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La plebe, parte III

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CAPITOLO VII

Quando Maurilio, accompagnato da Don Venanzio, giunse in casa il pittore, dov'egli abitava, fu accolto da Vanardi e dalla Rosina con ogni dimostrazione d'affetto, a cui il giovane corrispose non senza alcun intenerimento dell'anima. Dopo questi primi saluti e rallegramenti, Maurilio domandò tosto alla moglie del pittore gli restituisse quegli oggetti per lui preziosissimi, ch'egli partendo avevale consegnato, e Rosina glie li diede.

– Mio buon padre, disse Maurilio additandoli a Don Venanzio che ben conosceva che cosa fossero e che cosa valessero pel suo giovane amico quel rosario e quel bottone: oggi a proposito di questo mio piccolo tesoro, ho avuto una grande emozione.

E raccontò al buon parroco ciò che era capitato quando quel ragazzo ch'egli aveva fatto venire affine di istruirlo, aveva per azzardo visto quel bottone e riconosciutolo compagno ad uno cui possedeva la sua nonna.

Don Venanzio parve dare una certa importanza ancor egli a questo fatto.

– Tu hai avuto una buona ispirazione ed hai cominciato a fare un'opera assai buona volendo educare ed istruire quel bambinello; ed ecco che la Provvidenza te ne vuole di subito ricompensare, forse, porgendoti un filo da penetrare nel mistero della tua nascita. Il filo è tenue, è verissimo, e sarebbe imprudente il concepirne da codesto troppe vive speranze; ma pure io son d'avviso che non si debba trascurare e sia da tentarsi di andarne a capo.

Maurilio disse che già era sua intenzione recarsi presso quella donna e interrogarla in proposito, e che ciò farebbe di quel giorno medesimo. Sopravvenuto di poi Giovanni Selva, come quello che era conscio di tutto, venne chiamato a consiglio, e fra lui e don Venanzio decisero che meglio del giovane della cui sorte si trattava, un altro avrebbe potuto colla conveniente freddezza interrogare la donna, pesarne la risposta, esaminarne i contegni, e giunger forse ad un più sicuro risultamento, e fu determinato che Selva medesimo e il buon parroco si recherebbero di compagnia essi stessi in casa quella vecchia, della quale Maurilio, in quel momento, non ricordò più che il soprannome di Gattona.

E ci sarebbero andati senz'altro indugio, poichè Don Venanzio con Maurilio aveva oramai scambiati quei discorsi con cui due che si amano, dopo un intervallo di tempo che non si sono visti, sogliono mettersi in giorno l'un dell'altro delle proprie cose, quando avvenne che inaspettato e come mandato anch'egli colà dalla mano del destino sopraggiungesse Gian-Luigi.

Il vecchio sacerdote non avea punto cessato di amare quell'altro dei due cui potuto avrebbe chiamare suoi figliuoli d'adozione: dei due che in realtà a lui dovevano la vita dello spirito, il risveglio dell'intelligenza, all'uomo più preziosi che non la vita materiale e lo sviluppo delle forze fisiche.

Molti anni erano che Don Venanzio non aveva visto più Gian-Luigi. Dal colloquio che ebbe luogo fra costui e Maurilio nella taverna di Pelone, abbiamo appreso che il figliuolo nutrito col latte della povera Margherita e da essa allevato coll'amore più che di madre, mai più non era tornato al villaggio, nè tampoco aveva colà dato segno nessuno più della sua esistenza; nelle sue gite a Torino il buon parroco mai non aveva avuto rincontro di quel giovane, ed altro più non aveva saputo di lui fuor ciò che glie ne apprendeva Maurilio il quale ad un punto disse che ancor egli avea cessato di vedere Gian-Luigi, e nulla più conosceva de' fatti suoi.

