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Tra cielo e terra: Romanzo

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– Con questi colori, pur troppo; – replicò sorridendo Gisella. – È stata anche la malattia di mia madre. Ma non esageriamo la cosa; – riprese tosto la bella signora; – altrimenti meriterò i rimproveri del generale, a cui queste bambinerie non piacciono. Affrettiamoci piuttosto ad andare in chiesa; dovrebbe esser quasi l’ora. Di che parlerà oggi il padre Anselmo?

– Dell’amor divino; – rispose Albertina, a cui la domanda era rivolta. – Non hai sentito, quando l’annunziava?

– No, mi ero forse distratta… pensando a tutte l’altre belle cose che aveva finito di dire. —

La predica dell’amor divino fu un inno in prosa, e frammezzato di versi. Quel diavolo d’un frate ci aveva quel giorno tutti testi profani. Citava Girolamo Benivieni, che sull’amor divino aveva dettato armoniose e calde terzine; citava Lucrezia Tornabuoni, e le sue affettuose laude spirituali; citava messer Agnolo Poliziano, autore anch’egli (pare impossibile) di poesie religiose; citava perfino Lorenzo de’ Medici, e le sue amorose rime sulla ricerca di Dio.

 
Allor vedrò, o Signor dolce e bello,
Che questo bene e quel non mi contenta:
Ma levando dal bene e questo e quello,
Quel ben che resta il dolce Dio diventa:
Questa vera dolcezza e sola senta
Chi cerca il ben: questo non manca mai.
 

Quella mattina, sulla piazza della chiesa, non mancò più Maurizio, ad aspettar le signore.

– Non è vero che è stato bello? – gli chiese Gisella, nella breve conversazione di commiato.

– Sì, bello; – rispose Maurizio.

E non potè dirle altro, tanto soffriva. Ah, quel bene terreno che non contenta più l’anima! quel bene terreno da cui si può levar tante parti, e il resto si trasforma in amore di Dio!

Quella sera, andò ancora alla Balma, sapendo già di non averne alcun bene. Pure, il caso gli fu più umano del solito, facendolo restare abbastanza lungamente solo con lei.

– Non andrete più al Martinetto? – le disse, dopo alcuni istanti di silenzio, che gli erano parsi secoli. – C’è il piccolo Vittorio ammalato.

– Oh, poverino! Sicuramente ci andrò; – rispose Gisella, che a tutta prima era rimasta confusa.

Ed egli la precedette il mattino seguente lassù; o credette di precederla. Ma la contessa non si lasciò vedere al Martinetto, nè prima nè dopo la predica. Triste cosa, su cui egli non osò farle la più piccola osservazione. Pure, le giornate erano belle, ancora un po’ fresche, ma serene e luminose; e i cardellini dell’Aiga, salutando Maurizio, avevano l’aria di dirgli: i vostri nocciuoli sono stati i primi tra tutti gli alberi della montagna a riprender le foglie; come va che non ci si rivede ancora? sareste mutati voi, da quelli di prima? —

Gisella andò a vedere il figliuoletto di Biancolina, ma dopo aver pranzato, senza pericolo d’imbattersi nel signor di Vaussana. Maurizio la vide ritornare alla Balma, mezz’ora dopo ch’egli era giunto lassù. Rimase male, vedendo che Gisella aveva cercato di evitare la sua compagnia. Ma la signora non potè egualmente evitare l’occasione di un breve colloquio con lui, mentre il generale era andato più oltre lungo il viale a ragionar col fattore.

– Perchè?.. – le disse. – Perchè mi sfuggite? —

Maurizio aveva l’aria d’un moribondo, parlando in quel modo.

– Perchè… – mormorò ella, non resistendo a quell’accento di angoscia suprema. – Amico mio, non mi parlate così! Se sapeste come mi levate il coraggio!.. Siamo nell’errore, Maurizio; ho paura.

– Paura! – esclamò egli. – Di che?

