosa da rimproverare, ascrivetelo a quella mano di avvocatuzzi e di legulei, onde pur troppo il buon re si lascia aggirare, tutta gente bacata dalle massime empie e sovversive della perfida rivoluzione francese.

– E di questa guisa si rovina lo Stato e la Monarchia. Togliete a questa ed a quello la base solida e il sostegno continuo e robusto d'una nobiltà rispettata e potente, e per forza li vedrete cascare in balìa delle passioni popolari e, come si suol dire oggidì, della democrazia.

– Giusto!

– E come volete avere un'aristocrazia costituita potente, che continui di generazione in generazione l'opera tradizionale, se coll'abolizione dei maggioraschi le togliete i mezzi di vivere; se con una fatale uguaglianza vous la ravalez al livello della plebe?

– Giustissimo!

– Nei tempi antichi della nostra monarchia, quando si aveva un buon governo e si applicavano le buone massime…

– Prima degli orrori della empia rivoluzione francese: soggiunse Barranchi, il quale contro quella rivoluzione aveva l'odio più accanito che possa albergare nell'animo d'un generale.

– Ebbene, se si fosse presentato un caso simile all'attuale, non si sarebbe messo a repentaglio nessuna di quelle cose per cui il popolo deve avere venerazione, e la giustizia medesima ci avrebbe guadagnato.

– Sicuro! Prima di tutto non c'era quell'imprudente invenzione della pubblicità dei processi.

– Ma che processo? Non se ne sarebbe fatto. Un individuo della fatta di quel Quercia lo si sarebbe preso, e senza che nessuno ne sapesse e ci avesse a mettere il becco lo si sarebbe mandato a lavorare sotto lo staffile in qualche luogo remoto della Sardegna, dei più malsani, dove non avrebbe potuto menar la lingua con nessuno, e dove non avrebbe tardato a liberare del tutto il mondo e la società della sua scellerata persona.

Il conte Barranchi mandò un sospiro di rincrescimento.

– È vero: diss'egli; ma ora codesto non si può far più.

– Si potrebbe fare qualche cosa d'equivalente.

– Oh come?

Langosco abbassò ancora più la voce.

– Se quell'uomo scomparisse portando seco tutti i suoi segreti?

Barranchi s'inalberò.

– Oh! esclamò scotendo il capo: farlo… (esitò un momento)… sparire?

– Colla fuga: s'affrettò a soggiungere il marito di Candida. Lo scellerato va in America, e non se ne intende mai più a parlare. Questa razza di gente mantiene siffatte promesse… tanto più che ci ha tutta la sua convenienza. Una buona somma, un guardiano di carceri comperato, un capo-guardiano che chiuda gli occhi, e l'affare è fatto… senza che nessuno sia compromesso.

Barranchi seguitava a scuotere la piccola testa colla stretta fronte corrugata e l'aria pensierosa. Il conte di Staffarda parlò ancora per un poco non senza calore; e il colloquio finì di poi con una stretta di mano.

Carlo Alberto aggirandosi, come fu detto, pel salone, venne presso al luogo dov'era il marchese di Baldissero e gli fece un cenno di saluto improntato di speciale benevolenza. Il marchese s'affrettò ad accostarsegli.

– La vedo con piacere, marchese; disse il Re. Ho desiderio di parlarle.

Queste parole fecero intorno a S. M. un cerchio di spazio vuoto, i cortigiani indietrando tutti le loro persone ricurve alla distanza di due metri: entro questo cerchio stette il marchese in mossa dignitosamente rispettosa, aspettando le parole reali.

Il Re cominciò a domandare di quel giovane che egli credeva ancora figliuolo del Valpetrosa, da lui conosciuto ed apprezzato nel fatal tempo della cospirazione del 1821; ed apprese così dallo zio di Virginia e la scoperta dell'errore che aveva fatto ritener per tale quel trovatello, e la malattia sopravvenuta a quest'infelice.

– Tutto ciò è molto strano; disse il Re. Ed ora che conta Ella di fare riguardo quel giovane?