La sera innanzi, come vedemmo, il caso (Don Venanzio avrebbe detto la Provvidenza) aveva messo a fronte di nuovo i due compagni di sorte, i due amici d'infanzia, i due trovatelli. Codesto avveniva giusto appunto quando Gian-Luigi, affondatosi, per così dire, più che mai nella sua opera tenebrosa e tremenda di rivoluzione sociale, innanzi alle crescenti, agglomerantisi, spaventose vicende della catastrofe, non si smarriva già menomamente dell'animo, non sentiva già inferiori al còmpito la sua forza, l'audacia e la volontà, ma capiva che sommamente gli sarebbe riescito utile il concorso di un'altra intelligenza pari e forse a certe discipline più acconcia e forse meglio nutrita di studi e per più vasta potenza di comprensione abbracciante un maggiore àmbito d'idee. Aveva pensato all'intelligenza di Maurilio. Si pentì allora di non averselo tenuto legato al proprio destino, di aver disconosciuto e trascurato il soccorso che da lui poteva avere nella sua impresa. Dove sempre l'avesse conservato nella sua intimità e nelle domestiche consuetudini della vita, egli si lusingava che quell'affetto ammirativo cui Maurilio provava un tempo pell'amico suo di così brillanti doti fornito, che quell'influsso cui la sua volontà tenace e robusta, la sua forza operosa d'iniziativa esercitavano sull'anima più mite del compagno, avrebbero ottenuto che i suoi pensieri, le sue voglie, i suoi disegni, diventassero i disegni, le voglie e i pensieri di Maurilio, il quale in servizio loro avrebbe posto quell'ingegno non comune che Gian-Luigi gli riconosceva.

Forse non sarebbe andato a cercarlo; ma poichè la fortuna glie lo conduceva dinanzi, Gian-Luigi si era proposto di nulla pretermettere per associare alla sua intrapresa ed al suo destino l'antico compagno. In quel primo colloquio che avevano avuto all'osteria, subitamente interrotto dall'arrivo di Barnaba, innanzi a cui Gian-Luigi era scomparso, per ragioni che ora sappiamo: in quel colloquio l'audace capo della cocca avea capito che da una grande distanza, quasi da un abisso erano stati separati gli animi suo e di Maurilio in quegli anni che erano trascorsi senza che più si vedessero. Non si disse che ciò proveniva da che egli fosse camminato e di buon passo nella strada del male, dove ad ogni tappa aveva perduto alcuno de' suoi buoni istinti, smagata o corrotta alcuna delle sue buone qualità, mentre invece Maurilio od era rimasto su quel terreno dove lo avevano collocato i risultamenti dell'educazione di Don Venanzio e della maturanza della propria intelligenza, oppure eziandio era proceduto nella via del bene; ma avvertì che oramai l'uno e l'altro parlavano una lingua diversa e che per intendersi occorreva, da parte di lui, che era quello il quale desiderava penetrare sino all'animo ed al cervello dell'amico, occorreva, dico, uno sforzo maggiore e fors'anco un'arte di simulazione delle più accorte, affine di non urtare fin dalle prime nelle suscettività morali dell'altro.

Questa difficoltà, invece di stornarlo dal tentativo o disgustarnelo, aveva anzi aizzato il petulante amor proprio di Gian-Luigi e il giorno susseguente all'incontro avuto nella taverna, appena dalle molte sue occupazioni ebbe un momento di libero, l'elegante giovane che nella società era salutato col nome di dottor Quercia, s'affrettò verso l'abitazione di Maurilio, di cui questi la sera innanzi gli aveva dato l'indirizzo.

Entrò nel modesto quartiere dei giovani con quell'agiata e naturale eleganza di mosse con cui entrava nei saloni delle feste e negli stanzini delle signore. La signora Rosina ne fu abbacinata, e raccontò essa poi che quel bel giovane erale sembrato un'apparizione avvolta in una nube eterea di patchouli. Maurilio, che non credeva Gian-Luigi fosse per effettuare nè così presto, nè tardi, nè mai la sua promessa di venire da lui, mandò una leggera esclamazione di stupore. Don Venanzio, che era lontano le mille miglia dal pensare che l'altro suo allievo gli comparisse davanti colà, in quel modo, non lo riconobbe a tutta prima e si alzò da sedere per salutare il nuovo venuto, con quella deferenza che si meritava l'alto grado sociale cui egli, giudicando dagli abiti e dalle maniere, sembrava occupare.

