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Tra cielo e terra: Romanzo

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L’ufficiale guardò un istante negli occhi il signor di Vaussana; poi, senza batter ciglio, replicò brevemente:

– Sì.

– Sta bene; – disse Maurizio. – E quando?

– Oggi il dovere; – rispose l’ufficiale. – Domattina, se vi piace. —

Si salutarono freddi, e Maurizio partì.

Finalmente! finalmente! per quella volta egli si sentiva liberato d’un gran peso. Ah, la vita, che molesto fardello! E così, senza troppa fatica, per la mano del buon ragno… Ma sì, era ancora un modo di accostarsi a Gisella. Scese a passi più calmi il gran viale dei tigli; uscì tranquillo, quasi ilare, dal cancello. E perchè no? Voleva infatti esser ilare, parerlo a tutti, in paese; che il giorno dopo, risapendo una certa notizia, non avessero i maligni a metterla d’accordo con la sua cera da funerale. La sua vigilia non doveva esser triste: non è mai triste il soldato, il cavaliere, quando va a gittar la sua vita. Sorrise, adunque, sorrise a quanti incontrava per via, sorrise perfino al Pinaia, al panattiere arpagone, che gli rammentava i Feraudi. Anche da quei poveri contadini del Martinetto voleva andare, quel giorno. Voleva veder tutto, visitare tutti quei memori luoghi. Non aveva più terrori nell’anima; sarebbe andato lassù, a pregare, a pensare nella cameretta dove si era spenta Gisella; ed anche nel rifugio, sul torrione, dove la bella creatura adorata gli era caduta come morta fra le braccia, alla vista del frate. Ah, il frate! una allucinazione; egli lo sentiva bene, oramai, di aver veduto ciò che Gisella vedeva, e solamente perchè, sotto la sensazione di un alto spavento, le braccia dell’amata donna si erano avvinghiate al suo collo. Anche là, nella camera di Biancolina, non si era ripetuto il fenomeno, per il fatto che la mano di Gisella aveva stretta la sua, e gli occhi di lei lo avevano guidato a vedere ciò che ella vedeva? Quanti arcani, del resto, quanti misteri nella vita! e come l’invisibile d’ogni parte ci preme!

Passava in quel punto sulla piazza maggiore. Voltato l’angolo della chiesa, entrava nella via che metteva al Castèu. Un monaco, un frate cappuccino era là, davanti a lui di cinque o sei passi; muoveva lento, curvo, quasi piegato in due, rasentando il muro, come egli già lo aveva veduto una volta, passando di là con Gisella. Ma che? non poteva essere un altro? Maurizio affrettò il passo per raggiungerlo; gli venne a pari, l’oltrepassò, e si volse a guardarlo. Quell’altro alzò allora la faccia, e Maurizio lo riconobbe. Era lui, il padre Anselmo da Carsoli.

– Frate, che tu sia maledetto! – gli gridò inferocito Maurizio. – Domani… domani non ti vedrò più. —

Il frate era sparito. Ma non così presto, che alla maledizione del signor di Vaussana non avesse risposto levando la mano benedicente; benedicente, come l’aveva veduta Maurizio, al letto di morte della povera bella.

Capitolo XX.
Tra Cielo e Terra

Quel giorno, presso alle cinque del pomeriggio, mentre già si disponeva a scrivere una lettera per chiedere concerti al comandante Dutolet, il signor di Vaussana ricevette un biglietto del suo avversario, che lo aspettava al caffè di San Giorgio. Intese subito che lo stesso pensiero suo era venuto a quell’altro, ed uscì per andare da lui.

Si salutarono come due buoni amici, essendoci persone a qualche distanza, che potevano vedere e notare ogni cosa. Dopo di che il Dutolet, con molta calma e con altrettanta serenità, quasi con grazia, parlò in questa guisa a Maurizio:

– Signor conte, voi eravate molto afflitto, questa mattina, e per conseguenza un po’ alterato. Anch’io, quanto voi, ed avevo ragione di esserlo. Possiamo noi dimenticar le parole che ci siamo scambiate?

– No; – disse Maurizio.

– Era mio dovere di domandarvelo; – replicò il Dutolet, facendo un mezzo inchino. – Resta che c’intendiamo sull’ora e sul luogo.

