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Santa Cecilia

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– Debbo parlare col conte. —

E senza aspettare che ella gli chiedesse perchè, si mosse dal salone dov'erano ambedue, per andare alla loggia, dove il conte Emanuele stava seduto, a leggere il suo giornale consueto.

– Signor conte, – disse egli facendosi animo, sebbene tremasse per la grande commozione dal capo alle piante, – ho bisogno di parlarvi.

– Dite, amico mio, dite, – rispose il conte Emanuele in quella che posava il foglio sul parapetto. – Ed anzitutto sedetevi qui, vicino a me.

– No, signor conte. Ho a chiedervi una cosa, e mi bisogna chiederla in piedi, a capo scoperto, con quel massimo rispetto che ho sempre avuto per la vostra persona.

– Oh, non mi fate tremare; ditela su, questa cosa.

– Signor conte, – ripigliò allora Calisto, facendo violenza alle parole che non volevano uscirgli di bocca, – io vengo a chiedervi la mano di vostra figlia, la contessina Cecilia di Villa Cervia. —

XVII

Diede uno sbalzo dal suo sedile, il vecchio gentiluomo, a quelle parole inaspettate; e guardò in viso il giovane Calisto, in atto di chi non aggiusti fede alle proprie orecchie ed abbia mestieri di nuove testimonianze.

Ma il giovane stava ritto a due passi da lui, pallido, modesto e severo come un generoso che aspetta la morte. Egli invero non si riprometteva una favorevole risposta; ma, dopo aver finalmente pronunziate quelle parole fatali, si sentiva parato ad ogni cosa.

Durò tra essi una pausa, che parve molto lunga ad ambedue; ma più lunga al conte Emanuele, a cui toccava rispondere. Chinò gli occhi, gli alzò due o tre volte, e dopo aver molto cercato che cosa gli dovesse rispondere, non gli venne altro alle labbra che questa domanda:

– Dite da senno?

– Oh, signor conte! – esclamò corrucciato Calisto. – Vi pare una dimanda, la mia, da celiarvi su?

– No, no… – ripigliò il conte. – Il cielo me ne guardi. Ma, in fede mia, la mi giunge così nuova…

– Sì, è nuova, signor conte; ma non è altrimenti nuovo l'affetto che ho concepito per la figlia vostra. Sono indegno di lei, lo so; indegno a gran pezza, ma in quel modo che potrebbero essere gli uomini tutti del mondo, innanzi a tanta bellezza, a tanta virtù, a tanta nobiltà d'intelletto. —

Il conte Emanuele aveva l'aria di cader dalle nuvole. Stette con molto raccoglimento a sentire i discorsi del giovane, e, dopo alcuni secondi di silenzio, nei quali fece prova di raccapezzarsi un tratto, rispose:

– Voi rendete giustizia alla contessina di Villa Cervia, e ve ne ringrazio. Ma ditemi, signor Caselli: e da quando vi è nato il pensiero di chiedermela in moglie?

– Oggi stesso, signor conte; ed ho pensato inoltre, che, fatta una risoluzione simigliante, fosse sconveniente ogni ritardo.

– Ed avete saviamente operato, signor Caselli, perchè certe cose bisogna dirle subito subito. Io penso che voi, leale come siete, non avrete detto cosa a mia figlia che…

– Nulla, signor conte! – interruppe Calisto. – Io non le ho anche detto nulla di questo mio proposito.

– Lo credo; e vi risponderò con pari schiettezza che, oltre alle molte ragioni, le quali si opporrebbero a questa vostra dimanda, e le quali la perspicacia vostra vi farà intendere non risguardar punto il vostro carattere, ve n'ha una, di cui voglio parlarvi subito. Siete giunto troppo tardi, signor Caselli. Ieri ho concessa la mano di mia figlia al giovane marchese di Cardiana. —

E dette queste fatali parole, anche il conte Emanuele si sentì meno impacciato. L'amore di Calisto gli giungeva come un fulmine a ciel sereno; la sua dimanda di matrimonio offendeva tutte le sue opinioni di nobile; ma non poteva scordarsi d'un tratto la sua amorevolezza per il giovane Caselli, la rispettosa amicizia di quest'ultimo, ed intendeva altresì quanto gravi dovevano essere le trafitture nel cuore dell'innamorato, per condurlo a quel disperato colloquio.