Gian-Luigi si fermò un istante sulla soglia prima d'inoltrarsi nella stanza in cui erano Maurilio e Don Venanzio. Al veder quest'ultimo non mostrò nè contrarietà, nè stupore, quantunque tale incontro fosse il più inaspettato del mondo e non dovesse essergli dei meglio graditi. Illuminò la sua fisionomia del più schietto e cordiale sorriso, e negli occhi gli brillò uno dei più lieti e simpatici sguardi ch'egli possedesse nel suo arsenale di seduzioni. Rattamente, colla facilità del suo fertile cervello egli aveva già concepito un disegno, mercè cui la presenza del vecchio prete doveva servirgli appunto a vincere le ostili prevenzioni che aveva notate in Maurilio contro di lui.

Si accostò adunque a Don Venanzio, l'aspetto commosso, gli occhi quasi umidi di pianto, una espressione nel volto e nel contegno di devozione, di affetto, di intenerimento da non dirsi.

Il buon parroco lo guardava tutto stupito e quasi ansioso. Gli pareva e non gli pareva di riconoscere quelle sembianze: sentiva nel cuore una specie di agitazione, quasi un palpito; voleva dire: Tu sei quel desso, e non osava.

– E la non mi riconosce più? domandò Gian-Luigi con quella sua voce vibrante e melodiosa, che era un'altra delle sue più efficaci seduzioni. Oh che Ella mi avrebbe del tutto dimenticato?

E più abile che un abilissimo commediante, lo scellerato aveva tale un accento di tenerezza, di rincrescimento, di effusione che nemmeno il più diffidente degli uomini ne avrebbe sospettato la sincerità.

Il primo impulso nel vecchio sacerdote fu l'esplosione della sua tenerezza quasi paterna.

– Gian-Luigi! esclamò egli con voce tremante per l'emozione, allargando le sue braccia.

Il giovane mandò un grido di gioia.

– Ah! mi ha ancora riconosciuto!

E si abbracciò con passione al buon parroco, che piangeva – egli – lagrime vere.

Ma dopo un istante la commozione in Don Venanzio lasciò luogo ad altro sentimento che da tempo gli stava nell'animo verso Gian-Luigi. Si sciolse dalle braccia di lui, ed allontanandosene un poco lo guardò dal capo alle piante con subita freddezza, quasi con sospetto, con evidente rimprovero.

– Cospetto! diss'egli: come voi siete vestito da signore! Avete dunque trovato per davvero il modo di arrivare quelle ricchezze, dietro cui anelavate con tanta passione?

 

Gian-Luigi fece un gesto leggiero e sbadato colla mano, come per dire: – questo per ora è quello che meno importa; e poi rispose con un accento in cui si sarebbe potuto notare un po' d'impazienza, ma tuttavia con inappuntabile rispetto:

– Sì, dopo molte fatiche e dopo molti travagli sono riuscito a raccapezzar qualche cosa e far valere alquanto i fatti miei… Ma di me, se le aggrada, discorreremo fra poco… Ora permetta alla mia impazienza che io la interroghi subito di quella persona che insieme con lei Don Venanzio, mi sta più a cuore, mi sta solamente a cuore, devo anzi dire, in tutto il nostro villaggio… Che nuove ha da darmi della buona Margherita?

Don Venanzio e Maurilio scambiarono un rapido sguardo per comunicarsi la gradita sorpresa che loro faceva questa richiesta sulle labbra di Gian-Luigi. Quanto a costui, nell'accento delle sue parole e nell'espressione del suo viso, mostrava, per colei che domandava, il maggiore interessamento che uom possa sentire per una creatura vivente.

– Ah la povera Margherita? disse il parroco ripetendo questo nome con un'intonazione che era un rimprovero. Vi ricordate adunque ancora un poco di lei?

Gian-Luigi fece un atto di vivacissima protesta.

– Se me ne ricordo!.. Ah voi tutti avete giudicato male di me, pel mio silenzio, pel mio apparente oblio di quell'infelice?.. Anche Lei, Don Venanzio, coll'anima sua sì mite e sì generosa!..

Il sacerdote volle parlare, ma egli non glie ne diede il tempo.