– La sua intelligenza e il suo carattere non sono mutati per questo; e siccome io l'aveva scelto a mio segretario prima di supporlo mio congiunto…

Carlo Alberto lo interruppe con un gentile sorriso d'approvazione.

– Così conta tenerselo anche adesso. Ha ragione. Ma ce lo disputeremo, marchese; e se quel giovane ha un merito reale, può dirsi che la sua fortuna è fatta. Casa di Savoia ha creati i Caissotti e i Bogini…

Tacque ad un tratto, e il suo sguardo vago e velato si diede ad errare intorno con certa esitanza. Pareva che la sua mente fosse passata improvviso ad altre idee, che volesse parlar d'altri argomenti, ma non trovasse di subito le parole. Il marchese stette silenzioso aspettando.

– A proposito di cose strane: disse poi dopo una breve pausa: sa, marchese, che me ne avviene una abbastanza curiosa? Ha inteso parlare dell'arresto di quella banda di malfattori e del suo capo, certo Quercia, che si spacciava per medico e viveva da elegante?

– Sì, Maestà.

– Ebbene, ricevetti una lettera anonima, la quale pretende che personaggi alto locati e di molto influsso nelle cose pubbliche intendono salvare quel cotale e mi prega a nome della giustizia di non voler permettere una simil cosa. Ne ho parlato col Ministro dell'interno e col Guardasigilli: ed ho inteso come sembri in verità che quel miserabile abbia avute intime relazioni con una signora di nobilissimo casato, e che in pubblico dibattimento possano venire a galla certe circostanze da suscitare scandalo gravissimo e recare disdoro soverchio ad una delle più antiche ed illustri famiglie del nostro Regno e delle più benemerite del nostro Trono. In tali emergenze alcuni penserebbero che ragioni di alta politica, dovrebbero far passar sopra allo stretto rigore della privata giustizia, e che quindi sarebbe opportuno impedire lo scandalo…

S'interruppe ancora, come aveva fatto poco prima, quasi le parole gli fossero mancate; ma questa volta il suo sguardo stette fisso con una certa vivacità sulla nobile fisionomia del marchese. Questi era troppo diplomatico e d'ingegno troppo penetrativo per non comprendere subito che il Re desiderava sapere il suo parere in proposito, e non voleva in pari tempo esplicitamente domandarglielo; e siccome avvisò di presente, onesto e coscienzioso com'era, essere suo dovere esporre ciò che credeva il giusto ed il vero, senz'altro indugio rispose con un certo calore:

– Costoro, a mio debole parere, s'ingannano. Lasciamo il diritto costituendo, dove si potrebbe discutere, se in una monarchia come questa la nobiltà che più strettamente circonda e difende il trono, e deve accrescergli splendore, non s'abbia a guarentire di privilegi, ed anche nell'esercizio della giustizia non debba avere sostegno di giudici speciali, di procedure apposite ed eziandio di provvedimenti eccezionali. Ma innanzi all'attuale legislazione non è più permesso il dubbio. Le leggi emanate da V. M. vogliono che tutti sieno uguali: e le leggi quando ci sono bisogna osservarle, e tanto più chi è a capo dei popoli, se si vuole che i popoli medesimi le rispettino. In qualunque modo sia impegnata nel processo la nobil famiglia cui V. M. fece allusione, – ed io lo rimpiango profondamente – qualunque scandalo ne debba avvenire, io credo che bisogna assolutamente che giustizia si faccia.

Il Re aveva spenta la vivacità del suo sguardo, e stava in contegno attento, riflessivo, quasi melanconico. Stette un poco prima di parlare e poi disse sorridendo freddamente:

– Ella ha espresso precisamente la mia opinione. Godo di essere così bene d'accordo con Lei, di cui il senno, l'esperienza e lo zelo per la pubblica cosa dànno al parere tanto valore.

Fece di nuovo una piccola pausa, poi soggiunse con fermezza:

– Giustizia sarà fatta, e nessuno vi si potrà sottrarre.