Però non seppe assumere quell'aria di dispregio che una simile domanda, fatta da un altro, gli avrebbe sicuramente inspirata; e, tra le ragioni che gli erano venute alle labbra, egli scelse quell'una, la quale, mentre pur rispondeva alla verità delle cose, non potesse offendere il delicato sentire del suo umile amico.

Sulla mente e sugli occhi di Calisto si distese una nube, che egli invano tentò di sgombrare, facendosi scorrer le mani sulla fronte, in quella che mormorava:

– Ah! lo avevo preveduto!.. —

Il conte taceva, e stava aspettando, con rammarico ed impazienza, il fine di quella scena spiacevole.

– E la contessina lo sa? – chiese finalmente Calisto.

– No, – rispose il vecchio gentiluomo, – ma oggi stesso lo dirò a lei, presentandole il marchese di Cardiana come suo fidanzato.

– Come, signor conte? – gridò Calisto, il quale non poteva più contenersi. – E senza dirgliene nulla? senza chiederle innanzi se il suo cuore vi consente?.. —

Qui il conte Emanuele apparve qual era nel fondo, il nobile e borioso castellano, per cui Calisto non era che il povero borghesuccio, o, come si dice da certa gente, il plebeo.

– Mia figlia, signor Caselli, – disse egli alzandosi in piedi, – è del sangue dei Villa Cervia, e quello che fa suo padre è ben fatto per lei. Mi duole d'esser costretto a ricordarvelo.

– Perdonate, signor conte, – ripigliò Calisto, a cui la gravità del colloquio conferiva le forze per sostenerlo. – Voi bene intendete che io metto in questo duro giuoco la mia ultima posta, la mia tranquillità, la mia vita. Ora che ho cominciato, siate cortese; compatitemi, lasciatemi finire. —

Il conte Emanuele fe' un cenno del capo, che voleva dire: accomodatevi, e si rimise frattanto a sedere.

– Signor conte, – proseguì Calisto, misurando le parole con solenne lentezza, – io so bene di non essere nulla ai vostri occhi; ma la ragione che voi mi avete addotta pur dianzi è troppo lieve in cosa di tanto grave momento. Scusate; io non intendo con ciò di recarvi offesa, nè di biasimare ciò che fate. Ma io amo vostra figlia di un amore ineffabile, immenso. Ora, se voi credete che questo sia un argomento non isfornito di pregio per la felicità della figlia vostra, datemi ascolto. Io diventerò uomo non indegno di voi, nè di lei. Sono povero; le quaranta mila lire che mi rimangono, io quasi non ardisco metterle in conto; ma mi restano ancora molti e sinceri amici in alto stato. Rimane una strada sulla quale io avevo già divisato di mettermi, e me ne distolse la morte dei miei parenti, il nessun pensiero che io avevo di me stesso dopo la rovina della mia famiglia; una strada nella quale un giovane della mia età, con la mia volontà e con quella virtù prepotente che gl'infonderebbe il desiderio di mostrarsi degno del vostro parentado, mi farebbero entrare, non senza decoro al mio nome ed al mio paese che andrei a servire altrove. Ho conforto di buoni studi; parecchie delle lingue d'Europa mi sono familiari. Ve lo giuro per l'anima mia, signor conte, diventerò un uomo! —

Dette queste cose con voce sicura e con piglio eloquente, il giovane Calisto si fermò, e stette con una mano appoggiata al parapetto, la fronte alta e lo sguardo sereno, ad aspettare la risposta del conte.

Questi era rimasto fortemente commosso dal discorso del giovane; ma se i suoi modi verso di lui potevano per avventura essersi più temperati, non si erano veramente mutati i propositi.

