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Santa Cecilia

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– Ed ogni cosa che voi dite è ancora nel suo antico stato; – disse Cecilia. – Mio padre non ha voluto che si toccasse nulla. Egli rispetta molto la vostra famiglia, e si compiace spesso a ricordare che essa, non pure lasciò al loro posto tutti i vecchi ritratti di casa nostra, i quali ingombravano le pareti del salone, ma taluno, che a lui era molto caro per la sua vetustà, ne fece rinfrescare, per conservarlo.

– I vecchi quadri del salone! – esclamò Calisto. – Ma sapete, signorina, che io li ho amati, come se portassero la effigie dei miei? Spesso mi avvenne di andarmi a raggomitolare in una gran sedia a bracciuoli, di rimpetto a quella bella gentildonna che sembra guardarvi in qualunque parte del salone vi siate, e che abbandona una mano alle carezze di un cagnolino.

– La contessa Giulia, la madre del mio bisnonno; – disse Cecilia.

– Sta bene; – rispose Calisto; – io non sapevo il suo nome, come nol so di nessun altro di quegli antichi; ma la bontà che le spirava dal volto, e quella sua aria pensierosa, mi facevano tenerezza, e stavo ore ed ore a contemplarla. Tutto, insomma, tutto, là dentro, ha un ricordo per me; e come volete che io possa rientrarvi senza sgomento?.. —

La bionda fanciulla, che lo aveva ascoltato con molta attenzione fino a quel punto, stette un poco sovra pensieri; quindi, con un piglio di regina, gli disse:

– Volete voi obbedirmi?

– In che cosa?

– Ah, signor Caselli, badate! voi mettete delle condizioni…

– Nessuna, se così volete. Vi obbedirò in ogni cosa che a voi piaccia di comandarmi.

– Datemi la mano.

– Eccola!

– E adesso venite con me. —

Così dicendo, la fanciulla condusse Calisto fino alla scaletta a chiocciola dell'orchestra, e scesa dinanzi a lui, voltò a sinistra, presso l'altare dove era un usciolo aperto, il quale metteva alla tribuna del conte Emanuele. Di là, saliti due pianerottoli, si entrava, per un corridoio lungo lungo, nelle stanze del primo piano del castello.

Calisto aveva inteso fin da principio qual fosse il disegno della contessina; ma non era più tempo di ritirarsi, senza farle scortesia troppo grave. Però, tra il sì ed il no, ma fortemente turbato e tremante in cuor suo come un bambino, la seguì per tutti quei giri frettolosi che ella faceva.

Non pensate male, vi prego, della contessina di Villa Cervia. Io so tutte queste cose dallo stesso Calisto, il quale mi narrò per filo e per segno l'origine e il corso dei suoi mali, e mi fece scorgere quale delicatezza d'intendimenti la conducesse a voler vincere la sua ritrosia.

Ella, sicuramente, non era ardita come un'eroina da romanzo, e non è da credere neppure che avesse potuto formarsi un concetto del sentimento che le avevano destato in cuore la vista e i discorsi del giovine. La pietà fu detta sorella d'amore, e non a torto; chè l'una tira sempre l'altro con sè, e finisce col metterlo a regnare in sua vece. Ma la contessina non sapeva niente di ciò; e obbediva ad un sentimento che le pareva, e certamente era, purissimo di ogni lega.

Per dirvi alla breve quello che io ne penso, la contessina Cecilia era timida, ma non alla guisa di molte fanciulle, le quali si sgomentano alla presenza di un uomo, nè ardiscono con esso dir cosa, di cui parlano le mille volte liberamente tra amiche. Cuor nobile e generoso, anima forte ed immacolata, ella non istava a sofisticare sulle cose che la consuetudine faceva lecite o no ad una giovinetta sua pari. La vista di un uomo la turbò un tratto, come quella che le giungeva improvvisa in quel luogo, dov'era sola ed assorta nella sua occupazione; ma, conosciuto quell'uomo, lo trattò con quella cortese dimestichezza che non tutti al mondo son nati per intendere quanto valga e da quale nobiltà di mente derivi.