– Siamo colpevoli.

– Colpa… d’amore…

– È colpa, e basta. Io mi faccio orrore, e qui dentro mi domando spesso: che cosa penserà Maurizio di me, se anch’egli usa scendere nel segreto dell’anima sua, e vede l’abisso in cui siamo caduti? Ah, meglio laggiù, – gridò ella rabbrividendo – meglio laggiù in quell’altro abisso, nel vortice dell’acque, quando io non credevo di far tanto male; e tu già lo sapevi, già n’eri persuaso, perchè hai tardato un istante a rispondermi! —

Capitolo XVI.
Cuori infermi

Così finiva la quaresima, vedendo Maurizio la contessa Gisella ogni mattina alla sfuggita quando si usciva di chiesa, ogni sera più lungamente quando egli andava alla Balma; non più altrimenti, come avrebbe potuto sperare dal ritorno alla buona stagione, da lui con tanto ardore invocata. E parlava di cose vane con lei, quando c’erano altri in conversazione; e non parlava più affatto quando restavano soli. Quei due poveri cuori sembravano divenuti l’uno all’altro stranieri; tra quelle due coscienze, già così intimamente unite, si era fatto un gran vuoto. Egli oramai era in uno stato da far compassione; reggeva l’anima co’ denti; avrebbe voluto non essere: intanto, per capriccio di sorte o crudeltà di destino, doveva sorridere, sorrider sempre, piegandosi a tutte le fantasie d’un vecchio fanciullo, che mostrava di non saper stare un minuto senza la compagnia del suo migliore amico. Sospello di qua, Vaussana di là, e Maurizio da pertutto; non c’era che lui.

L’avvicinarsi della pasqua avrebbe dovuto portare qualche obbligo particolare per quel saldo credente. Ma quel saldo credente non era uno stretto osservante: andava in chiesa; e levato di lì, praticava poco, sicuramente credendo che il credere bastasse. Del resto, c’era la politica di mezzo; ed egli, non volendo inchinarsi a certe pretensioni de hoc mundo, non aveva neanche scrupoli di coscienza. «Quando avranno disarmato verso l’Italia una, mi accosterò anch’io un po’ meglio», diceva egli qualche volta a sua sorella Albertina.

Uno di quei giorni, veduto che sua sorella usciva prima dell’ora, tutta vestita di nero e col velo di pizzo ugualmente nero in testa, scambio del solito cappellino, le domandò brevemente:

– Precetto pasquale?

– Sì, – rispose Albertina, – da una settimana è incominciato il tempo utile. —

Un’idea passò per la mente di Maurizio; e per averne l’intero, mezz’ora dopo che sua sorella era uscita, andò in chiesa anche lui. Giunse a tempo per vedere il cappuccino uscire dal confessionario, donde aveva ascoltate ed assolte parecchie penitenti. Rivolti gli occhi all’altar maggiore, riconobbe sua sorella inginocchiata alla balaustrata di marmo, e accanto a lei la contessa Gisella, anch’essa tutta vestita di nero. Ah, dunque ella pure si era confessata dal frate; ella pure si accostava alla mensa eucaristica; ella pure, perdonata, monda di colpe, contenta? E fu triste senza fine; per quel giorno mutò perfino il posto alla predica; finita questa, se ne andò verso casa, senza aspettare le signore al varco del piazzale. Di questo, poi, non erano neanche da farsi le maraviglie: oramai erano più le volte che il signor Maurizio faceva così, che non quelle in cui si tratteneva a riverire Gisella, a barattare con lei le poche frasi di commiato.

– Confessa bene? – domandò egli di punto in bianco a sua sorella, quando furono a tavola.

– Come predica; – rispose Albertina. – È un dotto, ed è un santo, —

Maurizio non disse più altro. Quella sera gli mancò il coraggio di salire alla Balma. Sentiva bene che un gran rivale gli era stato suscitato; ma da chi? non forse da lui? e perchè darne colpa o merito ad altri? Egli, egli solo, aveva introdotto il gran nemico in casa. Che dolore, e che orrore! Egli amava più che mai quella donna; e quella donna era di Dio.