– Ve lo credo, amico mio; – egli disse. – Ma tutto questo potrebbe forse farvi… —

E qui il conte fu molto impacciato a finire la frase.

– Proseguite! – soggiunse Calisto. – Non abbiate timore di offendermi. Io berrò questo calice fino all'ultima goccia.

– Orbene; non vi dolga la mia schiettezza; – ripigliò il conte Emanuele. – Ma tutto questo non potrebbe conferirvi quello stato che dànno solamente i natali. Non già che io creda gli uomini divisi in due caste, e venuti da diversa progenie. Me ne guardi il cielo. Io per me sono spregiudicato, e filosofo anzitutto; ma le consuetudini di famiglia… le nostre parentele… Come potrei sottrarmi io alle leggi dei miei pari? —

Non vi era più speranza, dopo quell'ultima argomentazione del conte di Villa Cervia, e ben lo intese Calisto, a cui vennero meno il coraggio e le forze.

– Signor conte, io non ho più nulla a dirvi. Il cielo vi guardi.

– Ve ne andate? – chiese il conte, in quella che si alzava da capo per accomiatarlo.

– Sì, e non troverete disdicevole, io spero, che io non torni più al castello… —

Fu scosso il vecchio gentiluomo da quella generosa profferta del Caselli; ma, poichè gli niegava la mano di Cecilia, era pur naturale che lo pigliasse in parola.

– Che dite mai? – rispose egli. – Trovo giustissimo il vostro proposito. Dopo ciò che è avvenuto, è ben naturale che non abbiamo più a vederci… almeno per un tratto di tempo. E permettetemi intanto che io vi dichiari degno della fiducia che avevo riposta in voi. Minor virtù di sacrificio io non mi aspettavo certamente da un animo come il vostro. Addio dunque, mio giovane amico, e perdonatemi. —

Calisto se ne partì precipitoso, senza neppur toccare la mano che il conte Emanuele era lì per offrirgli in atto di commiato. Gli scoppiava il cuore e non poteva mentire una serenità dalla quale era tanto lontano.

Giunse fino al salone, dove diede un ultimo sguardo di addio al ritratto della contessa Giulia e a tutte le sue memorie giovanili; quindi si avviò per le scale.

Colà si avvenne in Cecilia che era uscita sulla piazzetta, e risaliva, pallida anch'essa come una morta.

– Signorina, – disse egli, con accento disperato, – ho parlato con vostro padre…

– Orbene? – rispose Cecilia, guardandolo con ansietà.

– Tutto è finito, signorina.

– Ah! – esclamò la contessina, e fu costretta ad appoggiarsi contro il muro, per non cadere sui gradini.

– Ricordatevi di me, Cecilia! Non ci vedremo mai più. —

 

E fuggì frettoloso, perchè la piena del dolore lo soffocava.

A piè della scala si volse. La contessina Cecilia era rimasta al medesimo posto, con gli occhi fissi a terra, le braccia prosciolte lungo le pieghe della veste.

Allora risalì a furia; le afferrò la mano, la strinse e vi impresse un bacio, il primo bacio d'amore che turbasse il sangue a quella gentil creatura, e fuggì.

In capo alla piazzetta gli era riserbato un nuovo rammarico.

Giovanni, il vecchio servitore, che veniva su per l'erta, lo fermò con la sua dimestichezza consueta, per chiedergli sue nuove.

– Giovanni, lasciami andare! – gli gridò Calisto, che non ne poteva più.

Allora Giovanni, stupito, lo guardò in viso; e dallo stupore passò allo spavento.

– Potenza del cielo! – gridò egli, giungendo le palme, – come ha visto scombuiato! Che le è mai accaduto, signorino?

– Giovanni, lasciami andare! Ho la morte nell'anima. Non ci vedremo più!

– Che? come? – gridò il vecchio servitore. – Ah! il torinese… sposa la contessina? —

Calisto, che era già per muovere il passo, si rattenne, ed afferrando il braccio del vecchio, gli disse:

– Come? tu lo sapevi?..

