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Tra cielo e terra: Romanzo

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Capitolo XVIII.
Povera bella!

Biancolina Feraudi ebbe quel giorno un segreto da custodire, anche per suo marito, quando il brav’uomo fu richiamato a gran voce dal pascolo e mandato in fretta e furia alla Balma, per avvertire il conte Matignon del triste caso toccato alla sua signora, mentre ella si trovava di passaggio al casolare del Martinetto.

Il generale ricevette l’annunzio doloroso mentre ritornava da una delle igieniche cavalcate che da pochi giorni aveva preso a fare per ordinazione del medico. Spaventato accorse, ansando e sbuffando, ma facendo i passi lunghi e frettolosi, come un giovanotto, non avvedendosi neanche della cattiva strada che doveva fare per recarsi lassù. Quando giunse, trovò Gisella ancora mezzo vestita, distesa sul letto di Biancolina, e il medico di San Giorgio al suo capezzale. La povera bella era inerte, con le braccia abbandonate sul lenzuolo, gli occhi semichiusi, cerea nel volto, come una morta.

– Che cosa è stato? – gridò il generale, cacciandosi avanti a guardare, poi rivolgendosi con gli occhi stralunati verso il dottore. – Parlate, in nome di Dio!

– Signor generale, che dirvi? – mormorò il dottore. – È ancora il suo male. Non era eliminata… non poteva eliminarsi la causa… e gli effetti si ripetono. Fortuna ancora che il signor di Vaussana è venuto ad avvertirmi subito.

– Sì, – soggiunse Biancolina, – e fortuna maggiore che i miei piccini l’abbiano veduto passar qui sotto, mentre dal Castèu si recava alla Balma. È stata una vera provvidenza che egli si ritrovasse sulla strada. —

Quella brava donna non era stata avvertita nè pregata di nulla; aveva indovinato tutto, o quasi tutto, e trovava nel suo cuore riconoscente il segreto delle pietose bugìe. Ma non era tempo per nessuno di fare indagini troppo minute: l’essenziale era di provvedere, di correre ai rimedii, di salvare, se fosse possibile, la povera inferma. Che cosa pensava il medico? che cosa consigliava? Il medico Soleri per allora non pensava, non consigliava nulla; bensì aveva molto da fare. Ripigliava in quel punto l’ufficio che dall’arrivo del generale gli era stato interrotto: con forti, assidue strofinate cercava di riattivare le funzioni cutanee. Biancolina, dal canto suo, con un gran ventaglio (il suo ventaglio di sposa, serbato fin allora gelosamente nel suo forziere nuziale) rinfrescava l’aria al viso ed al petto dell’inferma.

– Non c’è altro? – chiese il generale, dopo alcuni minuti. – Non c’è altro da fare?

– Sì, sì, non dubitate; – rispose il dottore. – Si fa ora quel che si può, in attesa dei rimedii. —

Aveva appena finito di parlare, che si sentì rumore di persone accorrenti. Giungeva allora il signor Maurizio, affannato, grondante di sudore, con una sporta tra mani.

– Ecco; – diss’egli, senza pure avvedersi della presenza del generale; – vedete se c’è tutto quello che avete ordinato.

– Siate benedetto! – rispose il dottore, mettendo mano alla sporta, e traendone fuori l’uno dopo l’altro parecchi involtini, boccette ed arnesi di varie forme. – Anche del cognac! egregiamente; – soggiunse, prendendo una bottiglia di vecchio Martel, e versandone alcune gocce in un piccolo cucchiaio, che accostò subito alle labbra dell’inferma.

