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La plebe, parte IV

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CAPITOLO XXII

Per l'arresto dei malfattori della cocca, tre squadre poliziesche eransi partite ad un tempo dal Palazzo Madama, la prima capitanata da Barnaba si era diretta alla casa Benda dove sapevasi doversi cogliere alla posta il capo della banda, e già abbiam visto quello che a questa squadra era intravvenuto; la seconda erasi recata all'abitazione ordinaria del cosidetto medichino sotto la guida di un altro agente che godeva ancor egli la speciale confidenza del signor Commissario, e colà aveva arrestato i servi del sedicente dottor Quercia ed in una minutissima perquisizione sequestrato tutte le carte che vi ci aveva trovate, cui l'agente doveva consegnare nelle mani medesime del signor Tofi: quest'ultimo poi, a capo della terza squadra, più numerosa delle altre e rinforzata dall'aiuto di una mezza dozzina di carabinieri, s'era assegnato il compito di penetrare nel covo sotterraneo e misterioso di quella tremenda associazione di assassini. Giunta a poca distanza dalla strada in cui s'apriva la taverna di Pelone, questa schiera si divise in due, e chetamente le due frazioni s'avviarono, l'una verso la bettola, l'altra verso la bottega di Baciccia.

Il bravo Pelone, che già da qualche giorno aveva inquietudini e di molte, restò di stucco al vedere aprirsi l'uscio a vetri della bottega e in mezzo al fumo denso delle pipe, delle vivande, dei lumi a olio, presentarsi la faccia del Commissario, faccia che ispirava apprensione a tutti e che in quel punto alla coscienza sporca di mastro Pelone fu spaventosa come la testa della Medusa nei poeti classici. Ad accrescere spavento questa faccia tremenda era incorniciata in un fondo di ceffi arcigni di guardie poliziesche e di cappelli a becchi di carabinieri. Al fondo dello stanzone, dal suo banco a cui sedeva secondo il solito, il tavernaio, facendo una splendida eccezione alla ordinaria lentezza di moti del suo lungo corpo dinoccolato, sorse di scatto sulle sue zattere di piedi, assalito da un parosismo maligno della sua tosse profonda e dal fondo delle occhiaie incavate girando attorno uno sguardo sgomento:

– Il Commissario in persona! si disse egli in fretta in fretta con un ansioso monologo mentale. Caspita! Gli è dunque qualche cattura importante che qui si vuol fare.

Ma lo sguardo che aveva mandato in giro gli aveva fatto conoscere che presenti nell'osteria a quel momento, non c'era che una minutaglia di birbanti, pesciolini senz'importanza, per cui non occorreva tanta forza di reti nè tanta abilità di pescatore: e ciò lo spaventò ancora più.

– Ahi, ahi! Pelone, continuò egli nel suo monologo; codesto mi ha l'aria molto brutta per te; tutto ciò temo voglia avviarsi molto male. Qualcheduno avrà commesso delle imprudenze; già lo sapevo che sono una manica d'imbecilli; lo dovevo prevedere ed avrei fatto bene a contar tutto al Commissario. Ora temo d'essere nella ragna pur troppo, che il diavolo li porti tutti quanti, e me con essi.

L'alto rumore che facevasi nella bettola, e vociare nel giuoco della morra, e sbraitare di canzonaccie, e parole concitate che erano grida e sghignazzamenti e imprecazioni e bestemmie, all'entrare della forza pubblica, era cessato tutto ad un tratto, come per incanto. Tutte le faccie s'erano rivolte alla porta, tutte le bocche erano rimaste spalancate e gli occhi fissi nell'espressione d'una paurosa sorpresa, nel cuore di tutti s'era messa l'ansia, perchè fra tutti quegli avventori non ce n'era forse uno cui quella vista non dovesse dare a riflettere ai casi suoi.

La Maddalena, che trovavasi nella cucina al pian di sotto, stupita grandemente pel subito succedere senza transizione di quell'alto silenzio al baccano di prima, venne su a vedere che mai fosse capitato, e mostrò la sua faccia impertinente e rubiconda al di sopra della botola.