– Domattina, si era detto; – disse Maurizio. – Di là da quella montagna, sulla vostra diritta, ce n’è un’altra, detta la Sisa. Risalendo dalla cascata dell’Aiga, ci si va di prateria in prateria. Lassù, al lembo dell’ultimo di quei prati, è il confine. Vi accomoda?

– Sì, – rispose il Dutolet. – Portiamo testimoni?

– Nessuno.

– Come vi piace. Ma uno di noi due non isfuggirà all’imputazione di assassinio.

– Ci ho provveduto, – rispose Maurizio, – scrivendo una dichiarazione in due originali. Firmerete anche voi. Eccoli appunto.

– Avete proprio pensato a tutto; – esclamò il Dutolet, prendendo i due fogli, a cui appose la sua firma colla matita. – Dunque lassù, al piano della Sisa. Ci sarò alle sei del mattino. Ma intendiamoci bene; – soggiunse egli; – senza vergogna d’un po’ di ritardo che si potesse fare dall’uno o dall’altro di noi.

– Giustissimo; – disse Maurizio. – Del resto, io m’incamminerò per tempissimo. Di sopra l’Aiga si vede la Balma; io vi vedrò sempre salir la montagna. —

Presi questi concerti si separarono. Maurizio si avviò verso casa. Non trovò sua sorella Albertina, e gli spiacque.

Si sente in cuore così facilmente, così naturalmente, il bisogno di stare un po’ vicini alle persone che si amano, quando si è sul punto di separarci da loro per sempre! Chiese di lei alla gente di servizio: era uscita, gli dissero; forse per far qualche visita. Non già alla Balma, pensò egli allora, poichè lassù era andata prima del meriggio, a pregare sulla salma del povero conte Ettore. In paese, dunque: ma il paese, per piccolo che fosse, aveva ancora troppe case, troppe famiglie amiche e conoscenti, tra le quali non poteva indovinare Maurizio, che salutava tutti, ma non faceva visite a nessuno. Era in queste incertezze sulla piazza maggiore: la chiesa si vedeva aperta, ed egli entrò in chiesa. Avrebbe dovuto pensarlo prima; sua sorella stava là, al suo solito posto, nella cappella di patronato della famiglia Sospello; stava là, visibile ancora nella penombra della sera imminente.

Non era giorno di benedizione; ma la contessina soleva andare in chiesa ogni giorno, o di mattina o di sera, salvo i casi d’impossibilità, quando le cure domestiche, o i doveri della ospitalità, venissero a frastornarla. Soleva dire che la casa del Signore riconcilia colla vita: non per bigotteria, ma per riposare lo spirito, una visita anche breve a quella casa è piacevole: là dentro, dopo tutto, si pensa meglio al buon Dio.

Il gran crocifisso, unica maraviglia artistica della chiesa parrocchiale di San Giorgio, torreggiava sopra l’altar maggiore, spiccando col suo color cereo sul fondo scuro dell’abside. I piedi del martire sparivano sotto una gran fioritura di rose, disposte a mazzo enorme, che s’intendeva benissimo esser legato al tronco della croce. Quelle rose d’ogni colore, che davano all’augusto morente l’aspetto di un trionfatore, erano l’offerta costante della contessina di Vaussana. Quando il giardino del Castèu non aveva più rose in copia, erano gigli; quando non aveva più gigli, si succedevano le azalèe, le peonie, le giorgine, gli amaranti, gli astri, e tutti gli altri fiori della stagione autunnale. Recava anche il suo tributo l’inverno; più scarso, ma sicuro anche quello, essendo fiori di stufa.

La chiesa era deserta, e Maurizio non volle disturbar la sorella neanche col rumore dei passi: perciò, appena entrato, si pose sull’ultima panca a destra, sotto la grande navata. Era il posto di Gisella, quando giungeva un po’ tardi, e non volendo dare spettacolo del suo passaggio lungo le arcate, s’inginocchiava umilmente lì, mescolandosi volentieri alle povere donne del paese. Là dentro, finalmente, egli ottenne ciò che da sei giorni desiderava invano. Si sentì d’improvviso stemperare il cuore: senza sforzo, senza impeto, le lagrime gli scesero dagli occhi giù per le guance, silenziose lagrime e fitte, come una pioggia d’autunno. E in mezzo a quelle lagrime vide chiarori maravigliosi; tra quei chiarori gli apparve la povera morta, tutta vestita di luce, risalente entro una schiera d’angioli all’incontro del Dio di misericordia. Allucinazione anche quella? Una voce dal profondo voleva dirgli di no.