– Io no, signorino; ma il cuore mi diceva che nella venuta del marchese di Cardiana c'era un grosso perchè. La tristezza della padroncina, quella di Vossignoria, mi dicevano molto. Ora, vederla partire così a precipizio, udire quelle sue rotte parole… che cosa debbo pensarne, mio Dio?..

– Te ne duole, Giovanni? Tu dunque non avresti veduto di mal occhio che Calisto Caselli, un plebeo, sposasse la castellana di Villa Cervia?

– Io!.. – gridò il povero vecchio, con gli occhi imbambolati. – Se c'è cuor nobile al mondo, degno dell'amore della contessina Cecilia, è il suo, senz'altro, signor Calisto, è il suo. Oh, la non dubiti, io li conosco i veri gentiluomini; sono vecchio e me ne intendo un poco. I veri gentiluomini, quelli del vecchio stampo, sono fatti come Vossignoria.

– Grazie, Giovanni, grazie! qua la mano, e addio. Ricordati del tuo giovane amico! —

E giù a furia per la discesa, lasciando il povero servitore tutto lagrimoso e tremante.

Quando fu al Castagneto, si chiuse nella sua camera, e per tutto quel giorno, fino al mattino seguente, non vide nessuno; non volle cibo, nè altro.

I contadini che gli stavano presso, lo udirono singhiozzare e passeggiare concitato per la camera; verso sera si pose allo scrittoio, ed essi, per tutta la notte, non udirono altro che lo stridere convulso della penna sulla carta.

XVIII

Alla dimane, sul mezzogiorno, il suo fittaiuolo Gerolamo venne a cercarmi nel paesello, per dirmi che il signorino desiderava vedermi.

Corsi al Castagneto senza indugio, e lo trovai nella sua camera, sparuto e pallido come un morto, con gli occhi rossi e i capelli rabbuffati, ma tranquillo, o, per meglio dire, spossato.

Mi ringraziò della sollecitudine con la quale ero corso al suo invito, e, fattomi sedere, mi raccontò tutto: come avesse speranza di essere riamato dalla contessina; come la improvvisa venuta del giovine marchese di Cardiana lo avesse posto in tali distrette, dalle quali aveva voluto uscir nobilmente, mercè un colloquio col conte Emanuele.

Io già sapevo, come vi ho detto, dell'amor suo per la giovinetta; un amore, del resto, che non era ignoto ad alcuno, tranne al conte, che avrebbe pur dovuto essere il primo ad avvedersene. La catastrofe, che egli mi narrò, mi commosse fortemente, sebbene non fosse a prevedersi diversa.

– Qui, – mi disse il giovine Calisto, mettendo la mano su d'un libro manoscritto, che era ancora aperto sullo scrittoio, – c'è tutto il mio povero romanzo, che doveva finir così male! Ho notato tutto, dal mio ritorno tra queste montagne fino al colloquio di ieri e alla deliberazione che ho presa stanotte.

Egli pronunciò queste ultime parole con un'aria così cupa, che io tremai tutto, e mi affrettai a prendergli la mano tra le mie, lasciando trapelare l'ansietà dell'animo e il desiderio di rimproverarlo.

– Non temete, don Luigi, – soggiunse egli, sorridendo malinconicamente, – non ho nessuna voglia di uccidermi. Le mie opinioni intorno al suicidio saranno certamente alquanto disformi dalle vostre, imperocchè io non nego all'uomo il diritto di levarsi la vita, quando questa gli sia divenuta increscevole. Avrò il torto; ma la è una quistione cotesta che non ho avuto ancor tempo nè agio a studiare per bene, e i miei giudizi, comunque vi paiano, sono a quel punto che vi ho detto. Per contro, se diverso è il pensare tra noi due, io convengo nella vostra sentenza riguardo al fatto, e sono avverso al suicidio, perchè non voglio far ridere gli stolti, nè muovere a pietà i buoni che vedono sempre in quest'atto, o la rovina degli averi, o un amore sfortunato, o finalmente un ramo di pazzia. Da queste tre argomentazioni non si esce, a sentire la gente; il perchè, se uno si uccide, ha da rassegnarsi in anticipazione ad una di queste varianti, appiastrate alla sua riputazione, come una lapide infame nel luogo ove era edificata la casa di qualche celebre disgraziato, compianto dagli uni, maledetto dagli altri, sempre mal giudicato da tutti. No, don Luigi, non mi ucciderò, ve lo giuro; non ho in animo di lasciare eredità di mestizia agli onesti, argomento di ciarle assassine all'universo. —