– Figliuola di mala femmina, sgualdrina, sfacciata che Dio ti dia bene! le disse mozzicando le parole fra le sue gengive il bettoliere che s'era levato premurosamente di dietro il banco per muover all'incontro del Commissario. Ecco qui la sbirraglia: siamo tutti perduti, che Satanasso ti abbranchi!

Maddalena per prima cosa pensò alla più diletta persona, alla sola diletta che avesse al mondo, al medichino, cui quel pericolo poteva minacciare; guardò alla porta e veggendo entrare cinque o sei sgherri e con essi tre carabinieri, ed una riserva di poliziotti rimanere ancora al di fuori sulla strada, capì con molto dispetto che il fuggire di là era impossibile. Suo proposito era correre in cerca di Luigi e tanto aggirarsi finchè l'avesse trovato per avvisarlo di quel che avveniva nella bettola, di guisa ch'egli potesse provvedere ai casi suoi. Qualunque altro non avrebbe più avuta speranza nessuna di riuscire in questo intento; ma la Maddalena era tenace nelle sue volontà, era audacissima, accorta, ed era donna; si disse che un'occasione di sgattaiolarsela sarebbe nata ed ella avrebbe saputo approfittarne, ed anche l'avrebbe saputa far nascere, e salita del tutto fuor della botola, si venne accostando lentamente al gruppo degli agenti della forza pubblica, come spinta soltanto da una curiosità naturale, ma affatto disinteressata.

Chi s'accostò non lentamente ma con zelante premura al sor Commissario fu mastro Pelone, il quale, trattosi fuori di dietro il banco, levatosi dal cranio lucido di avorio giallo la berrettaccia unta e bisunta, veniva all'incontro del signor Tofi, lungo la corsìa in mezzo ai due ordini di tavole, facendo passi da gigante colle sue lunghe gambaccie stecchite e trinciando inchini da toccare colla punta del suo naso da uccello di rapina le rotelle piatte de' suoi ginocchi.

– Oh signor Commissario, illustrissimo signor Commissario! gridava egli colla sua voce rauca, punteggiata dagli sbruffi della tosse: in che cosa posso servirla, signor Commissario? Mi metto a sua disposizione, signor Commissario… Fatevi in là voi altri: si diede a gridare a parecchi degli avventori che ingombravano il passaggio, e li urtava nella schiena per farneli ritrarre: toglietevi di qua, mascalzoni, fate largo, date luogo al signor Commissario.

Questi dall'alto del suo cravattone guardò con occhio severo l'oste tutto confuso, che credette, a quell'occhiata, sentir aprirsi il terreno sotto i piedi, e non rispose pure una parola; poi volto al brigadiere dei carabinieri ed a quello delle guardie di polizia, disse:

– Nessuno esca di qua sino a nuovo ordine. Prendete nome, cognome e condizioni di tutti e quelli che sono in nota sieno ammanettati senz'altro.

Carabinieri ed arcieri si posero tosto all'opera. Della maggior parte di quegl'individui non avevano pure da domandare il nome; chè erano antiche loro conoscenze e non nuovi inquilini della carcere. Tutti protestavano che gli era uno sbaglio, che erano innocenti come neonati, ma le proteste non indugiavano d'un punto il ratto procedere degli agenti della forza pubblica.

– Voi, Pelone, disse il signor Tofi con quel suo brusco accento, che gelava il sangue nelle vene a chiunque: venite meco di là in quello stanzino.

Il Commissario fe' cenno al brigadiere dei carabinieri, a quello degli sgherri e passò primo; Pelone entrò dopo di lui abbrancato ad un braccio dal caporale arciere, e le sue lunghe gambe gli si piegavano sotto: l'uscio a vetri colle tendine rosse fu chiuso dietro di loro.

– Pelone; cominciò il signor Tofi con quel tono che toglieva ogni volontà di resistenza; apriteci subito l'uscio segreto che c'è in quella impiallacciatura di legno, pel quale si comunica col sotterraneo ricovero della cocca.