Andò alla Balma il giorno dopo, di mala voglia, soffrendo in ogni parte dell’esser suo, nè ben sapendo di che. Trovò la contessa al suo telaio di ricamo, pallida, cerea nel volto, ma calma. Il generale era di cattivo umore, e misurava a gran passi, in diagonale, gli ottanta e cento metri quadrati del vestibolo. Incominciava a temere gli effetti della vita sedentaria; voleva fare del moto: e per farlo, e per istizzirsi di non poterne fare abbastanza, sceglieva le ore che Gisella dedicava al riposo. A mala pena ebbe veduto comparire Maurizio, il passeggiatore si fermò, prendendo un’aria severa.

– Non vi abbiamo veduto, iersera; diss’egli, con accento di rimprovero. – E sareste stato così utile, per darci una mano! Si è dovuto mandare pel medico, capite? pel medico; e l’abbiamo avuto qui tutta la sera. —

Maurizio non ci vedeva già più.

– Ah! – gridò egli, prima che quell’altro finisse la sua invettiva. – Che è stato? Io non sapevo… Se avessi immaginato… —

E si volgeva così dicendo a Gisella, di cui poc’anzi aveva notato il pallore. Ma per allora non discerneva più nulla, tanto era turbato; l’immagine della donna adorata gli veniva agli occhi confusa, come i pensieri alla mente, come le parole alle labbra.

– Cose di poco, signor Maurizio; – rispose ella placidamente. – Mal di stagione, e non valeva neanche la pena di parlarne. Non istò forse bene, ora? – soggiunse, volgendosi a suo marito, che aveva fatto un gesto di stizza.

– Che stagione mi andate voi stagionando? – gridò il generale. – Ma sì, dite bene, – ripigliò, mutando proposito, – è la stagione… ecclesiastica; è la vostra quaresima, che il diavolo se la porti. Capirete, Maurizio; tutti i giorni in chiesa! Il fumo delle candele doveva bene un giorno o l’altro portare i suoi effetti deleterii. Ieri, poi, per compir l’opera, la nostra signora è stata fino al tocco senza prender niente; nè bevanda nè cibo.

– Quante volte non sono stata così! – rispose Gisella, sorridendo.

– Ma ieri non potevate. E non va bene restar tanto a stomaco digiuno; segnatamente voi altre donne, che mangiate come gli uccellini, e avete bisogno di nutrirvi più spesso. Questo ve lo ha detto anche il medico. Ma ieri, Dio ci abbia in grazia, bisognava far la pasqua, bisognava prendere la comunione… Credo che sia la prima, dopo quindici anni; – osservò il generale, ghignando.

– Ettore! Voi dite i miei peccati.

– Ed anche quella era stata di troppo; – continuò il generale, senza badare alla interruzione. – Venite, Maurizio, facciamo due passi all’aperto. Il medico ha dato un buon consiglio anche a me. Non faccio moto abbastanza, e ci buscherò una congestione di sangue. Sarà necessario che io ripigli l’uso di montare a cavallo. Le strade qui non sono molto adatte; ma bisognerà contentarsi. Cavalcate, voi?

 

– Male; – rispose Maurizio.

– Ah, sì, scusate, dimenticavo che siete un marinaio. Ci vorrebbe un cavallo marino, per voi. —

E trascinava Maurizio con sè, lontano dalla casa, volendo rifarsi della noia di quella giornata. Ma col discorso ritornava spesso a sua moglie.