Mi sentii raffidato da quelle parole; intanto egli proseguì:

– Ho divisato di andarmene da questo paese. A Torino troverò modo di vendere il Castagneto, o pigliarvi su denari ad imprestito, e poscia me ne andrò lontano lontano, che l'aria nol sappia neppur essa. In qualche angolo della terra troverò pure il modo di proseguire onoratamente la vita, o levarmene il tedio, senza disonore, o viltà. Ed ora, buon amico, che avete compassione di me, eccovi il mio libro. Voi siete un uomo di cuore; lo screzio delle opinioni che corre tra noi non mi ha punto impedito di amarvi, e di cattivarmi la vostra amicizia. Eccovelo dunque, il testimone eloquente dei miei affetti sconsolati; voi lo terrete come un ricordo di me. Anche iersera, dopo averne sfogliate alcune pagine, che m'ero fatto a leggere con amara voluttà, fui sul punto di consegnarlo alle fiamme. Ma, dissi a me stesso, quella divina creatura, di cui esso è la glorificazione quotidiana, non mi ha fatto nulla; innocente cagione dei miei mali, essa ne avrà rammarico, se non così forte come il mio, certo assai somigliante. Ho in quella vece deliberato di finirlo, scrivendo la storia dolorosa di questi ultimi giorni, e di consegnarlo a voi. Lo leggerete; vedrete i miei pensamenti, tutte quelle sfumature di concetti che rispondono ai fatti più minuti della vita, e vi servirà per dire un po' di bene di me, quando altri forse addenterà la mia fama. —

Povero giovane! Così la storia del suo amore si fosse fermata a quel punto! Così fosse egli morto davvero, come egli chiedeva con tanta sincerità di desiderio.

Io accettai il manoscritto e gli promisi che non mi sarei scordato di lui.

In mia presenza diede sesto a tutte le sue cose, e dopo aver preso un po' di cibo con me, col cuore gonfio di amarezza, ma tranquillo negli atti e nel portamento, partì alla volta di Torino, sulla via di Mondovì, dopo aver detto ai suoi fittaiuoli che andava per un viaggio di pochi giorni.

La gente a Dego ne fu molto meravigliata; se ne fecero i gran ragionari per case e botteghe; e vi lascio immaginare quanta confusione di parole e di lingue ci fosse, dopo che si era detto e creduto generalmente che l'orso del Castagneto era stato addomesticato dalla schifiltosa castellana di Villa Cervia, e che si dovevano tra breve far le denunzie in chiesa.

Ma non istette molto a farsi strada la verità, sebbene sformata a capriccio nei particolari; e una settimana dopo, tutti sapevano che la contessina Cecilia andava sposa al giovane marchese Alberto di Cardiana, quel damerino attillato che passava tutte le mattine a cavallo per la via principale del paese, e (Dio mi perdoni) faceva l'occhiolino a tutte le femmine che stavano al davanzale.

Ora mi è necessario narrarvi brevemente quello che avvenne al castello, dopo la partenza di Calisto.

Il conte Emanuele, tutto pieno di mal umore per il colloquio avuto col giovane, deliberò di andar tosto dalla figliuola e chiarirle il suo divisamento sui due piedi. Ma non gli venne fatto, imperocchè la trovò mezzo svenuta nelle braccia della sua dama di compagnia, buona donna che non sapeva nulla, e non intendeva nulla, tranne il suo francese, il suo inglese, i suoi ricami e i romanzi innocenti di Anna Radcliffe.