– Orsù, dunque, – disse ella, come fu in capo al corridoio, facendosi da un lato e accennandogli un uscio aperto sul salone, – entrate, signore, e siate il benvenuto. —

Ma a Calisto non diè l'animo di farsi più innanzi. Appuntò una mano allo stipite, e rimase col capo chino, in quella che il cuore gli balzava concitato nel petto.

– Animo, animo! – soggiunse Cecilia. – Vostra madre è sempre la padrona del castello, poichè tutto qui vi parla di lei, e nulla è mutato. —

Calisto diede uno sguardo di ineffabile affetto alla giovinetta ed entrò con passo deliberato e sollecito nel salone. Il suo primo pensiero fu di correre ad una delle finestre, di afferrare il lembo di una cortina, di baciarlo tre volte; poi guardò tutto intorno, e si lasciò cadere su d'una seggiola, dando in uno scoppio di pianto.

XV

Con quel delicato accorgimento che è proprio della donna, la contessina Cecilia se ne andò via dal salone, e Calisto udì, senza neppur alzar la testa, il fruscìo della sua veste che sfiorava un uscio mezzo aperto poco lontano da lui. Essa aveva voluto lasciarlo solo un tratto coi suoi pensieri e con le sue lagrime.

Dicono che il veder piangere una donna sia la cosa più teneramente bella del mondo, perchè le lagrime adornano un ciglio di donna come le perle della rugiada i petali di un fiore. E sarà vero, ma il paragone non mi va più a' versi, dopo che un giardiniere mi ha detto, la rugiada non essere quella bella cosa che i poeti vogliono, imperocchè, al sopraggiungere del sole, ella si muti quasi in veleno per quelle povere piante che adorna.

Comunque sia, se le lagrime stanno bene al ciglio di una donna, fanno in quella vece brutto vedere negli occhi di un uomo. Il re del creato che piange, o si chiarisce spirito fiacco, o afferma la sua impotenza a vincere l'avversa fortuna; nel primo caso ti muove a sdegno, nel secondo a pietà.

Quelle di Calisto non erano tuttavia lagrime di spirito fiacco, nè di vanitoso impossente; sibbene apparivano un tributo della pietà di figlio alla memoria materna, uno sciogliersi improvviso di fantasie malinconiche, le quali facevano groppo intorno al cuore.

La contessina Cecilia aveva cionondimeno ben fatto a ritrarsi e lasciarlo piangere da solo. Che avrebbe potuto far ella? Il pianto di un uomo non lo può tergere che una madre, una sorella, o la donna a cui vi ha disposato l'affetto. E Cecilia non gli era nulla, lo aveva veduto per la prima volta in quel giorno, e non avrebbe potuto dargli che un conforto di volgari esortazioni, che un nobile cuore disdegna di offrire, o di ricevere.

Com'ebbe dato il primo sfogo a quel tumulto di affetti, Calisto si alzò, ribaciò il lembo della cortina, e andò a sedersi più in là, di rincontro al ritratto della contessa Giulia.

Era sempre al suo posto, la bella donna, ritta della persona, e tale era l'effetto della luce che giusta le pioveva sulla tela, da far credere che fosse sul punto di balzarne fuori. Il suo sguardo era mesto e profondamente affettuoso, come di donna che ha patito, e può dire come la regina di Cartagine: Non ignara mali, miseris succurrere disco; non son nuova al dolore, e ci ho imparato a compatire altrui. E come era splendida di naturalezza, quella mano, abbandonata, lungo le pieghe della veste di broccato, alle carezze di un povero levriero! Non era un concetto filosofico quello? Io credo di sì. La bella e pensierosa gentildonna guardava dinanzi a sè, ma non dimenticava l'umile creatura affettuosa che implorava le sue carezze e le lambiva la mano.