– Credo che quel monaco l’abbia stregata; – diceva. Dal giorno che ha cominciato a seguire quel maledetto quaresimale, Gisella non ha più pace. Perfino di notte, vedete, ella sogna del monaco. Almeno, io penso che sia così. Prima d’ora, dormiva i suoi sonni tranquilli, come una bambina; ed ora è in agitazione continua; di tanto in tanto, svegliandomi, sento che si lagna come una persona malata. Scendo da letto, vado a vedere che cos’ha, le domando se si sente male: non risponde; è addormentata, ma d’un sonno cattivo, come quando s’è fatta una cattiva digestione. Ha l’affanno, l’oppressione, una specie d’incubo che la fa rammaricare, gemere, uscire in frasi rotte, incomprensibili. Capirete, amico mio, che tutto ciò è molto grave. Quando si parla dormendo, è segno che il cervello lavora; e lavora male, il cervello, quando non è la sua ora, quando egli ha bisogno di rifarsi della fatica del giorno. —

Maurizio fremette, pensando alle frasi rotte, alle frasi incomprensibili, che ben potevano una volta o l’altra riuscir frasi formate, ed esser comprese. Non temeva per sè; questo era l’ultimo de’ suoi pensieri. Ma non voleva perder Gisella; lo atterriva l’idea d’esser cagione d’una sventura per lei. Povera bella! ed era ammalata; un guasto era avvenuto in quell’essere così perfetto. Ma come grave? a che punto poteva giungere? come si poteva rimediarci? Anzitutto, che cosa aveva osservato il medico? che cosa aveva detto a quel marito? se aveva detto qualche cosa, che fede meritava?

Il medico di San Giorgio era un uomo di mezza età; non faceva lunghi discorsi, nello impostare la diagnosi; anzi annaspava un pochino, accennando i sintomi, i segni osservati; tanto che non pareva avere una cognizione ben chiara del male, e contentava poco i suoi ascoltatori. Ma egli non annaspava poi nella pratica; correva ai rimedii, alle ordinazioni, alle operazioni, con una prontezza mirabile, che dinotava altrettanta sicurezza di giudizio. Apparteneva alla scuola vecchia: buona cosa, il più delle volte, perchè la scuola vecchia è tutta esperienza accumulata intorno ad un metodo riconosciuto; non ha tante parole dottamente aggrovigliate, non ha tanti sistemi frettolosamente fabbricati. Ma questo ci avviene, quando cade inferma una persona a noi cara: se il medico è della scuola vecchia, temiamo sempre che non ne sappia abbastanza; e tanto più lo temiamo oggidì, che il giornalismo ci confonde più facilmente con cento notizie di scoperte, di globuli, di piastrelle, di microbii, di micrococchi, d’iniezioni ipodermiche, di trasfusioni, di sterilizzazioni, di attenuazioni, di tentativi audaci, di processi rigeneratori, di cure portentose, facendoci credere che un nuovo mondo sia stato scoperto ieri, e un altro debba essere scoperto domani. Se poi il medico è d’una scuola moderna (ci sono infatti tante scuole quanti sono gli sperimentatori nuovi, i nuovi cercatori della verità scientifica) temiamo che la sua scuola non sia la buona, che voglia veder troppo, che si fidi troppo ad un sistema non ancora provato, ad un rimedio non ancora abbastanza sperimentato, che prenda un dirizzone scambio d’un indirizzo ragionevole, e vada e conduca noi fuori di strada.

Maurizio non ebbe pace fino a tanto non gli venne fatto di abboccarsi col medico, per sentire da lui che cosa fosse il malore ond’era minacciata la contessa Gisella. Ma doveva egli entrar subito in argomento? Un po’ di confidenza ci voleva, e Maurizio pensò di non averla ancora meritata. Egli lo aveva sempre un po’ trascurato, quel brav’uomo, che esercitava l’arte sua con molta coscienza, e che era degno dell’amicizia di tutte le persone per bene. Incominciò dunque col fargli la corte, fermandolo per via, accompagnandosi con lui, chiedendogli notizie dei suoi ammalati, informandosi delle malattie dominanti e del metodo di cura tenuto da lui. Biancolina e il piccolo Vittorio furono anche buoni gradini per risalire bel bello alla contessa Matignon, a quella graziosa e cara provvidenza di tutti i poveri, di tutti i sofferenti del vicinato.