Chi avesse detto al marchese di Baldissero che colle sue parole confermando in quella risoluzione lo spirito prima esitante del Re, egli condannava a salire sul patibolo il figliuolo di sua sorella! S'egli avesse saputo codesto, certo, per quanta passione ne avrebbe avuto, non sarebbe stato diverso il suo consiglio; ma sicuramente se avesse conosciuta la brutta verità, quella sera non si sarebbe recato a Corte, e probabilmente Gian-Luigi avrebbe potuto esser salvo. Ma il destino aveva voluto che Maurilio non avesse ancora potuto parlare.

Il Re, continuando il suo giro, vide il conte Barranchi, il quale, separatosi da Langosco, veniva accostandosi, pianeta o meglio satellite di Corte, al centro di attrazione. Ad un legger cenno fattogli da S. M., il generale s'affrettò ad accorrere e stare innanzi alla faccia pallida di Carlo Alberto, come il caporale che si presenta a ricevere un ordine dal capitano.

– Generale, gli disse il Re in modo che nessun altro potesse udire: ho una raccomandazione da farle.

Barranchi s'inchinò con una mossa delle braccia sollecita e vibrata che voleva dire:

– Comandi e conti su di me.

– Mi è riferito che si tenti sottrarre alla giustizia dei nostri tribunali quell'elegante capo di assassini, il cui arresto fa molto onore alla sua Polizia.

Barranchi tornò ad inchinarsi in atto di ringraziare, ma in realtà per nascondere il turbamento che quelle parole avevano in lui prodotto.

 

– Ordinerò al ministro degl'interni, continuava il Re, che procuri intorno a quel tristo una sorveglianza speciale, e prego anche Lei di voler coadiuvare colla sua Polizia ad impedire ogni evasione. Se l'accusato fuggisse sarebbe un disdoro per l'autorità del Governo e della legge; ed io ne proverei un particolare rammarico.

Il generale non trovò altro mezzo di rispondere che quello di fare un terzo inchino. Il Re passò.

– Sacrebleu! esclamò fra sè il conte Barranchi, quando rimpettì di nuovo il suo corpo serrato nella montura, drizzandolo dal profondo inchino cortigianesco. Che cosa dirà ora quel povero Langosco?

Si pose subito in cerca di costui, e non tardò a ritrovarlo.

La faccia del marito di Candida, poichè il generale ebbe parlato, si fece scura come una mattinata nebbiosa d'inverno.

– Sentite: diss'egli poi, mettendo proprio le labbra sul padiglione dell'orecchia dell'amico; si tratta di qualche cosa più che la vita o la morte. Può sempre tornar di giovamento l'aver un uomo a noi obbligato da gratitudine eterna e capace di qualunque cosa per noi. Sapete la favola: anche il sorcio tornò utile al leone; ed io sono qualche cosa più che un sorcio… Non avreste che da lasciar fare.

La lettera anonima che era pervenuta nelle mani del Re, denunziatrice delle intenzioni di potenti personaggi di salvar Quercia, era stata scritta da Barnaba.

CAPITOLO XXVI

Due giorni dopo, alla mattina, verso le otto e mezzo, che in quella stagione invernale è affatto di buon'ora, una donna modestamente vestita di scuro, con un fitto velo sulla faccia che ne celava compiutamente le sembianze, presentavasi all'uscio della Zoe e domandava con voce tremola ed esitante di parlare alla celebre cortigiana. A costei tale visita era stata annunziata la sera precedente da un bigliettino di carta finissima, delicatamente profumato, il quale diceva:

«Una donna, che facilmente indovinerete chi sia, ha bisogno di parlarvi nell'interesse di quella persona che più vi sta a cuore. Siate sola domattina dalle otto alle nove, e si verrà da voi.»

La Leggera non aveva menomamente esitato a riconoscere la calligrafia della contessa Candida; ed aveva dato ordine che quando la mattiniera visitatrice si presentasse, venisse subito introdotta.