L'oste sentì un brivido come mai l'uguale corrergli per tutte le vene e gli venne un nodo alla gola che, secondo si espresse egli medesimo di poi, gli parve una carezza della corda di mastro Impicca.

– Signor Commissario, balbettò egli, verde in viso e oscillando come briaco sulle sue pertiche di gambe, non so… non capisco… in parola di Pelone…

Si ricordò che quel passaggio, per fortuna, ultimamente era stato murato, che quindi non lo si sarebbe rinvenuto, e povero di consiglio com'era in quel momento, preso alla sprovveduta, si figurò che il miglior mezzo era di negare risolutamente.

– Non so che cosa Vossignoria voglia dire… che il diavolo mi porti.

Tofi lo guardò con aria feroce, e senz'aggiunger verbo andò a quel punto dove Barnaba gli aveva detto esistere il passaggio; toccò nel luogo dove, per le rivelazioni di Arom, sapevasi esistere la molla, ma nulla si mosse.

– Aprite, sarà meglio per voi: disse il Commissario furibondo a Pelone.

– La mi scusi, signor Commissario, ma per la salute dell'anima mia, per la Madonna delle grazie e quella della Consolata, pel mio Santo protettore, protesto…

Il Commissario non lo lasciò finire: aprì l'uscio a vetri che metteva nel primo stanzone e disse con accento di comando:

– Due uomini qua con ascie e picconi.

Gli uomini vennero solleciti.

– Abbattete quel tavolato lungo tutta questa parete: comandò il signor Tofi.

In dieci minuti la bisogna fu compiuta. Non vi era passaggio di sorta nella muraglia, ma ad un punto, ed era facile accorgersene, la muratura era fresca.

Tofi si rivolse al bettoliere, più furibondo di prima.

– Brigante! Avete murato l'apertura, eh? E credete scappolarla? Miserabili! siete tutti nei miei artigli ad ogni modo, ed avrete dal boia quel che vi meritate… Distruggete quella muratura.

Gli uomini si posero a dar coi picconi in quella parte che si vedeva costruita di recente.

Ma ecco che in quella giunge correndo un arciere della squadra che erasi recata alla bottega del Baciccia, e viene a recare un'ambasciata al sor Commissario.

A questa squadra ecco che cosa era avvenuto.

Giunti alla bottega del rigattiere e trovatala chiusa, se l'erano fatta aprire ed irrompendo avevano senza perder tempo legato ben bene il Baciccia e la sua famiglia, poi recatisi diviati al nascosto passaggio che comunicava col sotterraneo, vi si erano introdotti, camminando pian piano, con ogni cautela, colle loro lanterne accese.

 

In Cafarnao erano i soliti inquilini, che non avevano altro soggiorno più sicuro di quello: i due galeotti evasi dal bagno, Stracciaferro e Graffigna. Dormivano ambedue; ma l'ultimo, in qualunque luogo si trovasse, non dormiva che di quel sonno che il volgo suole attribuire alla lepre, la quale non chiude che un occhio e coll'altro sta sempre spiando ciò che le succede dintorno. Graffigna adunque udì fra il sonno e la veglia il rumor lontano e soffocato dei passi guardinghi di più persone suonare per la volta rimbombante del sotterraneo e si drizzò in sussulto a sedere sul suo strammazzo. Era un sogno frequente ch'ei faceva quello di essere perseguitato dai giandarmi, e credette anche questa volta essere stato disturbato da un sogno; ma ora e' si sentiva bene sveglio, e quel rumore non che dileguarsi veniva sempre più accostandosi; balzò dal giaciglio e corse alla porta che usciva su quella specie di vestibolo che precedeva lo stanzone, onde entrava colaggiù un poco d'aria e di luce, vide dal corridoio che veniva alla bottega del Baciccia, unica strada che ora ci fosse oltre quella della casina del medichino, appressarsi uno splendore rossiccio che giudicò prodotto da più lanterne portate a mano, e udì un tintinnare d'armi che al suo orecchio esercitato rivelò di che razza fossero i sopravenienti. D'un salto egli fu presso Stracciaferro a scuoterlo vigorosamente. Suo disegno era correre in tutta fretta su per l'andito che menava alla palazzina di Quercia, il quale aveva visto ancor libero, e di là fuggire, se ancora possibile, alla aperta campagna. Ma quanto era leggiero il sonno di Graffigna, altrettanto era sodo e pesante quello di Stracciaferro onde alle scosse ed agli urtoni che il suo compagno gli dava, quell'omaccione, senza punto destarsi, non faceva che rispondere con un grugnito e con certi atti impazienti e collerici che provavano essere il mal capitato chi venisse a disturbarne il riposo. Vedendo che la cosa premeva oltre ogni dire, Graffigna pensò ricorrere ad un mezzo che ritenne infallibile: punzecchiò forte colla punta del suo pugnale nelle carni dell'addormentato e nello stesso tempo gli gridò nel padiglione dell'orecchia:

– Su, su, Stracciaferro; sono qui gli sbirri ad arrestarci.

L'omaccione mostrò che era sveglio pur finalmente sparando insieme una grossa bestemmia e un tremendo pugno che guai per Graffigna se n'era colto.

– Possa tu venir appiccato, traditore d'un birbone da forca: esclamò Stracciaferro: mi lascierai tu dormire in pace?

– Il tuo augurio sta per essere avverato: di rimando Graffigna, martuffo del boia, mio caro amico, che ti venga un accidente; e sta per avverarsi anche per te, giacchè stiamo per essere presi come due sorci in trappola… Ti dico che è qui la Polizia.

Questa volta Stracciaferro fu desto del tutto.

– Possibile! esclamò egli levandosi.

– Senti! disse Graffigna.

L'omaccione udì ancor egli il passo in cadenza della squadra che s'avanzava lentamente. Al suo spirito ottuso non balenò neppure il pensiero d'un possibile scampo; non pensò che a vender cara la sua vita; girò intorno lo sguardo degli occhi sanguigni e borbottò fra i denti:

– Ah cani maledetti! Or ora ne spedisco io una frolla all'altro mondo a farmi da battistrada.

Aveva visto in un angolo un palo di ferro di quelli onde si servivano ad abbattere imposte e sgangherar usci, e fu ad afferrarlo, maneggiandolo con tanta facilità, come altri farebbe d'un semplice bastone.

Graffigna gli spiegò in fretta in fretta la possibilità che forse eravi ancora di fuggire per la casetta del medichino; ed egli allora consentì a tentar questo passo, armato del suo palo di ferro; ma era troppo tardi, ed appena usciti dallo stanzone, i due banditi si videro saltare addosso gli agenti della forza pubblica. Si ritirarono essi sulla soglia del Cafarnao, in alto dei pochi gradini che vi conducevano, e disperati del tutto della vita, si prepararono ad una strenua difesa. Non racconterò le vicende di questa lotta resa più orribile dal luogo, dalle tenebre appena se rotte da quella luce rossiccia che pareva anch'essa macchiata di sangue, dalla forza erculea di Stracciaferro, dall'agilità di Graffigna che balzava come una pantera addosso ai nemici e riparava poscia sotto la protezione della tremenda mazza del suo compagno, riportando ad ogni volta bagnata di sangue novello la lama sottile del suo pugnale. Il fatto è che già troppo durava questo combattimento, senza che si fosse potuto venire a capo di opprimere i due assassini, e parecchi degli assalitori giacevano malconci; speravano gli agenti della Polizia veder giungere da un momento all'altro il rinforzo del Commissario co' suoi uomini, che secondo le intese dovevano riunirsi colà appunto al resto della squadra, ma non vedendo nulla arrivar mai, chi comandava quella frazione aveva pensato miglior consiglio mandare alcuno ad istruire il signor Tofi di quello che avveniva ed invocarne sollecito il soccorso. Codesto era venuto a fare l'uomo che abbiamo visto soprarrivare sollecito alla taverna di Pelone, e il Commissario appena inteso com'erano le cose, lasciato nella bettola appena quanti uomini bastassero a tenere in freno gli arrestati che già erano a due a due avvinti dalle manette, con tutto il resto delle sue forze accorse sul luogo del conflitto.