Anche lei, povera provvidenza, sì certo, aveva bisogno di cura. E il signor di Vaussana, accennando quelle piccole indisposizioni delle quali era stato testimone, aveva ad arte aggravate le cose, nella speranza, quasi nella certezza di sentirsi rassicurare dal medico. Ma quell’altro non aveva corrisposto alla sua aspettazione; batteva le labbra, aveva l’aria di dargli ragione, gliene dava sicuramente più ch’egli non mostrasse di volerne avere. E allora Maurizio a turbarsi davvero, a fremere di spavento, a tempestar di domande.

Ma, che dire? Non bisognava confidar troppo, nè sgomentarsi prima del tempo. Il medico, dopo tutto, aveva osservato lì per lì, badando alle necessità del momento. Sì, certo, c’era qualche cosa al cuore. Vizio cardiaco, dunque? Si poteva temerlo. Di mal di cuore era morta anche la vecchia contessa Matignon, la madre di Gisella, e questo per l’appunto gli dava da pensare; forse per questo egli si era così prontamente fissato sul sospetto del vizio cardiaco. Aveva notato irregolarità di polso, asistolìe, acinesìe; in altri termini, ritardati movimenti di sistole, troppo lunghi intervalli nel doppio movimento di diastole e di sistole, dilatazione e restringimento alterno del cuore. Ed anche accennava a troppa frequenza di respiro, a qualche piccolo rantolo alla base dei polmoni, indizio di stasi, ossia ristagno del sangue.

Erano sintomi poco piacevoli, sicuramente: ma potevano esser passeggieri. Il medico non voleva pronunziarsi troppo presto, nè troppo risolutamente. Ma aveva incominciato, doveva anche finire, per contentare la curiosità incalzante del signor di Vaussana, la cui amichevole sollecitudine per i signori della Balma meritava benissimo una esposizione sincera. Non prendesse il signor di Vaussana per vangelo tutto ciò ch’egli diceva; ammettesse ancora la possibilità di un errore; ma per lui il vizio cardiaco ci doveva essere, e valvolare. In altre parole, e più chiare, il medico di San Giorgio credeva di aver notata una insufficienza della valvola bicuspidale dell’ostio auricolo ventricolare sinistro.

– Che nomi! – aveva esclamato Maurizio, sforzandosi di sorridere, mentre il cuore gli tremava e un sudor freddo gli gemeva dalle tempia.

– Che ci volete fare? – disse di rimando il dottore. – Il nostro linguaggio è complesso e avviluppato, come la nostra povera macchina. Si tratta infine della valvola che separa il ventricolo sinistro del cuore dalla corrispondente orecchietta.

– Capisco, capisco, rispose Maurizio. – E quali le conseguenze?..

– Ci vengo. Premettiamo che l’orecchietta sinistra, con le sue contrazioni, ha per ufficio di spingere il sangue nel ventricolo sinistro. La valvola si apre allora, abbassandosi; e allora il ventricolo, ripieno del sangue che l’orecchietta gli ha mandato, si contrae a sua volta per ispingerlo nell’aorta. Ci siete? Orbene, se la valvola è insufficiente, che cosa avverrà? che il sangue, alla contrazione del ventricolo, non andrà tutto verso l’aorta, ma in parte rifluirà verso l’orecchietta; e questa a sua volta, ingombrata da questo ritorno, non potrà accogliere tutto il sangue che contemporaneamente le verrà trasmesso dalle vene polmonari. Quindi ristagno nei polmoni, ristagno che sarà risentito dalla parte destra del cuore, che non potrà scaricare nei polmoni tutto il sangue venoso.

– E tutto ciò, – disse Maurizio, – è molto pericoloso?