Candida entrò tremante, che appena se poteva reggersi sulle gambe, nella camera da letto sontuosa e disordinata della cortigiana. Essa, la donna titolata, la superba signora, la fiera dama di Corte, presentavasi poco diverso che imploratrice, nella casa d'una disprezzata femmina, cui avrebbe un tempo, incontrandola, coperta delle più manifeste mostre del suo disdegno! Zoe giaceva ancora sotto l'elegante cortinaggio, mezzo seduta sui cuscini candidissimi, ornata il capo, il petto, le mani di ricchissime trine sulla fina biancheria della sua cuffia e del suo giaco da notte; teneva il gomito del braccio destro affondato nel cedevole guanciale, più candido che neve, a cui si puntava, e sorreggeva alla mano la testa: di sotto alla cuffia scappavano ribelli le ciocche ricche e pesanti delle sue fulve chiome, e parevano matasse d'oro filato che le cascassero sul seno e sulle spalle; lo sguardo vivo, ardente, quasi selvaggio, stava intento nel volto d'una persona che sedeva presso alla sponda del letto. Questa persona era una giovine donna, la quale, vedendo entrare la contessa, si alzò, si trasse in là d'un passo e saettò la nuova venuta con uno sguardo curioso, sollecito, avido, quasi feroce. Candida non s'era inoltrata che di poco nella stanza; le forze glie ne mancavano; si appoggiò ad un mobile, e stette un momento prima di riaver tanto di respiro da poter pronunciare una parola. Di sotto il velo intanto ella guardava, quasi sgomenta, un po' corrucciata, turbatissima per mille contrarie sensazioni, quelle due donne, le quali con aria presso che ostile fissavano lei.

Fu la Zoe a rompere quello strano ed impaccioso silenzio.

– La si avanzi e s'accomodi: disse asciuttamente accennando colla mano il seggiolone da cui s'era levata pur allora la giovane che le stava in compagnia.

– Vi avevo pregata d'esser sola: disse una voce fioca ed agitata di dietro il fitto velo che copriva le sembianze della contessa.

– Maddalena non è di troppo: rispose la Zoe che prendeva evidente piacere della confusione e del turbamento di quella nobil donna: anzi ci è necessaria… È una nostra compagna: soggiunse dopo un poco, pesando con intenzione sulle parole: è una nostra complice.

Candida si riscosse e rabbrividì: un vivo rossore le salì alla faccia, cui per fortuna non lasciò scorgere l'abbassato velo: un'acre vergogna l'assalse per quella complicità; sentì d'essersi abbassata al grado di quelle disgraziate. Non aggiunse parola su ciò e venne a sedere sulla poltrona che Zoe le aveva additata.

Maddalena, che non aveva cessato di squadrare con avida curiosità la velata contessa, e che ora trovavasi alle spalle di lei, fece il giro della poltrona, e venne a piantarsi in faccia a Candida seduta, le braccia incrociate al petto, e il suo sguardo più impertinente che mai. Ella cui l'amore comune per Quercia aveva piegata a subita simpatia verso la cortigiana, sentiva ora contro quella nobile dama, che si avventurava ad amare il medesimo uomo, un impulso d'odio, una gelosia rabbiosa, una smania crudele di umiliarla e mortificarla. Per la prima era forse la comunanza d'origine, la somiglianza delle condizioni che le ispiravano una specie di fraterna benevolenza; e la decisione di carattere, la risolutezza delle maniere, la violenza dei sentimenti e la forza della volontà che contraddistinguevano la cortigiana valsero ad imporne a quella natura aspra, selvaggia e rubesta del pari. Per quella signora invece, che apparteneva ad altra classe sociale, che godeva di tanti beni a lei povera negati assolutamente, e tanto più grandi nella sua fantasia e desiderabili, l'istinto di proletario, l'odio naturale del povero verso il ricco, che erano in Maddalena, non potevano altro sentimento ispirare fuor che la gelosia e l'invidia. La Maddalena adunque si piantò in faccia alla sua nobile rivale in quella mossa che ho detto, e con accento che accompagnava perfettamente l'insolenza del contegno, disse:

– Or be', questa signora la non vorrà degnarsi di mostrarci le sue bellezze?