La Maddalena, visto partire il Commissario e la maggior parte dei birri, sentì accrescersi la sua mai perduta speranza di fuggire. Se ne venne tranquillamente verso la porta d'uscita, e saettò un'occhiata assassina all'arciere che stava là appostato. Quell'arciere, per fortuna di Maddalena e per sua sfortuna, praticava non di rado nella bettola, e le attrattive petulanti della giovane lo tentavano maledettamente; a quell'occhiata ch'egli credette gli dicesse tante cose, non potè a meno che rispondere con un fatuo sorriso di compiacenza.

Maddalena, con atto di affettuosa domestichezza, gli pose una delle sue mani paffutelle sul petto.

– Ho da dirvi una cosa: gli susurrò sotto voce, ponendogli bene innanzi le sue pupille smaglianti, la sua faccia fresca e il suo sorriso provocatore.

– Che cosa? disse il babbuino aitandosi ed andando tutto in brodo di giuggiole.

– Non qui: soggiunse la briccona sempre più sommesso, guardandosi dattorno con diffidenza: venite fuori un momento; è una cosa che vi farà piacere.

E senza attender altro, lesta pose la mano sulla gruccia della serratura, socchiuse l'uscio e sgusciò fuori: ma l'arciere fu sollecito ad allungar il braccio, afferrò la ragazza pei panni e le tenne dietro nella strada.

– Or bene, parlate ora, mia cara…

Non ebbe tempo a finire queste parole che la Maddalena, la quale forzuta era e coraggiosa più che a donna s'addica, gli scaraventava un pugno sul naso con tanta violenza che il povero arciere vedeva a un tratto cento mila fiammelle, e recandosi le mani alla parte offesa non pensava più a trattenere la donna, che non perdeva tempo a darsela a gambe e spariva ratta nell'oscurità di quelle viuzze contorte.

Dove la si recasse vedremo poi, ora torniamo con Barnaba che dalla camera ove giaceva il medichino legato, si calava per la scala segreta nel sotterraneo della cocca.

Quando Barnaba discese in Cafarnao la lotta era finita, il sopraggiungere del Commissario con nuovo rinforzo di poliziotti, aveva dato più animo agli assalitori ed era riuscito a superare ben tosto colla prepotenza del numero la difesa degli assassini. Questi, disarmati e strettamente legati, stavano in quella specie d'atrio circolare dove facevano capo le varie strade coperte, posti in mezzo ad una mezza dozzina de' più robusti e risoluti sgherri, i quali li custodivano tenendo gli occhi fissi su di loro e le mani sui calci delle pistole. Il signor Tofi, penetrato nello stanzone sotterraneo, tutto lieto delle infinite cose che vi scopriva, onde di gran lunga era superata la sua aspettazione, ne faceva una ricognizione sommaria; riserbandosi, a cose più calme, un minuto esame ed un esatto inventario. Intanto aveva già riconosciuto che colà stavano le prove materiali di parecchi reati di cui fino allora non si erano potuti trovare i colpevoli: quelli che in linguaggio criminale si chiamano corpi del delitto. Là era la cassa di ferro portata via al signor Bancone; là il mantello di Francesco Benda, di cui uno squarcio era rimasto in mano all'assassinato Nariccia; là varii e molteplici oggetti caduti nei più audaci furti ed assassinii commessi. Adocchiato finalmente l'uscio che metteva nel gabinetto particolare del medichino, il Commissario lo faceva atterrare, e penetrato in quel recesso, rotte le serrature dei forzieri e della scrivania, giungeva ad impadronirsi pur finalmente di tutti i segreti della tremenda associazione, di tutti i fili di quella permanente congiura di malfattori contro la proprietà e la società.

Barnaba arrivava appunto nel migliore dell'opera di sommario esame e di separazione dei documenti sequestrati.

– Signor Commissario; cominciò egli, per richiamare su di sè l'attenzione del suo superiore.