– Sì e no; – rispose il medico. – Durante la gioventù e l’età verde, la natura trova qualche compenso sulla dilatazione del ventricolo destro e della orecchietta corrispondente. Più tardi, venendo un po’ meno la forza di resistenza, o per indebolimento da qualsivoglia causa prodotto, o per indurimento di vasi, a cagione dell’età, il disequilibrio cardiaco è maggiormente sentito. Allora i moti disordinati, le fatiche protratte, le passioni, specie se afflittive, avendo grande influenza sul cuore, possono facilmente esser cagione di lipotimìe, o deliquii che vogliamo dire, di sincopi, di morte improvvisa.

– Mi fate fremere; – disse Maurizio.

– Parlo dell’età inoltrata, s’intende; – ripigliò il medico. – Qui non siamo nel caso.

– Ma ad ogni modo, principiis obsta, non è vero? E quale è la vostra cura?

– Quella che ho incominciata: è la solita; non c’è novità, in questa materia; infusione di digitale, pillole di sparteina, gocce di strofanto, tutte sostanze vegetali, tutti rimedii cardiaci, rallentatori, riordinatori delle funzioni del cuore. E poi decotto di china; è un corroborante. Vedete, signor conte; abbiamo ancora delle armi per difenderci. Ed anche la gioventù, che è una buona corazza, per chi la possiede. —

Il medico aveva un bel dire di gioventù, di cose non certe, e ad ogni modo di pericoli ancora lontani. Maurizio aveva ricevuto il colpo in pieno, e il colpo gli era andato all’anima. Anche il pericolo lontano lo sgomentava; ed egli non poteva avvezzarsi all’idea della morte di Gisella, neanche in un lontano futuro. Bella virtù dell’amore, che sempre s’illude di vivere eterno! Intanto, fra questi terrori, che gli furono aggravati dal troppo pensare delle ore notturne, Maurizio fu colto dalla febbre; e la mattina seguente, poichè egli non ebbe forza di alzarsi dal letto, si dovette chiamare il medico per lui. Povero medico! Per la prima volta che aveva parlato un po’ a lungo, dando ragione dell’arte sua, faceva un bel guadagno davvero! Capì allora molte cose, il buon discepolo di Esculapio; ma non le disse, non le ripetè neanche a sè stesso. La vista continua di tanti mali ha educati i medici alla religione del segreto. Per quella volta non fece nessuna diagnosi. Aveva trovata una gran febbre, una eccitazione generale dell’organismo, il volto acceso, gli occhi scintillanti, e una tale palpitazione al cuore dell’infermo, da sentire lo scuotimento del viscere senza bisogno di mettergli la mano sul cuore. A questi primi sintomi di una meningite, si aggiunse tosto il delirio, il vaniloquio. Il buon dottore non istette a pensar più che tanto; mise mano all’antipirina, alla fenacetina; poi ordinò ghiaccio alla testa, ghiaccio pesto in bocca, ombra nella camera, anzi buio fitto, e riposo assoluto.

La febbre era già salita di alcune linee sopra i quaranta gradi, e non accennava a lasciarsi domare. Cominciò allora per Maurizio la triste sequela delle pazze visioni. Le immagini come le idee s’inseguivano nella sua mente con una rapidità vertiginosa, senza che alcuna potesse giungere al suo compimento, incalzate com’erano, l’una sull’altra, a guisa di flutti alla spiaggia, quando il mare è in tempesta. E il mare appariva quasi sempre minaccioso, terribile, ora strappandogli una amata creatura dalle braccia, ora inabissandolo insieme con lei, che atterrita si avvinghiava al suo collo. Quando non era il mare, era una cascata rumorosa, che si spandeva d’ogni lato, sgretolando il masso, scoscendendo il terreno, abbattendo, inghiottendo ogni cosa, scrollando ad ogni tratto un torrione su cui egli e lei erano rimasti prigionieri. Unica via di salvezza, prender lei in collo, spiccare un salto, afferrare un ciglione non ancora intaccato dalle acque irrompenti; ed egli tentava, lanciandosi a volo col dolce peso sulle braccia; ma proprio allora si smottava il terreno sotto i suoi piedi, ed egli e lei rovinavano giù, giù, sempre più giù nell’abisso, senza toccare mai fondo. E poi, di qua, di là, strani animali che s’avventavano, parole misteriose che apparivano sui muri di un ignoto edifizio, voci arcane che uscivano sibilando dallo spiraglio di una caverna, lampi sinistri nel buio, fragori sordi, rombi sotterranei, tanaglie strette alla gola, risa beffarde nell’aria, fornaci in fiamme, tutti i tormenti, tutte le paure, tutte le follie della ragione turbata.