Candida trasaltò sul suo seggiolone e fece un atto come per alzarsi e partirsene. Zoe represse in fretta un sorriso che le era venuto alle labbra carnose e procaci, fece un atto verso la contessa per pregarla di non muoversi, e disse, colla severità d'una compagna e non di una superiore, alla giovane plebea:

– Taci, Maddalena.

Poi volgendosi a tutte due con un tono di compagnevole dimestichezza, di cui la misera Candida sentì tutta l'onta e lo sdegno, ma cui dovette reprimere, e non fu questa lieve pena per lei, la cortigiana soggiunse:

– Siamo qui e dobbiamo starci come tre buone amiche le quali vogliono tutte tre ed ardentemente una cosa sola. Parliamoci adunque come tali. Signora contessa, dal suo bigliettino ho capito che Ella aveva qualche cosa da apprenderci o da suggerirci per la salute del nostro caro Luigi. Parli dunque Ella prima, e ci rallegri, se è possibile, con delle buone nuove, che in noi è uguale al suo, se non maggiore, l'interesse per quella diletta persona. Dopo di Lei avrò io qualche cosa da comunicarle eziandio, che forse non sarà meno interessante di quanto Ella sta per dirci.

La contessa ringoiò lo sdegno, l'onta e tutta la fierezza che si sollevava in lei, e fattasi forza parlò. Per capire il colloquio che ebbe luogo fra quelle tre donne, diciamo brevemente ciò che era a ciascuna di esse avvenuto il giorno innanzi.

Candida, secondo l'accordo preso con suo padre al concerto di Corte, erasi da lui recata nella mattina, ed avevagli esposta a suo modo la difficile, pericolosa e fatale condizione in cui ella si trovava, e la necessità da questa nascente della fuga del medichino. Il barone La Cappa, sbalordito da tutto ciò, non sapeva trovar fuori un modo qualunque di effettuare questa fuga. Fu Candida che glie lo suggerì: una somma di certa entità per comprare qualcheduno, una mezza parola di qualche persona autorevole che inducesse taluni a chiudere gli occhi. Il padre della contessa, animato dal suo amore per la figliuola, si lasciò indurre a promettere la somma che sarebbe occorsa; e si pose senza indugio in giro per trovare quel certo affidamento di cecità nella complice tolleranza di qualche potente. Si rivolse addirittura al Ministro e spiegò tutta l'arte diplomatica di cui era capace per arrivare all'argomento senza accostarlo pericolosamente di fronte: ma fu appena nei paraggi dell'isola di sì difficile approdo, che il Ministro (a cui il Re già aveva fatto quell'intimata che la sera innanzi era piovuta sul Comandante della Polizia), gli rese inutile ogni bordeggiare, dichiarandogli seccamente che essendo nati sospetti che si volessero far tentativi per una evasione di quel famoso assassino, s'erano dati ordini opportuni affine non solo di impedire ogni riuscita di siffatti progetti, ma di levare ad ognuno qualsiasi velleità di tentarli. Il barone si partì mortificato, senz'aggiunger parola, e si recò dal Direttore generale delle carceri.