Calisto andava pensando a tutte queste cose, che, per l'età e per l'esperienza cresciuta, intendeva assai meglio di prima. E una cosa che potè riconoscere soltanto allora, si fu la somiglianza della contessa Giulia con la giovine castellana di Villa Cervia. Anche nel dipinto erano gli occhi neri e i capelli d'oro, e la stessa forma ovale del viso, il dolce sorriso della bocca, e perfino il collo, un filo più lungo del consueto, che aggiungeva leggiadria alla persona di Cecilia.

Donde vengono queste maravigliose rassomiglianze, e come si perpetuano nelle famiglie? Qual ragione arcana presiede alla riproduzione, or continua, ora interrotta e saltellante, dei medesimi tipi? E quale è il segreto di quella specie di affinità elettive che reggono la somiglianza, anche quando la celata intromissione di un nuovo sangue ha già spezzata più volte quella catena di esistenze che è detta la stirpe?

Quanti misteri ancora da esplorare, e quanti che non verremo forse mai a capo d'intendere! L'uomo invero è sommamente grande, se badiamo a tutto quanto egli ha fatto, dalla notte dei secoli in poi; se consideriamo come egli abbia diradato man mano quel gran buio dell'intelletto, ingentilendo il costume con ogni più svariata maniera di arti, scienze e speculazioni altissime; ma egli è altresì sommamente dappoco, se badiamo a tutto quanto gli rimane da fare, ai sempre nuovi problemi in cui si abbatte, a mano a mano che egli s'inoltra, alle sempre nuove serraglie nelle quali va a dar di cozzo il pensiero, povero vincitore che non può mai riportare gli onori del trionfo, e le cui vittorie sono ogni giorno messe in forse dalla necessità di una nuova battaglia.

Sant'Agostino, a parer mio, l'ha detta più giusta di tutti, quando affermò di essere giunto a sapere che nulla sapeva. Ma scusate; io qui mi ricordo un po' troppo di certe prediche, le quali non ho potuto mai spendere con questo gregge di montagna, e che mi rimangono chiuse nello scrittoio.

Torniamo a Calisto, che, raggomitolato nel seggiolone, stava contemplando il viso della contessa Giulia, ammirandovi, anzi adorandovi, i lineamenti leggiadri della giovine Cecilia. Egli, a furia di guardare e di almanaccare su quella testa, era venuto nel pensiero che fosse quello il ritratto della contessina, anzi lei in persona, che lo guardasse, con quegli occhi malinconici.

– O bella, o divina fanciulla, – diceva egli tra sè, – io ti ho veduta oggi appena, e già sento di amarti, come se il mio cuore fosse stato sempre il santuario della tua immagine. Soltanto nelle città, tra le mille cure, i mille sopraccapi della vita, e i mille ostacoli che mette la consuetudine al manifestarsi dell'anima di una donna, è costume naturale innamorarsi per gradi. Qui, all'aperto, tra il rigoglioso fiorir di ogni cosa, dove il sole, l'aria e il pensiero son liberi, l'eccezione è regolatrice suprema. Io però ti ho veduta, o bella; ho ammirato la grazia de' tuoi modi, la nobiltà del tuo spirito, e t'ho amata subito, con tutte le potenze dell'anima. Ma mi amerai tu? Potrai tu, vorrai forse intendere la subita e profonda adorazione dell'anima mia? —

 

Il giovine Caselli era tutto immerso in questi sogni, quando venne improvviso a distornelo uno stropiccìo di piedi, che si fe' udire nel salone; laonde si volse e balzò in piedi sollecito, tutto confuso, come un fanciullo colto in flagranti di qualche sua scappatella. Era il conte Emanuele, che gli veniva incontro, e dietro le sue spalle appariva il volto sorridente della contessina Cecilia.