Il signor Tofi levò il viso vivamente e di sotto la larga tesa del suo cappello che teneva piantato in capo, mandò uno sguardo pieno di soddisfazione e brillante di trionfo verso il suo subordinato che gli stava ritto dinanzi. Parve persino che le sue labbra severe si atteggiassero ad una sembianza di sorriso; cosa che da anni ed anni avevano affatto disimparato.

– Ah siete qui voi!.. Spero che non vi sarete mica lasciato scappare il merlotto.

Mai, a memoria di birro, il signor Commissario Tofi non aveva usato parole e tono così scherzosi.

– No, signore, rispose Barnaba, che, sfinito del tutto di forze, si appoggiò alla scrivania per sorreggersi; egli è colassù legato come un salame.

– Bene, benissimo: esclamò Tofi fregandosi le mani. Ma come colassù? Dove volete dire?

– Nella palazzina del viale.

– Ah sì! E come ce l'avete costì, perchè ce l'avete portato?

– L'abbiamo preso colà.

– Oh bella! Raccontatemi come andò la cosa.

Ma in questa il Commissario degnò accorgersi che il suo subalterno non poteva proprio più stare in piedi.

– Sedete: gli disse con accento più benigno di quello che da lui si potesse aspettare; avete bisogno di riposo; lo si vede.

Barnaba si lasciò andare sopra una scranna e raccontò le peripezie dell'arresto.

– Che minchione! esclamò il Commissario: poichè vi era sfuggito dalle branche, venirsi a porre da sè in trappola. Ma e' son tutti così: ce la fanno, ce la fanno per un pezzo, e nissuno mai, conviene dirlo, ce l'ha fatta così bene e per tanto tempo come questo scellerato, e poi ad un bel punto perdono la scrima. Ora, grazie a Dio, ce l'abbiamo ed è affar finito; non ci scappa più. Metteremo in pratica tutta la possibile sorveglianza.

– L'affidi a me, sor Commissario: esclamò con un certo ardore Barnaba, rianimandosi nonostante la sua sfinitezza. Lo vorrò sorvegliare anche quando sia nelle carceri, perchè quell'associazione di cui il medichino è capo, ha tali diramazioni ed è sì potente che ci sarà impossibile, anche con questo colpo, schiacciarla del tutto, e perchè vi hanno troppe persone ed influenti che seguiteranno ad interessarsi per la sorte di quel miserabile. Dobbiamo aspettarci a molti ed accorti tentativi d'evasione.

– È giusto. Voi avete tanto merito in questa faccenda che a voi si spetta appunto il badare che la si conduca a buon termine. Del resto avete reso un sì gran servigio e ci avete posto tanto zelo che saprò raccomandarvi a chi si conviene perchè ne abbiate degno compenso. Intanto aiutatemi a frugare qui in mezzo se si trovano quelle certe lettere di quella tale signora che vi ho detto… O forse le avete voi trovate nella palazzina?

Barnaba rispose di no: nemmeno fra le carte di quel gabinetto segreto non si trovarono le lettere che si cercavano, e che il lettore ha già indovinato esser quelle della contessa Candida Langosco di Staffarda. Si sperò allora che le si sarebbero rinvenute fra le carte che agenti speciali avevano sequestrate al domicilio abituale di Quercia e in quelle altre camere che egli teneva qua e là per la città, e di cui Arom aveva del pari rivelato l'indirizzo.

Presi seco i documenti più importanti; assicurata ben bene la custodia dei locali e d'ogni cosa; dato ordine si traducessero in carcere il bettoliere Pelone che invano invocava tutte le Madonne e tutti i Santi del Calendario a protesta della sua innocenza, e quegli altri che erano stati arrestati nell'osteria, il Commissario e Barnaba salirono nella palazzina del medichino, traendosi dietro ammanettati Stracciaferro e Graffigna.

 

Gian-Luigi giaceva sempre sul pavimento, legato braccia e gambe, immobile, muto, l'occhio nero fisso innanzi a sè, la fronte corrugata a suo modo, un'espressione d'indomabile energia nel volto. Quando vide entrare i due agenti della polizia, que' suoi occhi ardenti li saettarono con uno sguardo d'ira feroce; visto dietro di loro i galeotti, suoi complici, trascinati dai carabinieri e dalle guardie, le sue pupille presero fugacemente un'espressione di disappunto rabbioso, di rampogna, di comando, poi divennero profondamente indifferenti.