Il povero barone ebbe a toccar con mano in questa circostanza la differenza che passa nelle aure burocratiche fra un uomo in carica ed uno cascato nel limbo della giubilazione. Quando egli era capo d'ufficio, in tutto lo splendore della sua carriera, non si poteva immaginare mostre di deferenza e di zelo rispettoso che il barone non ricevesse da costui, nella anticamera del cui ufficio si presentava. Credeva egli per ciò, lo riteneva come una cosa certa ed un suo vero diritto, che a lui non sarebbe stato riserbato l'accoglimento d'un postulante qualunque, ma che ogni uscio gli si aprirebbe dinanzi come a padrone, in mezzo agli inchini degli uscieri, e il suo antico subalterno si sarebbe affrettato a venirgli incontro come si fa per reverenza ad un superiore. Non tardò ad accorgersi con grande sua mortificazione e dispetto che quella era una falsa lusinga: e ad eccezione degl'inchini degli uscieri, i quali erano troppo poca cosa per avere il coraggio e credersi il diritto dell'impertinenza contro un titolato, un decorato e tale che poco tempo prima li poteva far cacciare dall'impiego, in tutto il resto la sua aspettazione fu pienamente delusa. Il Direttore generale lo fece aspettare un quarto d'ora che all'orgoglio offeso del barone parve un tempo infinito; e quando lo ammise nel suo gabinetto, siccome l'argomento da affrontarsi era di così difficile e delicata natura che occorrevano circonlocuzioni, preparazioni oratorie e volteggiamenti di discorsi, il Direttore generale fece con garbo capire al suo visitatore che aveva molte occupazioni da sbrigare e pochi momenti da concedere. Il padre di Candida s'affrettò a toglier commiato, non senza lasciar vedere qualche po' di quel risentimento che aveva molto nell'animo; ma dalle fasi del discorso riportò, se non altro, per vantaggio, quello di apprendere che era Ispettore delle carceri, ov'era custodito Quercia, un cotale ch'egli nella sua lunga carriera amministrativa aveva potuto conoscer per bene, povero di sostanze e di moralità, ricco soltanto di famiglia e di bisogni. Avvisò tosto che questi era l'uomo di cui s'era fatto il Diogene cercatore, e con molte precauzioni perchè non fosse conosciuto il suo passo, si recò a trovarlo a casa sua.

Nel colloquio che ebbero, il corruttore ed il corruttibile, parlarono il meno chiaro che si potesse, menarono, come si suol dire, il can per l'aia, e si intesero perfettamente. L'Ispettore tenne alta la mercanzia, il barone lasciò capire che si sapeva valutarla al prezzo che si meritava: quegli accennò ai pericoli della sua condizione, alla facilità d'essere compromesso, questi fe' cenno della prudenza dei procedimenti, della guarentigia di cautele necessarie per tutti, eccetera, eccetera. Venutosi a mezzo ferro, il barone parlò della felicità di farsi proprietario e di comprar, per esempio, nel proprio paese un po' di terra, una casetta; ma l'altro lo interruppe nell'esposizione di quell'idillio, dicendo che il diventar proprietario gli avrebbe chiamato addosso l'attenzione e la malignità degl'invidiosi, e che perciò avrebbe preferito, quando gli piovesse dal cielo un capitale, impiegarselo in altro modo e farselo valere in segreto come ben avrebbe saputo. Il barone domandò per curiosità a qual somma si elevavano desiderii del suo interlocutore circa quel capitale: e l'altro, che stimò esser meglio domandare un'esagerazione, parlò di venti mila lire; La Cappa protestò che il signor Ispettore non avrebbe mai potuto trovare una tal somma, ma che invece la metà sarebbe stato probabile lo averla. L'Ispettore fece lo schizzinoso, e il padre di Candida simulò non voler più dir altro a questo proposito, cambiò discorso, e dopo un poco accennò andarsene; il tentato accompagnò il tentatore fino alla soglia, e là, ad un tratto, per dir così, a bruciapelo, con voce sommessa e parola ratta, disse:

 

– Dieci mila lire, sia: lascierò fare; ma ce ne vogliono cinque mila subito.

La Cappa tornò indietro e chiuse l'uscio della stanza in cui entrarono di nuovo.

– Le avrete stassera, disse; ma non basta lasciar fare; conviene anche suggerirci come fare.

– Bisogna rivolgersi al capoguardiano. So che cederà. Ma la capisce che non io posso trattare con lui. Abbia a questo oggetto qualche mandatario fidato… Io avrò una malattia che m'impedirà di esercitare la maggiore sorveglianza comandata. Il capoguardiano ne prenderà fiducia per agire secondo che si vuole… Ma conviene far presto.