Il generale si buttò nelle braccia di Maurizio, mescolando lagrime e ringraziamenti. Maurizio, a tutta prima confuso, accolse in silenzio quella dimostrazione affettuosa, che sentiva di meritar così poco. Ben presto la loro attenzione fu rivolta alla povera giacente. Le gocce dello spiritoso liquore l’avevano rianimata un tratto. Ma il respiro era quasi impercettibile, e si sentivano appena i battiti del cuore. Raccomandato a Biancolina di strofinar lei le braccia e il seno dell’inferma, il dottore aveva messo mano ad altri apparecchi, per farle alcune iniezioni ipodermiche di etere e di liquore anisato di ammonio. Era di una operosità portentosa, il bravo dottore. Trovò anche modo di applicare qualche vescicatorio volante, determinato con ammoniaca liquida concentrata. Oramai, la sporta di Maurizio gli permetteva quell’abbondanza di tentativi. E ci volevano tutti, proprio tutti, per far riavere la povera donna. Respirando sempre a stento, aperse gli occhi e li girò lentamente intorno; riconobbe il generale, allora, e con un fil di voce proferì il nome di lui.

– Ettore!..

– Oh, Gisella, figlia mia! – gridò egli, precipitandosi alla sponda del letto e dando in uno scoppio di pianto.

– Via, via! gli uomini non ridiventino bambini! – disse il dottor Soleri, intromettendosi coll’autorità del suo ministero. – Generale, lasciate fare; non turbiamo con queste commozioni il poco che si è potuto ottenere finora.

– Avete ragione; – disse il vecchio, ritraendosi; – obbedisco. Ma voi salvatela, dottore, salvatela! —

E andò singhiozzando a sedersi in un angolo, accanto a Maurizio, che si era buttato là sopra una scranna, con gli occhi a terra, senza parole, senza lagrime. Poco stante giungeva la contessa Albertina che avevano fatto chiamare i Feraudi. La mite e buona signora del Castèu, col pronto coraggio silenzioso che è tutto delle donne, prese subito il suo posto d’infermiera accanto al vecchio dottore.

Passarono due ore di terribile angoscia per tutti. Il respiro dell’inferma si era fatto più lento: appena dieci respirazioni al minuto. Il dottore credette necessario di avvertire che non aveva più speranze. Veramente, non ne aveva avute mai, dal momento ch’era stato chiamato. Ma parlava così per trarne occasione di consigliare che si mandasse pel prete, se pure i conforti religiosi fossero per piacere alla famiglia. Albertina conosceva l’animo di Gisella: si affrettò a condurre il generale fuori della camera, per dirgli il parere del medico, e insieme il suo consiglio, che non poteva essere disforme dal desiderio della malata.

– Tutto ciò che vorrete; – rispose il vecchio gentiluomo, stringendosi i pugni alla fronte. – Se Dio facesse un miracolo! Credete voi che lo farà? —

Albertina levò gli occhi al cielo, e uscita di là spedì subito ad avvisar l’arciprete di San Giorgio.

Mezz’ora dopo don Martino era giunto, con la cotta, la stola e la pisside, involta nel suo copertoio di seta. Dio entrava con lui; si ritirarono tutti. La giacente accolse don Martino con un lampo dagli occhi e un sorriso. Certamente aspettava quel momento. Ma non aveva forza di parlare, per confessarsi; don Martino parlò per lei; all’invito del confessore, una lieve pressione di mano, un lieve cenno delle labbra, doveva dire il pentimento delle colpe. L’assoluzione fu pronta, e pronto del pari fu il rito che univa quell’anima a Dio. Un senso di beatitudine si diffuse allora sul volto cereo della morente. Il medico poteva rientrare, e tutti gli altri con lui.

Il generale era rimasto nella cucina, seduto presso la tavola, con le braccia ripiegate sulla lastra e il volto ascoso nelle braccia. Doveva essersi assopito; non si era mosso, infatti, nè alla partenza di don Martino, nè all’andare e venire degli altri.

Maurizio entrò a sua volta nella camera, e si accostò al letto di Gisella. Non poteva più resistere al desiderio di vederla ancora. Il medico e Albertina stavano a’ piedi del letto, preparando una pozione, ed egli fu solo un istante al capezzale. Gisella aveva gli occhi semichiusi; lo vide, lo riconobbe, e fece uno sforzo per proferire qualche parola. Non fu che un soffio, per altro; ma egli intese quel soffio.

– Dio perdona; – diss’ella.

– Oh! perdoni a tutti; – rispose Maurizio.