Rasciugò le sue buone lagrime, vedendo muoversi sua sorella Albertina. Essa lo vide, passando; ed egli si alzò per accompagnarsi a lei.

– Pregavi? – gli chiese Albertina.

– Sì, per tutti; – rispose.

Tranquillissimo, quella sera, quasi sereno, ragionò lungamente di cento cose con lei, evocando memorie infantili, facendo perfino castelli in aria per i giorni che non sarebbero venuti. Non egualmente serena si mostrava Albertina; ma la buona fata del Castèu aveva imparato nella lunga solitudine a padroneggiarsi, a non lasciar troppo scorgere le sue tristezze. Quando soffriva, soffriva dentro, e i sorrisi, come pallide viole alpine, le fiorivano timidamente sul labbro.

Maurizio si ritirò nelle sue camere alla solita ora. Ebbe un sonno profondo, senza visioni, senza incubi. Anche il cervello ha le sue calme nei grandi momenti, come le ha il cielo innanzi la tempesta. Quando si svegliò, erano le quattro del mattino. Si vestì senza fretta; sotto un leggero pastrano che portava qualche volta per la nebbia, nascose la busta delle pistole, e dall’uscio dell’orto si avviò verso la montagna. Ad una certa distanza si volse, per guardare il Castèu, la vecchia dimora dei suoi, la casa dov’era nato, e mandò un bacio alla sua buona sorella che non avrebbe veduta mai più.

Non gli mancava il tempo; andò a passi lenti su per la ripida costa. Si fermò anche un istante al borro, per sentir la cascata. Cantava, il gran fascio delle acque scorrenti, cantava sempre la sua monotona canzone all’abisso. Ma allora il signor di Vaussana sentì per la prima volta due canti in uno. Tendendo l’orecchio, udiva attraverso il frastuono della cascata un suono più sottile e più lontano, molle, ondeggiante, come una salmodia di chiesa. Sorrise, ricordando che quel fenomeno di sdoppiamento dell’udito gli era occorso spesso; in istrada ferrata, per esempio, quando il fragore delle ruote, lo strepito, lo scricchiolìo delle carrozze in moto, lascia intendere, a chi presti attenzione, un suono lontano lontano, come di angeliche voci laudanti nello spazio. Non era una allucinazione, quella; Maurizio conosceva il fenomeno, ancorchè non sapesse darsene una ragione. Nondimeno, gli piacque di sentir quelle laude lontane, attenuate via via, evanescenti nel profondo dei cieli.

 

Passato il gran salto dell’Aiga, superato il colmo del monte, dove le acque correvano a guisa di ruscello, andò oltre, risalendo di prateria in prateria, fino al piano della Sisa. Il comandante Dutolet non era ancora arrivato: ma erano appena le cinque e mezzo; si poteva dunque aspettare. Il buon ragno non volle del resto approfittare della scusa che si era preparata; e Maurizio lo vide, alle cinque e tre quarti, sbucare da una macchia di abeti, volgendo gli occhi di qua e di là, in atto di orientarsi tra quei rialti verdeggianti che vedeva per la prima volta. Maurizio sventolò il fazzoletto; il buon ragno lo vide, fece un gesto di riconoscimento e si avviò più sollecito, allungando quel suo paio di seste. Salutò, come fu vicino; Maurizio rese il saluto, e si avviò ancora per fargli strada sopra un bel prato alto, incurvato a guisa di sella tra due colmi di monte.

– Ecco il confine; – disse Maurizio. – Se voi andate trenta passi più in là, siete sul vostro.

– Tra due patrie, – osservò il Dutolet, incamminandosi, – che piccola cosa a vedere! e che gran cosa a pensare!

– Le più grandi cose son là; – soggiunse Maurizio, indicando su certe creste montuose alcune linee biancheggianti. – Il vostro forte di sbarramento è quello; il mio è quest’altro. Speriamo che tacciano sempre.

– Ma parlando noi per essi, non è vero? – esclamò il Dutolet.

– Che farci? – ribattè Maurizio. – Volete che contiamo i passi?

– Avete detto a me di farne trenta, per essere sul mio; – rispose il Dutolet. – Ne ho fatti trenta: accettiamo l’assegnazione del destino. Ancora una volta io vi domanderò: non possiamo dimenticare le nostre parole di ieri?

– No, – disse il signor di Vaussana, – vi ringrazio. —

E cavò dalla busta le sue pistole.