Il barone di quella sera fece avere le cinque mila lire all'Ispettore e informò di tutto la figliuola. Per trattare poi con questo capoguardiano ci voleva qualcun altro: egli non voleva commettersi in sì bassa impresa. La contessa pensò che quell'ufficio lo potrebbe fare la Zoe e scrisse alla medesima il bigliettino che abbiamo visto.

Di più importanza ancora e meravigliosamente accordantisi per fare sperare un lieto successo coi fatti che conosceva la contessa erano quelli avvenuti a questo proposito alla cortigiana. Eccoli in breve.

La sera precedente si presentava al quartiere di Zoe uno sconosciuto, tutto accuratamente camuffato nel mantello, e chiedeva essere ammesso alla presenza della donna, alla quale, a lei sola, in proprie mani doveva rimettere certa carta. La cortigiana, senza la menoma esitazione lo faceva introdurre presso di sè, e sola con lui nel suo gabinetto lo invitava a spiegarsi sollecito, già sperando e indovinando che quel misterioso individuo le dovesse parlare di cose attinenti a Luigi.

E così era diffatti. Scioltosi dalle falde del mantello, quell'uomo lasciò vedere una faccia volgare e rozza, che era quella d'un guardiano delle carceri. Fu già detto come quella potente associazione di malfattori che chiamossi la cocca, e della quale forse vive ancora qualche rimessiticcio, avesse affigliati ed aderenti in varie parti ed in diverse condizioni sociali, così bene che anche negli uffici della pubblica sicurezza ed in grado non tanto inferiore eravene alcuno da cui partirono que' certi avvertimenti di cui il medichino non seppe approfittare. Ora la fortuna di Quercia volle che fra i guardiani a cui era affidata la custodia di un sì importante prigioniero fossevi, chiamato da poco tempo a prestar servizio in quelle carceri, uno di quei subalterni soci della trista setta, e quell'altro in superior grado costituito lo sapesse. È facile capire come, grazie a loro particolari segni di riconoscimento e mezzi particolari di corrispondersi e d'intendersi, anche senza parola viva, fra i componenti della cocca, il medichino e quel cotal guardiano si mettessero in rapporto, e il secondo si decidesse e promettesse di servire ciecamente il primo. Era dunque per mezzo di costui che già una prima volta Quercia aveva scritto poche righe alla Zoe, ed era questo medesimo ch'egli ora le mandava con una lettera in cui spiegava tutto il disegno da lui immaginato nella solitudine della sua carcere per riconquistare colla fuga la libertà.

Anche Gian-Luigi sapeva che il capoguardiano avrebbe acconsentito a favorire il loro intento dove se ne fosse compra con una buona somma la fedeltà al Governo che lo pagava poco. Quando la cosa fosse intesa con costui, bisognava procacciarsi delle false chiavi che aprissero la carcere del medichino, il cancello in ferro del pianerottolo, quello al fondo della scala. Nel corridoio a pian terreno esisteva una porticina che non si apriva mai, ora stata murata, la quale metteva nel cortile verso la Corte d'Appello, che allora si chiamava Senato; anche di questa porticina bisognava fabbricare le false chiavi, poi una data notte, ad una certa ora verso il mattino, quando è più silenziosa la terra e più pesante il sonno degli uomini, il capoguardiano avrebbe disposto le cose in guisa che i più zelanti e i più da temersi de' custodi fossero allontanati e il vegliare incombesse a quello che era addetto alla cocca. Questi avrebbe aperto pian piano la carcere di Quercia, i cancelli e la porticina del cortile, e per questa il medichino, vestito come un guardiano ancor egli, con abiti che il capo medesimo dei custodi gli avrebbe procurati, sarebbe venuto sotto l'atrio del palazzo della Curia maxima, dov'era facile aprire dall'interno il portone. Per scender le scale bisognava bene passare nella stanza del capoguardiano, ma questi avrebbe dormito d'un sonno di piombo. Una carrozza sarebbe stata aspettando nella vicina piazza Susina, ora di Savoia, e, appena salitovi il fuggitivo, di galoppo via fino a qualche sicuro ricovero lontano di città, dove si sarebbe fatto trovare armi, vestiti e mezzi di mascherare le proprie fattezze a Gian-Luigi, il quale giurava che una volta fuori dalle unghie della giustizia non avrebbe più lasciato che lo riafferrassero vivo a niun patto. Per ottenere le false chiavi, Quercia scriveva si cercasse di un certo Andrea, cui Maddalena, la serva di Pelone, conosceva per bene, come frequentatore di quella bettola, il quale non si sarebbe rifiutato di certo, mentre non era gran tempo, per un servizio che Gian-Luigi gli aveva reso, s'era protestato disposto a fare per lui qualunque cosa.