Il Commissario si accostò al medichino con passo piuttosto sollecito, come spinto dalla vivace curiosità; gli si fermò a' piedi, guardandolo attentamente, incrociando le sue braccia sul petto sporgente ed abbottonato fino al collo del suo soprabito, il mento sostenuto al solito alle stecche dure del cravattone, gli occhi felini, sfavillanti al fondo della larga tesa del cappello abbassato sul fronte da coprir le ispide e folte sopracciglia grigiastre. Il medichino concentrò tutta l'attenzione delle sue pupille su quel volto burbero che gli si piantava dinanzi in alto di quella lunga, impalata, impettita persona. Non c'era nel suo sguardo e non nella sembianza la menoma vergogna nè la menoma paura: una sicurezza che poteva dirsi impudenza; quasi una sfida a quel potere che l'aveva vinto, a quella autorità che lo teneva ora in sua balìa.

Si sarebbe potuto credere che il signor Tofi dicesse qualche aspra parola di vanto dell'ottenuta vittoria, od uscisse fuori con qualche ironico cenno intorno al colloquio che avevano avuto insieme pochi giorni prima; forse il giacente medesimo se l'aspettava, e nel contegno aveva già posta per ciò tutta quella disdegnosa audacia con cui si preparava a rispondere; ma invece il Commissario non disse pure una parola; stato alquanto a contemplarlo con osservatrice e non niquitosa attenzione, si volse poscia a Barnaba, e disse a mezza voce, come risultamento del suo esame e del suo meditare:

– Un'anima da demonio, una volontà di ferro, ed un corpo da Adone… Sicuro che c'era da far girar le teste di tutte le donne di questo mondo.

Gian-Luigi fece uno sprezzoso sogghigno e volse gli occhi ad altra parte.

– Accostatevi: disse Tofi a Stracciaferro ed a Graffigna, tornando a tutta la brusca e fiera imperiosità del suo accento.

I due assassini, spinti alle spalle dai carabinieri, fecero pochi passi innanzi verso il luogo dove giaceva il loro capo.

– Conoscete quest'uomo? domandò loro il Commissario, additando il medichino.

Stracciaferro e Graffigna abbassarono gli occhi sul volto del giacente; il primo con quel suo piglio stupido d'uomo fatto mezzo scemo dall'abuso dei liquori, il secondo con tutta la penetrazione maliziosa del suo sguardo intelligente. Gian-Luigi li guardò egli con perfetta indifferenza, come per dire: «Rispondete un po' come vi pare, che per me gli è affatto uguale.» Graffigna pensò che in ogni caso il silenzio val sempre meglio di qualunque parola, e deliberò tacersi; Stracciaferro che non aveva consiglio proprio, guardò Graffigna, e vistolo tener chiusa ermeticamente la bocca, stè zitto ancor egli.

– Conoscete costui? ripetè il signor Tofi con più ruvido e minaccioso accento; ma nè anche questa seconda interrogazione non ebbe l'onore d'una risposta.

– Bene! esclamò egli: razza di cani, parlerete più tardi; oh ve lo assicuro io che parlerete… Ora conduceteli in prigione.

I due galeotti furono menati via.

– Slegate le gambe a quell'uomo: comandò il Commissario accennando al medichino con una mossa del capo.

L'ordine fu tosto eseguito.

– Potete camminare? domandò allora il signor Tofi.

– Desidero una carrozza; rispose il medichino con tono di orgogliosa superiorità: me la volete concedere?

– Potete camminare? ripetè ruvidamente il Commissario.

Gian-Luigi lo guardò con inesprimibile disdegno e gli volse le spalle.

– Sono con voi: disse al brigadiere dei carabinieri. Dove avete da condurmi?

Il brigadiere interrogò collo sguardo il Commissario.