Gisella aveva mossa la mano; ed egli aveva presa quella mano. Gisella allora volse gli occhi, come invitandolo a seguire il suo movimento; ed egli pure volse gli occhi dove ella accennava. Ah! che voleva dir ciò? Maurizio rabbrividì, mentre un sudor freddo gli bagnava le tempie. Dall’altra banda del letto, il frate! ancora il frate! Ma egli aveva il cappuccio calato sulle spalle; la testa del padre Anselmo appariva intiera, luminosa; l’aspetto era benevolo, la mano era stesa in atto di benedire.

Maurizio s’inchinò umiliato, e lasciò la mano di Gisella. Quando rialzò gli occhi non vide più il monaco. La visione era sparita. Gisella sorrideva ancora, e cercava con gli occhi, pareva domandar qualche cosa, o qualcheduno.

– Chi? – disse Maurizio – il dottore?

Ella fece un cenno di diniego col capo.

– Il generale? – rispose Maurizio.

Il capo e gli occhi di Gisella accennarono di sì.

Maurizio si mosse sollecito, e andò dal generale, che era ancora assopito. Scosso da lui, il conte Ettore si destò in soprassalto.

– Morta? – esclamò egli, rabbrividendo.

– No, generale; vi chiede. —

Il vecchio gentiluomo accorse, e si chinò con atto affettuoso verso di lei. Gisella guardò il marito, lo guardò lungamente; poi si sforzò di sorridergli. Schiantava il cuore, quel triste sorriso. E volle parlare, la povera creatura; ma non le venne più fatto. Maurizio, che vide l’atteggiamento di quelle labbra scolorate, Maurizio che ne colse una sillaba, intese ciò che la morente voleva dire al marito. E si ritrasse ancora, premendosi il pugno al cuore, che pareva volesse scoppiargli in quel punto.

– Ah! – pensò egli. – Perdono! sempre perdono! Chi perdonerà a me il mio delitto? —

Il rantolo crescente diceva che gli ultimi momenti si avvicinavano. Il medico tentò ancora di richiamare quella povera vita fuggente: ma l’etere non valse più a prolungarle l’agonia. Erano paralizzate le contrazioni del cuore; le respirazioni non più di sei al minuto. Albertina s’inginocchiò presso la sponda del letto, pregando. Anch’egli inginocchiato, il conte Ettore copriva la mano di Gisella delle sue lagrime silenziose. Quella mano a grado a grado si raffreddò tra le sue. Era cessato il respiro, cessato il movimento del cuore; un placido sorriso si era diffuso sulle labbra di Gisella. Le ombre del crepuscolo incominciavano ad invadere la stanza, viva ancora di mormorate preghiere, di mal rattenuti singhiozzi, e la bella creatura si era spenta dolcemente, addormentata con Dio.

 

Quella sera fu un gran pianto a San Giorgio. È dolore, è rammarico profondo in ogni paese, quando muore una bella donna, quando sparisce per sempre una di quelle figure in cui eravamo avvezzi a vedere la divinità in forma terrena. Ma nel paese di San Giorgio la contessa Gisella non era soltanto ammirata per la sua grande bellezza; era anche amata per la sua grande bontà. Dopo che l’avevano veduta entrare in chiesa, quei buoni alpigiani la consideravano una santa, e non dubitavano punto ch’ella non fosse per convertire alla fede il marito.

L’incredulità del conte Ettore ebbe ancora in quel giorno uno scatto; e fu quando vollero allontanarlo di là, facendogli intendere che tutto era finito. Alla contessa Albertina che con delicatissimi modi cercava di condurlo fuori, trovando per quello sventurato le parole del cuore, egli rispondeva feroce:

– Ah, la vostra religione! la vostra religione è una grande menzogna. E voi, con le vostre divozioni, l’avete uccisa; coi vostri digiuni, coi vostri scrupoli, coi terrori del vostro inferno l’avete assassinata. —

Albertina chinò la fronte, in atto di rassegnazione sublime. Poi dolcemente, quasi umilmente, gli disse:

– Il vostro dolore è legittimo, è sacro. Ma pensate, signor conte, che un angelo è salito in cielo a pregare per voi. —

Il conte Ettore fu atterrato da quella calma risposta; ed anche si pentì d’aver parlato con tanta durezza.