– Sono di misura eguale alle mie; – notò il Dutolet. – Tenga ognuno le sue. —

Così dicendo, prese posizione di combattimento. Il signor di Vaussana lo imitò.

– A voi; – diss’egli.

– A voi; – rispose quell’altro.

– Capisco; – disse allora Maurizio. – Si gareggia di cortesia. Spariamo al comando, vi pare? Conteremo uno, due, all’unisono; al tre faremo fuoco.

– Sia pure; – rispose l’ufficiale.

L’uno e l’altro presero a contare; al tre due lampi s’incrociarono, e si udirono simultaneamente due colpi.

Rimasto illeso, Maurizio guardò trasognato il suo avversario. Voleva parlare, ma quell’altro lo precorse.

– Altro è tirar sul bersaglio, altro sull’uomo; – diss’egli.

– Puntando, sicuramente; – rispose Maurizio. – Ma voi tirate senza puntare, e l’errore non è più possibile.

– Chi ve lo dice, signor di Vaussana?

– Ricominciamo, allora.

– No.

– No, voi dite? perchè? Comandante Dutolet, voi mi mancate di parola. —

Il comandante Dutolet s’inalberò a quella osservazione, che voleva essere ingiuriosa. Ma poi crollò il capo, e rispose molto tranquillamente:

– V’ingannate. Io non vi avevo promesso nulla. Mi avevate chiesto se avessi sempre il mio colpo infallibile: vi ho risposto di sì. Ne dubitate? Ecco là il vostro cappello sull’erba, un po’ indietro a voi; trentadue, forse trentatrè passi; guardate. —

Così parlando, assai lentamente, aveva levata dalla busta la seconda pistola. Senza puntare, non facendo altro che alzare il braccio in linea, colpì il cappello di Maurizio, che ruzzolò al colpo due passi più in là.

– Vedete, signor conte? – ripigliò allora il comandante Dutolet. – Quel che prometto mantengo. Se ieri mi aveste fatto giurare di uccidervi, credete pure che non vi avrei mancato di parola. A me lo avevo promesso, invece, a me solo. Che volete! un’idea; ed era ben salda nell’animo mio, ieri mattina. Ma a me posso mancar di parola, sicuro del fatto mio. Ed ho cambiato opinione.

– Voi siete crudele, – disse Maurizio, – ed io ho meritato lo scherno. Ma qui ce ne ancor una delle mie; – soggiunse, chinandosi alla busta, – ed è carica.

– Fermate! – gridò il Dutolet, avvicinandosi rapidamente. – Ho ancora qualche cosa da dirvi. Signor di Vaussana, credete in Dio?

– Sì; – rispose Maurizio.

– E allora, perchè suicida? Aggiungete che non me lo son meritato neppur io, questo infame spettacolo, dopo essermi esposto abbastanza cortesemente al vostro fuoco. Ho pensato, ieri, ho pensato a lungo, e l’ira mi è morta nell’anima. Voi pure, a vostra volta, pensate. C’è stato un fallo, signor di Vaussana; un fallo che ha già cagionato due morti; quel fallo, chi lo ha commesso? V’intendo; voi volevate punirlo ora; avete il coraggio di far ciò. Ma non è il coraggio del valoroso, quello a cui vi appigliate; e la pena, del resto, non avrebbe adeguato il delitto. Non sapete voi d’una pena più grave, che è il vivere? Sì, il vivere, lasciatemi finire il mio pensiero; il vivere vergognando, il vivere soffrendo; il vivere tormentandosi, uccidendosi giorno per giorno. È questo il suicidio sublime a cui vi condanno, nel nome di quel vecchio onorato che dorme la sua gran notte oramai; – proseguì il comandante Dutolet, alzando la voce dal tono grave al solenne. – Laggiù, oltre quelle vette, a quattro leghe da Grenoble, dove io son nato, tra montagne di difficile accesso, segregati dal mondo, in dura disciplina, accanto ad uomini che non avendo fatto il male si son pure rinchiusi per evitarlo, muoiono così di giorno in giorno molti infelici che hanno fallito, che hanno fatto soffrire, che portano il peso dei loro trascorsi. Meditando, tacendo, scavando con le loro mani la fossa che li deve accogliere, aspri cavalieri del dolore, pregano per coloro che hanno offesi; tristi e rassegnati, sospesi tra cielo e terra, attendono, invocano, espiano. —

FINE