– Al palazzo Madama: comandò questi; e poi rivolgendosi al prigioniero, soggiunse: fra un quarto d'ora ci troveremo colà di nuovo faccia a faccia, signore.

Il medichino, le braccia così legate come aveva che le cordicelle gli entravano nella carne intorno ai polsi e gli facevano gonfiare le vene da parere dovessero scoppiare, andò a porsi in mezzo ai carabinieri che lo dovevano accompagnare e disse loro semplicemente:

– Andiamo pure, signori.

Le gambe, per la stretta legatura che avevano sofferto sino a quel momento, gli dolevano così che sembravagli da principio non poter mutare pure un passo; ma la sua fisionomia non rivelò nemmeno con una smorfia il tormento ch'egli soffriva: impose al suo corpo d'obbedire alla volontà, alla sua mente di non sentire il dolore, e con passo franco si partì scortato dai carabinieri.

Il Commissario e Barnaba si avviarono da parte loro verso il Palazzo Madama: e la debolezza del secondo rese necessaria una carrozza. Tofi fece passare quest'essa nella strada ove abitava il generale Barranchi e fermarsi alla porta del palazzo. Per fortuna il capo supremo della Polizia era appunto in casa e, fatto introdurre senza ritardo il Commissario, ne apprendeva tosto le importanti novelle delle catture e della scoperta avvenuta quella sera.

Il bravo sor Generale lodava con moderazione e sussiego il buon successo del Commissario, e poi tosto soggiungeva:

– Spero che quelle tali lettere di cui vi ho parlato saranno già in poter vostro.

– No, Eccellenza, non ancora: rispose Tofi, e disse come nei luoghi da esso perquisiti non le si fossero rinvenute.

Barranchi corrugò la sua piccola fronte superba.

– Diavolo! Codesto ve lo avevo tanto raccomandato!

– La non dubiti, s'affrettò a soggiungere il Commissario: le si saranno trovate alla casa di quel mariuolo od in qualcuna di quelle altre camere mobiliate ch'e' teneva a pigione.

– Va bene: e ricordatevi che appena le abbiate me le recate voi stesso.

– Sì signore.

Tofi discese, tornò nella carrozza dove Barnaba era stato aspettandolo, e fu dopo pochi minuti nel suo bugigattolo al Palazzo Madama. Gli agenti che avevano fatto la perquisizione al domicilio del medichino e nei varii suoi altri ricoveri, traendone in arresto i servi e taluni di coloro che gli affittavano le camere, già stavano colà per fare la relazione del loro operato. Il Commissario li interrogò sollecitamente e se ne fece rimettere le carte che avevan preso: ve n'era di molte, ed alcune abbastanza importanti, ma quelle benedette lettere tanto cercate non v'erano. Tofi fu preso dalla stizza: mandò via con mal garbo tutti que' suoi subordinati, e rimase solo con Barnaba, il quale in questo affare era naturalmente elevato al grado di suo confidente e consigliere.

– Che quello scellerato le abbia distrutte? disse il Commissario: non posso crederlo. Mi vien voglia d'interrogarlo e cercare di strappargliene la verità.

Barnaba fece un moto che indicava come alla riuscita di questo tentativo credesse poco, ma disse che era forse spediente interrogare l'arrestato in quel primo sbalordimento che certo gli aveva prodotto il suo arresto.

Tofi diede ordine il medichino gli fosse condotto dinanzi.

Gian-Luigi era arrivato pur allora e stato rinchiuso in una delle segrete delle torri. Fino a che era stato in presenza di gente, la sua faccia aveva conservata una tranquillità quasi sprezzante, una fierezza quasi minacciosa: ma quando fu rimasto solo, al buio in quella piccola cella, di cui udì chiudersi con infausto rumore le serrature e tirarsi i catenacci alla porta, dritto in mezzo alla carcere, la sua fisionomia ebbe un'espressione di spasimo, di disperata rabbia, di selvaggia ferocia che avrebbe fatto paura e pietà a chi l'avesse potuto vedere. Sollevò verso la volta le sue mani ancora strettamente legate ai polsi e ruppe in orribili bestemmie.