– Perdonate; – le disse. – Voi che credete, siete angeli in terra. —

Quella sera la contessina di Vaussana ebbe testa per tutti. Fatta preparare una lettiga e adagiare sovr’essa la sua morta amica, la fece trasportare nella notte alla Balma. Triste convoglio a lume di luna; triste ritorno della povera Gisella alla dimora de’ suoi padri, dond’era uscita il mattino con tanta gioia nell’anima, così fiorente di salute e di bellezza! La riposero nel suo letto; la sua stanza, tutta ornata di fiori e di doppieri, fu tramutata in camera ardente. Tre giorni la salma fu lasciata colà, assiduamente vegliata dai suoi, e dagli amici della famiglia, che si davano la muta. Così era adempiuto un desiderio della morta, a cui l’immediato trasporto della salma al camposanto era sempre parso un atto irriverente e crudele. – Io non intendo, – aveva detto essa tante volte, – io non intendo, quando uno muore, che smania sia quella dei cari congiunti di levarselo subito dagli occhi. Temono forse che non sia morto davvero, e che possa da un momento all’altro riaprire i suoi alla luce? —

Ma per lei non c’era più dubbio. Al terzo giorno un indugio maggiore sarebbe stato irriverente e crudele come una più pronta levata. La povera Gisella fu composta nella bara, e molti fiori scesero a dormire con lei nel chiostro della chiesuola patronale, dove già riposavano tante castellane dei Matignon della Bourdigue.

Maurizio s’era preso il carico di tutti quei funebri uffizi. Non aveva lagrime; era come istupidito; pareva tranquillo. Anch’egli aveva vegliate le due notti nella camera ardente, a due passi dal generale, che restava là, col capo tra le braccia ripiegate sulla spalliera d’una seggiola, muto, immobile, assopito nel suo dolore. La prima notte il vecchio non aveva notata la presenza di Maurizio: si avvide di lui sul finire della seconda, all’atto che fece Maurizio di andare a raddrizzare un torcetto.

– Voi? – gli disse sottovoce. – Perchè non siete andato a riposare?

– Lasciarvi solo?.. – balbettò Maurizio. —

Il generale tentennò la testa, e trasse un sospiro.

– Non lo sono io forse, e per sempre? – esclamò. – Ho perduta la poesia della mia vita; ho perduto il mio Dio. —

E diede in un pianto dirotto. Poteva piangere, quell’uomo. Maurizio no. Perchè? Egli ne sentì una rabbia sorda, profonda nel cuore. E crescendo questa, e montando, come fa certe volte, dal cuore alle labbra, volle dire a quell’uomo: vi ho ingannato. Sarebbe stata un’espiazione. Aveva il coraggio fisico di farlo; gli venne meno il coraggio morale. Infine, il dire a quell’uomo: vi ho ingannato, non sarebbe stato un confessargli altresì: ella vi ha ingannato?

Ed era là, sempre là; accanto a quell’uomo, per non lasciarlo solo nel suo dolore. Il giorno dopo la morte di Gisella si era telegrafato al Dutolet, che si trovava allora di guarnigione a Saumur, sperando che potesse ottenere una licenza straordinaria, per venire ad assistere il suo vecchio comandante. Il Dutolet possedeva tutta la fiducia del conte; conosceva i suoi interessi; poteva essere di un prezioso aiuto al suo generale, che oramai non pensava più a nulla; vera rovina d’uomo e d’intelligenza!

Maurizio era andato un mattino a cercarlo. Il conte non si vedeva al pianterreno, ed egli salì al primo piano, andando di camera in camera, fino alla stanza di Gisella. Era di casa, allora più che mai; nessuno poneva mente al suo andare per ogni verso, là dentro. In quella stanza, del resto, egli entrava ogni giorno, restandoci lunghe ore in compagnia del padrone di casa, muti ambedue. La stanza, tolti da tre giorni i funebri apparati, era vuota e fredda; per le finestre aperte penetrava la luce grigia d’una giornata nuvolosa. Il letto, il piccolo letto sotto un gran padiglione di stoffa azzurra operata, con trine di vecchio oro, si vedeva diligentemente rifatto, come se aspettasse ancora la sua dolce signora. A capo del letto, sulle grandi pieghe della cortina, pendeva in isporto una tavola antica, donde una bella Madonna di Ludovico Brea, forse il capolavoro del buon pittore nizzardo, chinando amorosamente la testa sul divino infante, sembrava covare, coi grandi occhi neri, il capezzale della contessa.