Il vecchio gentiluomo aveva quella scioltezza di modi, o, per meglio esprimermi, quell'arte del dire e del fare che diventa come una seconda natura nella gente educata e vissuta lunga pezza con ogni ragion di persone, per la quale un uomo si sente anco lui meno impacciato a rispondere, e quasi di punto in bianco tirato ad usare di quella dimestichezza cortese che l'altro adopera, e che di solito non si acquista se non dopo un bel tratto di tempo.

– Finalmente! – esclamò il conte Emanuele, stendendo ambedue le mani a Calisto, per afferrare con piglio amorevole la sua, – noi vi abbiamo in casa nostra, signor Caselli. —

Il giovane rimase lì, tra confuso ed incerto, inchinando il capo, e senza risponder parola.

– Oh, non istate a credere, – soggiunse il conte, – che io ve lo ascriva a colpa. Il ciel me ne guardi! So molto bene come la pensiate rispetto a noi, e mi ero già capacitato di tutte le giuste ragioni della vostra ritrosia. Ora che siete finalmente venuto, io ringrazio il caso che vi ha condotto, e voi lo ringrazierete egualmente, perchè so anch'io di valer qualche cosa…

– Signor conte, che dite mai? – rispose Calisto. – Io ho sempre pensato che voi foste un perfetto gentiluomo, e la vostra cortese accoglienza mi fa oggi sentire più vivamente il rammarico di non essere venuto prima. Vedete? io non ho rossore di farvi scorgere che ho pianto assai, nell'entrare in queste sale. Tutte le antiche ricordanze mi hanno assalito ad un tratto, siccome io temevo, e mi hanno spremute queste lacrime che voi mi scuserete, perchè io ora mi sento più tranquillo, e penso di poter venire qualche volta al castello, per ringraziarvi delle vostre cortesie.

– Qualche volta! – interruppe il conte Emanuele. – Spesso, e non qualche volta, vogliamo vedervi al castello. Anzi, per suggellare il trattato, oggi starete a desinare da noi.

– Signor conte… vi prego…

– Oh, non c'è conti che tengano. Anzi, fin da quest'ora, smetterete di darmi del conte. Chiamatemi signor Emanuele, vecchio colonnello di cavalleria messo a riposo, perchè gli andava troppo a' versi «la costituzione di Spagna», e vostro umilissimo servo. Guardate; qui siamo soli e senza ombra di soggezione; mia figlia e la sua dama di compagnia, io e il mio buon arciprete don Bernardo, vostro amicone, il quale dice sempre un gran bene di voi, e che qualche volta mi fa l'onore di venire a desinare con me e di fare una partita a scacchi, che egli perde sempre. E questo sia detto a mo' di digressione. Poi si va a passeggio su per questi greppi, e si torna all'imbrunire in casa, dove mia figlia ci fa udire un po' di musica. Rimanete, dunque; siete prigioniero di guerra. —

Il giovine non seppe che rispondere a quel diluvio di amichevoli parole e cedette a quella dolce violenza; ma figuratevi se non doveva essere contento, poichè ne aveva in compenso un sorriso della contessina Cecilia. Quella bionda creatura era compresa del suo nobile mandato, e giubilava, angelo di pace, tra i due rappresentanti delle famiglie che avevano dimorato nel castello.

Poco dopo giunse don Bernardo, e il buon arciprete fu grandemente maravigliato e contento, quando vide Calisto seduto al pianoforte, col conte Emanuele ai fianchi, il quale si stropicciava le mani, come Federico di Prussia dopo la battaglia di Rosbach.

E non crediate che io dica per celia. Il conte di Villa Cervia era soddisfatto della presenza di Calisto, come di una vittoria campale. Egli era contento di far vedere come egli trattasse cortesemente il figlio di quel ricco plebeo, che, se non erano le sue pazzie, non avrebbe mai più consentito ai Villa Cervia il ritorno nella dimora de' loro antenati.