– Oh! non la condanno, nè mi dichiaro offeso… Ella ebbe in parte ragione… Sì, ho fatto male; avrei dovuto io digiunare, io piuttosto morir di fame e mandare a costo di qualunque siasi sacrifizio alcun soccorso a quella santa donna… Ella mi guarda con istupore, mio buon Don Venanzio, Ella non può comprendere com'io, vestito di questi panni, con questo florido aspetto di prosperità, parli di digiuno e di fame… Ma Ella nella sua vita modesta e ritratta non sa, non può nemmanco sospettare i misteri, i dolorosi, talvolta vergognosi misteri della vita cittadina che si nascondono sotto le apparenze d'uno sfoggio d'accatto… Lo dissi ier sera a Maurilio, le cui parole chiaramente mi espressero quelle rampogne cui con tanta mitezza ora mi adombrarono il suo stupore in vedermi, la sua interrogazione, mio buon Don Venanzio; fu un tempo in cui mentre portavo nei salotti eleganti la mia faccia sorridente e le mostre d'una ricchezza che non avevo, più volte mi rodeva le viscere il tormento della fame; e i pochi guadagni ch'io poteva fare, le poche rivalse cui mi riusciva in qualsiasi modo raccogliere, sa Ella come impiegavo? Qualche soldo appena a comprarmi in segreto, la sera, nascondendomi come per commettere una vergognosa azione, un pezzo di pan nero; e il resto a procurarmi guanti color di butirro, stivalini di vernicato e a farmi inanellar la zazzera dal parrucchiere alla moda!.. La mi dirà ch'ero pazzo, che mi facevo martire volontario d'una stupida vanità cui è un adulare il chiamarla ambizione; ma per me, pel mio sogno d'avvenire, pei miei disegni era una necessità. Ridevo crudelmente di me meco stesso, mangiavo con amaro dispetto, quasi con disprezzo di me quel tozzo di pan nero; mi dicevo, imprecandomi, che meglio la esistenza del villano che suda sull'aratro, che dico? meglio quella del galeotto che trascina la sua palla infame; ma non pensavo pure a cambiar di cammino, non pensavo a pentirmi; era mia sorte, era mio dovere continuare, o soccombere come un animale che crepa alla fatica, o riuscire.

«Don Venanzio, bisogna aver compassione di questa mia pazzia – se vuole così chiamarla. Essa è parte essenziale della mia natura: io sono venuto al mondo con essa; e per isradicarla da me avrebbe bisognato ben altra forza, ben altra indole che la mia non sia. Non se ne ricorda? Fin da bambino siffatti istinti si svegliarono nel mio essere e stupirono e spaventarono la sua prudente antiveggenza. Di molto ha Ella fatto per combatterli e vincerli; e nulla potè a ciò riuscire. Io credo che nel mondo conviene prendere gli uomini come sono, colle facoltà, le disposizioni, e quasi direi le attribuzioni che ha loro dato la natura. Da questa varietà di caratteri si genera lo infinito viluppo delle vicende del dramma umano di cui noi non possiamo vedere, nè indovinare, nè anco in alcun modo immaginare lo scioglimento e la ragione. A Lei, Don Venanzio, per parlare il suo linguaggio, dirò come, poichè la Provvidenza manda nel mondo questi varii tipi di individualità differenti, conviene pure che ciascuno abbia una sua parte necessaria nel concerto universale, e che dunque soffocare queste speciali tendenze, ridurre questi particolari caratteri alla norma comune, imbrancandoli nel gregge delle pecore che camminano per una via soltanto, è forse mancare eziandio alla suprema volontà e togliere un elemento al concorso dei molti su cui la sapienza regolatrice ha fatto assegnamento.»

Tentennò il capo Don Venanzio, poco persuaso dalla buona fede di Gian-Luigi in questa teoria delle cause finali.

– La Provvidenza, diss'egli gravemente, ma senza il pedantesco accento del predicatore, ci accorda varii istinti ed attitudini diverse, perchè diversamente possiamo concorrere alla grande e sublime unità dello scopo comune: ma questo scopo è il bene: ed hanno ad essere domati ed altrove rivolti quegli stimoli e quelle tendenze che ci piegano al male. Per questi la risultanza ultima non può essere stimata affatto buona se gli effetti più prossimi ed immediati cominciano per essere cattivi.