Entrato in quella camera triste, Maurizio provò un’altra volta il senso di mancamento che lo assaliva sempre colà, più profondo che altrove. Quanto tempo vi rimase meditando? Non lo seppe egli, che oramai non contava più il tempo, nè più badava ai proprii atti. Entrò ad una cert’ora il conte Ettore, e non parve avvedersi della presenza di Maurizio; nè questi si mosse per lui dall’angolo in cui era seduto. Era sempre così, tra quei due. Il generale andò risoluto verso il piede del letto, s’inginocchiò, ascose la faccia sulla balza della coperta di seta; e rimase là, in atto di preghiera, singhiozzando. Maurizio sentì una stretta al cuore; gli parve di soffrir mille morti, mentre quell’uomo piangeva e pregava, ed egli non poteva pregare nè piangere. Soffriva ancora pensando che le labbra di quell’uomo baciavano il tessuto morbido su cui tante volte si era posata la mano di Gisella; e così soffrendo sentì l’odio antico montar su, montar dal cuore alla gola. Maurizio in quei giorni faceva paura; non lo sapeva, perchè non si guardava più, non badava più a sè; ma era diventato uno spettro. Lo vide il generale, quando si alzò; lo vide, lo fissò lungamente negli occhi, fissato lungamente egli pure da quegli occhi lucenti nell’ombra, e gli disse con accento di stizza:

– Tu soffri dunque più di me? —

Maurizio rabbrividì involontariamente alla domanda improvvisa. Era anche la prima volta che quell’uomo gli dava del tu. Non si mosse, tuttavia; non rispose; seguitava a guardare.

– Mi annoi; – riprese il vecchio, cedendo ad un moto repentino di collera. – Va’ via. —

Fremette quell’altro, sentendo l’offesa. E si alzò, guardandolo ancora, guardandolo sempre. Una frase, la frase, la terribile frase, voleva in quel punto venirgli alle labbra. Già apriva la bocca; già stava per proferirla, mentre il vecchio pareva aspettarla, e aspettandola gli s’illuminavano d’una strana luce gli sguardi. Ma quella luce si spense ad un tratto; le palpebre si abbassarono, si chiusero violentemente, e la fronte del vecchio si scosse, come in atto di scacciare a forza un pensiero molesto.

– No, no! – gridò egli con piglio furibondo, con accento disperato. – Va’ via! va’ via! va’ via! —

Maurizio raccapricciò, al pensiero di ciò che stava per fare. Chinò la testa, come dicendo a sè stesso: ha ragione; ed uscì dalla stanza, mentre quell’altro, non istando più alle mosse, prendeva a misurare con passi concitati il pavimento. Scese le scale, fuori di sè dall’ira, dal rimorso, dalla vergogna: sarebbe giunto fuori dell’atrio senza vedere nessuno, se proprio sul limitare il passo non gli fosse stato impedito.

Era un gran movimento, laggiù: i servi affacciati sull’ingresso; un facchino che entrava allora, con una grossa valigia sulle spalle; dietro a lui, ancora sulla gradinata, un bagliore di larghi e lunghi calzoni rossi. Maurizio riconobbe il comandante Dutolet, arrivato in quel punto, ancora in piccola divisa di capo di battaglione. Non poteva evitarlo. Del resto, perchè lo avrebbe evitato? Veniva a dargli la muta; veniva proprio in buon punto, mentre egli smontava la sua guardia, e per sempre.

Il buon ragno, come lo chiamava Gisella, non gli fece dimostrazioni di tenerezza. Erano sempre stati, l’uno verso dell’altro, nei termini di una fredda cortesia. Un cenno del capo, una frase a mala pena incominciata, che volesse dire e non dire, dovevano essere più che bastanti. Maurizio, per altro, nel passargli daccanto, aggiunse poche parole di ripiego, che nella gravità del momento potessero giustificare la freddezza dell’incontro, agli occhi della gente di servizio.