Costei attribuiva il male improvviso della contessina ad un colpo di sole; e il conte, sebbene quella ridicola spiegazione lo facesse borbottare un tal poco, non disse nulla di quello che egli ne pensava, e si ritirò, lasciando alla figliuola il tempo di riaversi.

La contessina si sentiva tuttavia così debole, che fu necessario metterla a letto, dove stette cinque giorni, con un po' di febbre e in uno stato di fiacchezza che il medico battezzò non saprei più dirvi con qual nome. Questo nome e la spiegazione trovata dalla dama di compagnia servirono intanto, al conte Emanuele, per dare al suo ospite una ragione dello stato di Cecilia o scusarne la breve assenza dalla loro compagnia.

Ma appena si fu alzata dal letto ed uscì dalla sua camera, il conte ebbe con lei un lungo colloquio, in cui le disse dei suoi disegni, e in modo da farle capire come egli fosse irremovibile nei propositi.

La povera fanciulla non intendeva come una figlia potesse ribellarsi alla volontà di un padre. Pianse molto in segreto, ma, dopo aver pianto, accettò la mano del giovane marchese.

Ottenuta quella vittoria sull'animo di lei, si mandò innanzi il negozio con grande sollecitudine. Fu anzitutto deliberato che le nozze si sarebbero fatte a Torino. Il marchesino partì, e quindici giorni dopo giungeva il vecchio marchese di Cardiana in persona, a salutare la futura sua nuora e accompagnarla insieme col conte Emanuele alla capitale.

Nel paese di Dego si riseppe poco dopo che la contessina Cecilia era divenuta marchesa di Cardiana e che era partita col marito alla volta di Parigi, dove la felice coppia doveva passare l'inverno.

Il conte non rimase a Torino. Fatte le nozze, egli se ne era ritornato al castello, dove visse solitario e malinconico; e il vecchio Giovanni più malinconico, più aggrondato di lui.

Non andava più alla Villa Cervia che il parroco don Bernardo, a perdere, secondo l'uso, la sua partita a scacchi. La messa nella cappella fu abrogata di fatto, poichè non se ne parlò più, e il conte pigliò subito, dopo il suo ritorno, il costume di andare egli stesso alla chiesa parrocchiale.

Il castello era come deserto, e la povera gente dei dintorni rammemorava più che mai i Caselli, associando tuttavia al ricordo dell'angelica madre di Calisto, quello della bionda contessina, la quale (dicevano) nel suo partire alla volta di Torino non ci aveva un'aria molto contenta.

Non è da tacersi qui che, innanzi d'andarsene, ella aveva fatto molti donativi a tutte quelle povere famiglie di contadini. Si seppe inoltre che, accompagnata dal vecchio Giovanni, ella era andata fino al Castagneto, dove non l'avevano mai veduta a giungere, e, dopo aver chiesto amorevolmente a que' fittaiuoli della loro salute e del loro stato, aveva regalato un bel gruzzolo di monete.

Il conte Emanuele cansava ogni occasione di nominare Calisto. Una sola volta a don Bernardo, che sbadatamente ne aveva fatte le lodi e gliene chiedeva novelle, rispose secco:

– L'ho visto a Torino. Era venuto a San Giovanni quando fu celebrato il matrimonio. Io l'ho riconosciuto, ed egli se n'è andato subito via. —

Infatti Calisto era a Torino, da dove mi scrisse tre o quattro lettere. Stava appunto per pigliare una somma di denaro ad imprestito, quando giunsero gli sposi alla capitale. Egli volle assistere dal fondo d'una navata alla cerimonia, e fu male per lui; poichè nel suo cuore riarse la fiamma più viva che mai, e tutti i suoi proponimenti andarono in fumo.

Nell'ultima sua lettera egli mi annunziò che andava a Parigi. A che farci, poichè sapeva del viaggio degli sposi a quella volta? A soffrire maggiormente, non visto? A far soffrire altrui, se ravvisato nella moltitudine?

Ma il cuore non ragiona; e d'altra parte il destino disponeva le fila.