Tra i fumi della vittoria egli non si addiede neppure che da quello incontro potesse nascerne un romanzetto bello e buono tra la sua figliuola e Calisto. Io, per me, credo che quando egli ebbe più tardi ad accorgersene, dovette provare il medesimo stupore di quel selvaggio che fece cozzar la prima volta due selci l'una contro l'altra e ne vide sprizzar le scintille. Nè soltanto egli era uomo da non pensarci punto, ma tale che, gli fosse pur balenato alla mente che Calisto potesse innamorarsi di Cecilia, ed ella di lui, ne avrebbe fatto le grasse risa, come di una stramba pensata.

Il conte, siccome vi ho detto, amava mostrarsi cordiale, alla mano, e metteva volentieri le sue vecchie pergamene sotto gli stivali; lodava a cielo l'Enciclopedia e citava spesso il Voltaire; non già il Rousseau, intendiamoci, che egli chiamava un pazzo da catena. Cotesto vi chiarisce come certe cose egli non le intendesse a mo' dei moderni, i quali sono figli del ginevrino, anzi che del filosofo chiacchierino di Ferney.

Cecilia, intanto, da quella innocente creatura che ella era, si lasciava andar a quella novità di affetti, senza fermarsi un tratto a pensarci su e misurare la china sulla quale era condotta dai casi. Il giovine andava spesso al castello, e certamente guidato dai più retti intendimenti del mondo, ma, per sua sventura e di altrui, senza vedere gli ostacoli insormontabili che la disparità dello stato metteva tra lui e Cecilia; cieco, insomma, come è cieco l'amore.

Egli dunque era quasi sempre lassù: la domenica andava a suonar l'organo, e tutto quel giorno rimaneva in casa Villa Cervia; gli altri sei della settimana non ci andava che alla sera per suonare il pianoforte, sfogliare la nuova musica della contessina, e ragionare con lei, in quella che tra il conte e don Bernardo durava l'eterna partita di scacchi.

Cotesto non bastava ancora all'innamorato, il quale si fece a trovare tutte le occasioni di veder la fanciulla. Ella, quasi ogni mattina, soleva andare con Giovanni e con la dama di compagnia a vedere le famiglie dei fittaiuoli, dar rimedi per gli ammalati, pannilini per i più poveri, a fare insomma tutto quello che faceva un tempo l'angelica signora, la madre di Calisto.

E non dubitate: andasse di qua, andasse di là, Calisto si trovava sempre, un po' prima, un po' dopo, sulla sua strada; laonde in breve diventò consuetudine il vederlo, e son certo che se fosse mancato una volta, alla dimane gli avrebbero chiesto se per avventura fosse stato ammalato.

Egli era tanto cortese colla dama di compagnia, donna attempata, a cui parlava sempre nel suo francese, con quella purezza di accento ch'egli aveva attinta alle sue fonti, in Parigi! Ed era così buono col vecchio Giovanni!.. In quanto alla signorina, egli non le diceva mai cosa che uscisse di riga; parlavano sempre di musica, di lettere, di cose innocentissime, e nessuno badava al linguaggio degli occhi, ai fiorellini colti sui ciglioni dei sentieruoli, alle pazze sfuriate di allegrezza verso l'aria pura e verso il cielo sereno, insomma, a nessuno di que' nonnulla, di cui si nutre la più forte tra le umane passioni.

Al ritorno da quelle passeggiate campestri, Calisto accompagnava le signore fino agli alberi, sull'ingresso della piazzetta, e se ne tornava in giù, leggiero leggiero, e col cuore pieno di contentezza.

Venne l'autunno, e la vendemmia non fece che accrescere la dimestichezza. Le foglie appassite cadevano dai rami, ma non appassiva l'amore; e quando il temporale e la pioggia impedivano le passeggiate, Calisto aveva sempre un libro da restituire, una domanda da fare: se il fulmine avesse schiantato nulla, se la pioggia avesse guastato il giardino della contessina, e che so io.