– Il generale – diss’egli – ha gran bisogno di voi.

– Lo penso; – rispose l’ufficiale, facendo un breve saluto cerimonioso.

Maurizio s’incamminò sulla spianata, verso il gran viale de’ tigli. Oramai, per ritornare al Castèu, come per venire alla Balma, non passava più dal sentiero della montagna. «Lo penso» andava intanto ripetendo tra sè: «Lo penso!» E pensò egli pure; pensò che il Dutolet aveva ragione anche lui, se pensava che egli, Maurizio, non fosse il miglior compagno di lutto per il vecchio castellano della Balma.

Capitolo XIX.
Rovine!

Giunto al Castèu senza neanche vedere la strada, simulò un mal di capo fortissimo, intollerabile. Effetto di grande stanchezza, soggiungeva egli; passerà con qualche ora di riposo. La stanchezza era più che giustificata da tante veglie, da tante commozioni, sostenute pei suoi amici della Balma. In casa volevano fargli prendere qualche ristoro; ma egli ricusò asciuttamente ogni cosa; voleva dormire, dormire, e nient’altro. Andato a rinchiudersi nella sua camera, si buttò vestito com’era sul letto, e si addormentò. Certamente era stanco; la natura voleva la parte sua. Ma se il corpo dormiva, la mente vegliava, la mente torbida di dolorosi pensieri. Stette lunghe ore sul letto, in apparenza inerte, ma col cervello sconvolto, agitato da sogni pazzi, da visioni terribili, da incubi spaventevoli. La montagna gl’incombeva sull’anima; la cascata dell’Aiga aveva gran parte nelle visioni del dormente. Cantava l’abisso, invitandolo; ed egli e lei si precipitavano abbracciati nel baratro. Ah, meglio sarebbe stato il morire così, tutt’e due, in un punto, che non quello spegnersi lento e doloroso di lei, e il sopravviver codardo di lui. Perchè viveva egli ancora? perchè il cielo non aveva pietà? perchè lo condannava a star lì, ancora e sempre, sospeso ad un filo? L’idea del suicidio, ultimo scampo ai terrori, non gli era venuta fino a quel punto, neanche nel sogno. Perchè? forse perchè lo stato suo era tutto d’inerzia, non di ribellione al dolore. Si sentiva palleggiato, travolto di visione in visione, mezzo addormentato, mezzo desto, tra la incertezza e la coscienza di sè. Sopra tutto, sentiva un grande stiramento delle fibre del cervello, che parevano volersi tutte spezzare, e non si spezzavano mai. Ad un certo punto si vide ancora ammalato, col ghiaccio alla testa, vaneggiante, delirante, colla gente attorno, che ascoltava tutte le sue parole, che coglieva a volo tutte le confessioni a lui strappate dalla febbre. E quell’uomo lo aiutava a parlare, gli levava le parole di bocca, compiva egli le frasi che non uscivano intiere; la povera creatura adorata si torceva nello spasimo, si copriva la faccia con le palme, negava, fuggiva disperata dalle unghie del vecchio; ed egli, trattenuto, inchiodato là dal suo male, non poteva muovere al soccorso. Che orrore! e quell’altro l’aveva afferrata pei capelli; alzava la mano, armata d’un coltello, e feriva, feriva a colpi replicati. Il sangue scorreva, allagava il terreno, cresceva, cresceva, ed egli ci diguazzava per entro. Che orrore! Volle uscirne, uscirne ad ogni costo, scivolando, lordandosi di quel sangue, bevendolo, bruciandosi il cuore. E si destò in soprassalto, non vedendo nulla, ma sentendosi nel suo letto, e udendo battere, batter forte, a replicati colpi, all’uscio di strada. Quei colpi rintronavano sinistramente nella oscurità della notte.

 

Balzò dal letto e corse ad aprir la finestra. Un barlume di luce bianchiccia appariva da levante. Potevano esser le tre del mattino. Chi batteva frattanto? Si affacciò, per domandare, mentre un’altra finestra si apriva al piano inferiore.