Gian-Luigi proruppe con impeto:

– Ah! ci sono certi affetti e passioni che misurarli alla piccola norma comune è errore.

Si raffrenò tosto: riprese la sua calma primitiva e la serenità sorridente.

– Ma io non son venuto qui per discutere: continuò egli. Ho già ammesso fin da principio che ho potuto aver torto. Però quello cui tengo a stabilire si è che il mio torto non fu così grave come Lei, Don Venanzio, e tu stesso, Maurilio, hanno creduto. Mi sarebbe stato possibile con quel modicissimo peculio che mi fu dato dagli eredi del mio protettore avviarmi per una vita rassegnatamente oscura e per ogni verso modesta: ed allora avrei potuto subito soccorrere d'un po' di pane la mia vecchia nutrice. Io volli invece tentare di metter la mano su più splendida sorte, tutto avventurare per tutto acquistare. Quando fossi riuscito non era più un misero soccorso soltanto, ma era la ricchezza ch'io avrei recata alla vecchiaia di quella donna che mi tenne luogo di madre. Come già dissi, ho lottato, ho sofferto, fui sul punto di cadere nella disperazione più volte. La perseveranza, la tenacità e il coraggio mi giovarono pur finalmente. Non sono ancora arrivato dove e come voglio: ma sono sulla strada, inoltrato forse più che della metà. Fra poco tempo – forse dei giorni soltanto – sarò alla meta. E frattanto da quella ricchezza che tanto tempo ostentai, senza possedere, incomincio ad avere favori e larghezze… Sono venuto qui a trovar Maurilio, perch'egli – e' m'era dolce la cosa passasse per le sue mani – facesse avere a Lei, Don Venanzio, questo migliaio di lire per la povera e buona Margherita. Ma la fortuna mi volle essere benigna di tanto da farmi trovar qui Lei medesimo, nostro buon padre, e son lieto di poterla pregare di viva voce di voler accettare quest'incarico di sovvenire con questa somma la mia nutrice.

Trasse di tasca un rotolo di napoleoni d'oro incartocciato, e lo porse al sacerdote, il quale lo prese con qualche esitazione.

– Mille lire, disse Don Venanzio, tenendo il rotolo fra le sue dita con un certo riguardo; è una ricchezza per quella povera donna: ma le riuscirebbe assai più gradito il dono, se tu stesso, Gian-Luigi, venissi a recarglielo, se tu stesso, come buon figliuolo fa per la madre, provvedessi ad acquistarle con siffatta somma ciò di cui ella abbisogna.

– Ha ragione, rispose Gian-Luigi, e codesto farei molto volentieri, glie l'assicuro, se lo potessi, ma pur troppo gravissime, pressanti e numerose occupazioni mi tolgono dal potermi recare per alcun tempo al villaggio… Ma le accerti alla buona Margherita, la prego, che appena mi sia fattibile – il che vuol dire fra una settimana o due al più – io mi recherò costà a vederla, a vedere quei cari luoghi pieni di tante memorie…

Si volse a Maurilio che era sempre stato muto fino allora, immobile, col suo sguardo penetrativo fisso sulle avvenenti sembianze del suo compagno d'infanzia.

– Ci andremo insieme, Maurilio, non è vero? Mi sarà più caro ancora il far teco questo primo pellegrinaggio di ritorno alla nostra piccola Mecca.

Maurilio fece un segno d'assentimento, ma non disserrò le labbra.

– Sta bene, disse allora il buon parroco, il quale, mezzo persuaso già dalle parole di quell'ingannatore, cominciava a trovarne minori i torti, ed aveva ripreso verso di lui l'accento affettuoso e cordiale di paterna tenerezza. Tu mi parli delle tue occupazioni che sono gravissime e numerose; ma quali son esse?

Il giovane non mostrò il menomo imbarazzo, e rispose con una specie di allegra leggerezza, facendo ballare colla mano inguantata i gingilli che pendevano dalla sua catenella d'orologio:

– Quali? Sono di vario genere… Prima di tutto, Don Venanzio, saluti pure in me un luminare della scienza medica, un dottore che ha saputo diventare, come si suol dire, alla moda.