Il custode affiliato alla cocca già aveva preso le impronte di cera necessarie all'uopo e insieme colla lettera le recava alla Zoe, la quale lo congedava stimolandone con larga rimunerazione lo zelo. Non si trattava più che di procurarsi i denari occorrenti, e la cortigiana già pensava far capo per ciò al conte ed alla contessa Langosco, quando ricevette la letterina di quest'ultima, che preveniva i desiderii e le intenzioni della Leggera.

Giunto il mattino, Maddalena, che era necessario mettere a parte del segreto e mandare in traccia di quell'Andrea, fu mandata chiamare dalla Zoe; ed ecco di qual guisa avvenisse che quelle tre donne si trovarono riunite nella stanza da letto della cortigiana.

La contessa e la cortigiana non si dissero mica tutti questi particolari che son venuto esponendo; ma quella disse essere a sua cognizione in modo positivo che l'Ispettore avrebbe lasciato fare, il capoguardiano avrebbe potuto fare se qualcuno sapesse in bella maniera offrire a quest'ultimo un certo numero di migliaia di franchi: ella avrebbe provvisto il denaro, delle trattative con quell'uomo s'incaricasse la Zoe: questa a sua volta confessò i tentativi già avviati, narrò che essa tosto, di quel giorno medesimo, avrebbe cominciato l'assalto contro il capo dei custodi, la Maddalena lì presente si sarebbe posta alla ricerca di tale che era alla riuscita dell'impresa necessario, conchiuse, tutto raggiante in volto d'una lieta speranza, che fra una settimana sperava libero il loro caro e finite per tutte le angoscie.

– Ed Ella, signora contessa, soggiunse tendendo una mano a Candida, sarà in possesso di quelle carte che tanto le premono.

La contessa esitò, poi non osò rifiutarsi a toccar quella mano, vi pose dentro appena la punta delle sue dita inguantate e sentì a quel lieve contatto serpersi nelle vene un brivido: le parve affermata la vergogna della sua fratellanza con quella donna venduta.

In sul punto d'accomiatarsi, ella, per un atto quasi macchinale, alzò il velo e mostrò la sua faccia impallidita e dimagrata in que' pochi giorni, i suoi begli occhi ardenti di febbre in fondo alle occhiaie contornate da un livido cerchio, la sua tanta bellezza fatta ora mesta, severa, quasi direi solenne dalla espressione del dolore e dall'impronta della sventura. Maddalena, che non aveva parlato più, e che stava sempre osservando con occhi ostilmente avidi la contessa, frenata soltanto ne' suoi nimichevoli sentimenti e propositi dalla presenza della Zoe, come un animale selvaggio dalla tema del suo domatore, al vedere finalmente scoperte quelle sembianze che tanto anelava esaminare e trovandovi tanta bellezza, mandò un'esclamazione in cui c'erano insieme rabbia, stupore ed una involontaria ammirazione, e si cacciò innanzi verso la nobile sua rivale come un nemico che assale un nemico. Candida sorse in piedi e si trasse in là con mossa di imponente fierezza, ma non scevra di inquietudine.