– Son io… Filippo; – rispose una voce dal piazzale.

Filippo era il nome di uno dei servitori della Balma.

– Che c’è? che volete? – chiese Maurizio, riconoscendolo.

– Il generale… – ripigliava quell’altro, con voce rotta dall’affanno. – Signor conte, il mio padrone sta male, molto male. Venga per carità. Son già passato dal medico, che si è vestito subito; a quest’ora è già in cammino. —

Maurizio lasciò il davanzale, e al fioco albore che penetrava nella camera, andò verso l’uscio. Era vestito tuttavia; poteva correre senz’altro. Sul pianerottolo, con un lume tra le mani, si affacciava allora allora il suo servitore, che veniva ad offrirgli l’opera sua.

– Signor conte, – gli disse il servitore, – non vuole almeno cambiarsi? Ne avrà bisogno, mi pare; perchè senza spogliarsi è andato a letto: e ieri, e l’altra notte non ha fatto che dormire. Sarà anche necessario che prenda qualche cosa.

– No, no, impossibile; non c’è tempo da perdere. —

Così dicendo, Maurizio infilava la scala. Al piano inferiore trovò illuminato il salone. Una figura di donna, in accappatoio bianco, veniva incontro a lui. Gli parve di veder Gisella, e tremò tutto: ma si riebbe tosto, riconoscendo Albertina.

– Oh Dio! – diss’ella. – Sempre disgrazie?

– Sorella mia, – rispose tristemente Maurizio, – è questo il tempo. Pregate per chi n’è stato cagione. —

La contessina chinò gli occhi lagrimosi, appoggiandosi alla parete. Era profondamente commossa, la pietosa donna, e bene intendeva ciò che volesse dire suo fratello in quel punto. Egli passò, scese rapidamente nel vestibolo, e aperto il portone uscì fuori. Andava a bruzzico, vedendo abbastanza la strada; non badando, per altro, che passava pel sentiero della montagna. Se ne avvide, al rabbrividire che fece, sentendo sulla sua testa il fragore della cascata.

Che orrore! che orrore! E ad un certo punto, udendo dietro a sè un rumore di passi, un rumore tanto più incalzante quanto più egli correva veloce, pensò che uno spettro lo inseguisse. Di certo, le visioni e gli incubi di quelle trentasei ore passate non lo avevano ancora abbandonato del tutto. Fermatosi, col coraggio della disperazione, vide Filippo, che lo seguiva ansimando.

– Signor conte, – gli disse il brav’uomo, – è difficile seguirla. Pare che abbia le ali. —

Giunto alla Balma, trovò tutta la casa in trambusto. Ascese le scale volando, come diceva Filippo; seguito da lui entrò nell’appartamento del generale. Il medico Soleri stava già nella camera. Si volse, all’apparire di Maurizio, e crollando malinconicamente la testa, gli disse:

– Sono giunto anch’io troppo tardi. —

Maurizio si avvicinò al letto del generale. Il vecchio gentiluomo era là, disteso, irrigidito, livido, con gli occhi semiaperti, la bocca fortemente contratta da un lato; fiero ancora nell’aspetto, orribile a vedersi nella torva guardatura di quegli occhi stravolti.

Com’era andata? I servitori raccontarono. Il generale si era ritirato nella sua stanza alle dieci di sera. Nella notte, intorno alle due, aveva suonato. Filippo che dormiva poco distante da lui, era accorso; ma il suo padrone non aveva potuto dirgli perchè avesse suonato; rantolava, agitava un braccio, come in atto di chieder soccorso. Spaventato, il servitore si era affrettato a svegliare il comandante Dutolet e tutti gli altri della casa: poi, mentre essi cercavano di soccorrere il generale, dandogli a bere qualche goccia di liquore, spruzzandogli d’acqua il viso ed il petto, egli, Filippo, era corso a precipizio in paese per avvertire il medico, per avvertire il conte di Vaussana.