– Medico! Come? Tu fai il medico?

– Sì signore. Non per tutti, non esclusivamente. Scelgo i miei clienti e le occasioni…

– Ma io ho sempre creduto che tu non avessi manco finito il corso di medicina.

– Finito e strafinito: esclamò Gian-Luigi dicendo questa bugia con più sicurezza che altri avrebbe avuta affermando una verità. Sono il medico prediletto delle signore che hanno i vapori e dei ricchi personaggi d'importanza che digeriscono male. Non accetto paga, ma mi forzano a prendere dei regali che valgono più del doppio… Non c'è mezzo migliore per farsi pagar caro che il non voler nulla. Ad un povero medico che sia un pozzo di scienza, ma che si presenti infangate le scarpe, il cappello frusto e gli abiti che mostrano la corda, non si aprono le soglie eleganti dei palazzi dei ricchi; ed è molto se lo si stima degno di curare i servitori: lo si paga e lo si tratta come un operaio qualunque. Al signor dottore che ha carrozza e veste come un milionario si spalancano i penetrali del tempio di Pluto. Io sono creduto in società un ricco che presta il soccorso della sua scienza a qualche amico per favore; poichè non ho bisogno, si crederebbe offendermi non regalandomi il doppio di quel che mi viene. Ma questa è la parte minore dei miei proventi. Faccio delle operazioni bancarie col re della nostra Borsa, il cavalier Bancone, a cui ho dato qualche consiglio per domare la sua gotta. Per riconoscenza egli mi fa da filo d'Arianna nel labirinto dei giuochi di Borsa. Ho cominciato per trafficare di capitali che non avevo: adesso faccio fruttare e rimpolparsi i guadagni avvenuti.

Don Venanzio aveva di nuovo nella sua fisionomia da galantuomo un'espressione di scontentezza:

– Io non me no intendo bene, diss'egli, ma questo non mi pare un lavoro serio.

– Seriissimo: rispose Gian-Luigi: perchè è quello che frutta di più.

– E onesto? soggiunse il prete.

– Certo! Il signor Bancone e i pari suoi sono gli uomini più stimati del mondo.

Don Venanzio si curvò nelle spalle.

– Sarà, conchiuse, ma io preferirei vederti medico nel nostro villaggio, guadagnar poco e far molto bene a quella povera gente.

Gian-Luigi interruppe vivamente con una strana intonazione nella voce:

– Oh di far bene alla povera gente io mi occupo di molto, e non solo alla povera gente del villaggio dove fui allevato, ma a tutta quella delle nostre contrade, e non negli angusti limiti soltanto che sono concessi ad un povero medico di campagna, ma in quelli fra cui spazia l'azione di un governo.

Don Venanzio guardava il giovane con tanto di occhi.

– Ella non mi comprende, soggiunse Gian-Luigi sorridendo, nè mi può comprendere, nè io mi posso per ora spiegare di meglio. È un segreto lavoro per cui sono venuto a cercare la collaborazione di Maurilio, e per cui quindi gli chiedo un colloquio sull'istante da solo a solo.

Il vecchio sacerdote guardò bene in volto l'uno e l'altro dei due giovani coi suoi occhi limpidi e sereni, e poi disse con quell'accento di paterna bontà che gli era naturale:

– Non capisco che cosa possa essere e non voglio capirlo… Possiate voi veramente essere così bene ispirati e così addotti sopra una buona via da ottenere alcun bene ai miseri che soffrono; ma permettete al vostro vecchio pastore di ricordarvi un consiglio di cui mi pare pur troppo abbiate bisogno ambedue; quello che nulla si fa di bene se non si procede col santo timor di Dio… Ora vi lascio soli, ed io con quel tuo amico, Maurilio, se gli è di comodo, andremo a trovar quella vecchia di cui ci hai dato l'indirizzo.

 

Maurilio ringraziò vivamente il parroco che così volesse far subito; Selva, che non aveva in quel punto occupazione nessuna, acconsenti sollecito di accompagnare Don Venanzio, e mentre i due trovatelli avevano il colloquio che vedremo nel capitolo seguente, Giovanni ed il parroco si recavano in casa la Gattona.