Stanco, abbattuto, disfatto da tanti viaggi, senza potersi formare un’idea del tempo che erano durati, vide ancora Gisella, ma non più in pericolo con lui. Egli era disteso in un letto, con le membra prosciolte, mentre Gisella andava e veniva per la sua stanza, insieme con Albertina; ambedue in aspetto d’infermiere, di assistenti al suo capezzale. Ebbe allora un senso di dolcezza, di sollievo, di refrigerio allo spirito, e pregò tacitamente le potenze invisibili a cui era stato così lungamente in balìa, che non mutassero più la visione. Fu quello il suo ritorno alla coscienza della vita; ritorno lento, timido, incerto, ma a grado a grado più chiaro. Era ben lui che vedeva intorno a sè; ma era nel suo letto, ammalato, e vedeva il vero: non più sgomenti, non più terrori, non più larve di sogni, non più visioni di febbre.

 

La bella creatura spiava quel ritorno dell’infermo in sè stesso. Lo indovinò alla insistenza con cui egli guardava verso di lei, dovunque ella andasse o da una parte o dall’altra della camera. Meglio ancora lo intese, essendogli venuta vicina, al desiderio ch’egli mostrava di parlarle, allo sforzo che faceva per balbettare il suo nome. Ma ella non voleva che l’infermo si affaticasse; voleva essere un conforto, un argomento di sollievo, non una cagione di nuovo abbattimento per lui; e involgendolo tutto d’un sorriso amoroso, si recò un dito alle labbra, in atto di dirgli: Silenzio, per ora!

Maurizio era tanto spossato allora, quanto era stato da prima in orgasmo. Obbedì, come un bambino buono al comando della mamma; avrebbe obbedito ad un così dolce comando, se anche fosse stato nella pienezza delle sue forze. Così passarono due giorni, in cui gradatamente si riebbe: ma ancora non si muoveva dalla sua postura di giacente. Buona postura, per altro, se quella adorata gli veniva dappresso e chinava la faccia amorosa a guardarlo. Ah, i belli occhi d’indaco, sprazzi di faville d’oro! Ma c’erano anche delle lagrime, che inumidivano le ciglia, senza spegnerne il lampo.

– Sono stato dunque molto male? – mormorò egli il secondo giorno di quella lenta risurrezione.

– Sì, povero Rizio! – bisbigliò la cara donna, chinandosi ancora un tratto su di lui. – E sono stata io, non è vero? io la cagione del tuo male! Ma voglio che tu guarisca, m’intendi? lo voglio. Ad ogni costo, risanerai; non ti ammalerai più; non avrai più da soffrire, te lo prometto.

– E tu? – mormorò ancora l’infermo, aprendo ben gli occhi, come se volesse significarle colla intensità dello sguardo tutto quello che non poteva dirle colle parole.