Nè altro c’era da dire. Qualcheduno, alla rapidità fulminea di quella morte, aveva sospettato un suicidio. Non potendo sopravvivere alla contessa, aveva egli forse ingoiato un veleno? Ma così non la pensava il dottore, osservando tutti i segni di una apoplessia per congestione cerebrale. A questa fine il conte Ettore era predisposto dall’età, dalla vita sedentaria, contro cui il medico stesso aveva già protestato più volte. Causa prossima del triste caso non poteva essere che un patema d’animo sopraggiunto in quei giorni: e c’era stato pur troppo, il patema d’animo, violento, manifesto, innegabile, nella morte della moglie adorata: quello, e non altro, il veleno.

Maurizio lo sapeva bene, lo conosceva anche meglio del dottore, il veleno che aveva ucciso quell’uomo. E cadde senza far parola, sul seggiolone a piè del letto, rimanendovi accasciato, assorto ne’ suoi negri pensieri. Quante rovine intorno a lui, e per cagion sua, per colpa sua! Il destino… Si accusa facilmente il destino degli errori degli uomini. Ed era lui, Maurizio, conte di Vaussana, nel cui scudo era inciso il motto «tout droict Sospel», lui, il cavaliere senza macchia, il credente, il virtuoso soldato, che aveva fatto tutto ciò? che aveva portata la maledizione in quella calma dimora, alta nella stima degli uomini come era elevata sul colmo del monte, in quel nobile asilo della grazia disposata all’onore?

Il dottore voleva ridiscendere in paese per fare la sua dichiarazione. Invitò il signor di Vaussana a seguirlo.

– No, grazie, rimango ancora; – rispose Maurizio. – Non ho forza di muovermi. Veglierò questo cadavere, come ho vegliato quell’altro. —

E chinò la testa sul petto, mentre il dottore usciva dalla stanza. Ma, subito dopo, un uscio dall’altra parte si aperse, e Maurizio sentì che il Dutolet stava per comparire. Alzò la fronte, e vide infatti l’ufficiale, che usciva dallo studio del conte Ettore, grave, rigido come sempre, ma più severo, più accigliato del solito.

– Il dottore? – disse il Dutolet, volgendogli a Filippo, che era rimasto in mezzo alla camera.

– Esce adesso, signor comandante.

– Richiamatelo; debbo pregarlo di un favore. —

Il medico era ancora sulla scala; richiamato dalla voce di Filippo, ritornò subito nella stanza.

– Io non ho pratica degli usi e delle leggi di qui; – disse allora il Dutolet. – Vogliate chiamar voi, signor dottore, le autorità competenti. Ho trovato or ora sulla scrivania del generale il suo testamento. È suggellato; sono autorizzato ad aprirlo; non lo farò senza testimoni. —

Il dottore s’inchinò, e partì, promettendo di ritornare al più presto possibile.

Maurizio in quel punto si alzò. Il Dutolet lo scorse allora, e non potè trattenere un gesto d’ingrata maraviglia. Se ne avvide Maurizio; ma non aveva da offendersi per così poco.

– Egli aveva lasciata una lettera per voi? – domandò, indicando un foglio che l’ufficiale teneva ancora aperto tra mani.

– Sì, per me, che pure mi ritrovavo a pochi passi da lui; rispose l’ufficiale. Povero conte! come ha dovuto soffrire, scrivendola! —

E guardava il signor di Vaussana con piglio severo. Maurizio si volse a guardare dietro di sè. Non c’era nessuno; anche Filippo era uscito. Egli allora, cedendo ad un impulso repentino dell’anima, si accostò all’ufficiale, e a voce bassa, ma con accento vibrato, incominciò:

– Signor Dutolet, siete voi sempre di quella rara perizia nelle armi, che io ho ammirata altre volte? —

L’uffiziale rizzò la testa, e squadrando il signor di Vaussana dal capo alle piante, gli domandò:

– Che cosa volete voi dire?

– Voglio chiedervi, – rispose Maurizio, non mutando voce nè accento, – se a venticinque passi, come facevate due anni fa, a venti, a quindici, come vi pare, sareste sempre capace di mettere una palla nel bersaglio, senza puntare, guardando magari in aria, alzando appena il braccio, e portandolo automaticamente in linea. —