– Io? nulla; ora sto bene. Ve l’ho detto, che era una cosa di poco; perchè spaventarti? Mi ero troppo esaltata; avevo anche fatto dei digiuni troppo lunghi. Ma ora non più. Ragiono un po’ meglio, sai? E sono tua; – soggiunse con un filo di voce, ma con una intensità di accento che andò al cuore di Maurizio; – tua mi capisci? E voglio esser tua, viver tua, morir tua. —

Maurizio sorrise; una vampa di felicità gli corse alle guance, gli brillò dagli occhi accesi. Le labbra si tesero, cercando, chiedendo, pregando. Ma ciò non era da savio, e la buona infermiera lo chetò con un gesto che voleva dir molte cose.

Poco stante ritornava il generale. Anch’egli capitava ogni giorno; ed erano già sei, che Maurizio era caduto infermo; ma egli non restava a lungo, avendogli il medico ordinato di fare del moto. Quel giorno, trovando il convalescente di migliore aspetto, il generale diede la stura ad una bottiglia di buon umore, première marque, che teneva in serbo per il suo amico Vaussana, quando fosse in grado di assaggiarne. E lo chiamava il suo «intéressant moribond» e gli ripeteva la facezia feroce di Robert Macaire al povero ammalato: «allez, allez à l’Hôtel-Dieu; on fera des manches de couteau avec vos os, on en fera des jeux de dominos, on en fera des boutons pour guêtres.» Ed anche quel genere tutto mascolino di celia faceva ridere Maurizio.

– Ma sapete, interessante moribondo, – continuava il generale, – che ci avete spaventati ben bene? Ve lo dico ora, che ne siamo fuori. E come lavoravate di fantasia! Ci avete fatto perfino un trattato di storia naturale, insistendo particolarmente sul capitolo dell’ornitologia. Non parlavate che di nidi tra i rami, di passere, di lucherini, di cardellini; di questi ultimi sopra tutto. Certo li avete amati molto, da ragazzo.

– La febbre! – mormorò Maurizio.

– Sì, capisco, la febbre. Ma c’è anche la sua ragione, nel ritorno di certe immagini, quando la febbre lavora; – ripigliava il generale. – Si ridiventa bambini. Il fatto è scientificamente dimostrato. Il nostro cervello è come una cipolla, per rispetto alle impressioni ricevute, una cipolla di tante tonache sovrapposte. Si guastano nella malattia le impressioni più superficiali, si cancellano le più recenti, e le più antiche rimangono, vengono per così dire alla vista. Si cita il caso di un ammalato di malattia cerebrale, che sapeva otto lingue, e ne perdette parecchie via via, nell’ordine contrario a quello in cui le aveva imparate. Basta, per voi non è stato il caso; quella brutta cosa della meningite è stata scongiurata dal nostro grande Soleri. Ma è sempre strano il fatto di quei ricordi d’infanzia ritornati a galla, ridiventati padroni del campo. —

Bisognava lasciargli credere quel che voleva, e Maurizio non si provò a contraddirlo. Il buon umore di quell’uomo era la pace sua, per allora, era la certezza di veder sempre Gisella. Andava sempre e veniva, la bellissima creatura; pensava a tutto, lei, prevedeva tutto, faceva tutto, e covava il suo malato con gli occhi, come una madre il suo bambino. Mai convalescente fu tenuto nella bambagia più e meglio del signor di Vaussana. La stupenda infermiera cedeva a tutti i suoi capriccetti; lo involgeva nelle sue occhiate fosforescenti, accostandogli il cucchiaio alle labbra; o chinandosi su lui per ravviargli il lenzuolo sotto il mento, lo inondava di fragranze soavi. Il medico, vedendo opportuno il momento, prese a rinvigorirlo con qualche pezzetto di carne, con vino generoso e qualche goccia di cognac. Ma più fece un bacio leggero leggero che una mattina sfiorò furtivamente le labbra di Rizio.

– No, non più vane paure; – bisbigliava a lui una soavissima bocca. – Credere è bello; ma bisogna credere come te. Hai ragione tu, Rizio; Iddio, che ti ha condotto sulla mia strada, che ha voluto essermi rivelato da te, non può volere che io ti abbandoni. —