L'inverno era un guaio; ma al giunger dell'inverno il conte Emanuele si buscò una forte infreddatura, pericolosa alla sua età. Il giovane allora fu tutti i giorni, mattina e sera, al castello, e non lasciava mai il letto del conte, a cui ministrava con figliale sollecitudine le bevande e leggeva da capo a fondo la Gazzetta Piemontese.

Cecilia, anch'essa, era sempre accanto al letto paterno, e al conte Emanuele era divenuta come una necessità di averli tutti e due al capezzale. Caselli di qua, Caselli di là, non c'era che Caselli di buono, ed era lui che dava sesto ad ogni negozio, e pareva fosse lui il capo di casa.

Tutti nel paesello di Dego avevano già in capo che un matrimonio fosse lì lì per fiorire, e chi dava del pazzo al conte, chi gliene dava gran lode. Don Bernardo, a cui il conte non aveva mai detto nulla, ma che vedeva la sua predilezione per Calisto, non diceva nè di sì nè di no a chi gliene domandava. Il vecchio domestico non aveva nulla da dire, ma in cuor suo desiderava che il bel signorino la sposasse davvero, e presto, la sua leggiadra padroncina.

Cecilia non pensava a nulla, non desiderava nulla. Calisto non aveva mai detto quella tale parola; non c'era dunque ragione di fare il suo esame di coscienza, e di mostrarsi più contegnosa. Amava, senza cercare più oltre, e si sentiva felice.

Ma se il cielo era sereno sul loro capo, qualche nuvoletta nera cominciava a turbar l'orizzonte. La burrasca doveva esser vicina.

XVI

Era la primavera innoltrata… Lasciatemi saltare alcuni mesi, tanto per affrettare il racconto. Esso non scapiterà punto, ad essere così ritagliato.

Che cosa infatti vi direi di nuovo, per questi quattro o cinque mesi lasciati in disparte? Che i due giovani si amavano e non se lo dicevano mai? Cotesto lo sapete, e sapete inoltre che, se non ci era la parola, c'era bensì, e tutto intero, il concetto. Un giro di ingegnose perifrasi rasentava sempre quella parola benedetta, senza mai darci dentro, e faceva intendere tutto ciò che occorreva sapere. Non c'erano poi, terribile artiglieria, gli sguardi lunghi e profondi, per supplire a ciò che non dicevano le labbra?

In quel torno, io conobbi da vicino il Caselli. Ero un povero pretonzolo, non nato per l'abito talare e pel tricorno. Oggi sono contento del mio stato; ma allora, se sapeste! mi bollivano in capo certe mattìe, delle quali oggi ancora si risente il mio modo di pensare, non sempre in rispondenza col mio ufficio ecclesiastico. Ma la bontà del Signore ha le braccia così grandi!..

Questo per farvi intendere come allora una certa comunanza di pensieri mi facesse amico il Caselli, e come egli passasse quasi ogni giorno con me tutto quel tempo che non era consacrato ai Villa Cervia. Di questa guisa io venni a sapere di molte cose, e d'allora in poi, sopraggiunte le peripezie e la catastrofe del suo amore, ne ebbi in mano tutte le fila.

Era la primavera innoltrata. Il mese di maggio smaltava di un bel verde la campagna, e il sole ci metteva del suo tutta la pompa dei colori e la tiepidezza dell'aria, quando quella tal nuvoletta di cui vi ho detto più sopra, accresciuta da mille vapori, s'ingrossò in forma di nembo sul capo di Calisto.

Il procaccia di Dego portò al conte Emanuele, insieme col solito giornale, una lettera da Torino, la quale fu letta e riletta con molta attenzione dall'ottimo gentiluomo.

Gliela scriveva un amico suo, il vecchio marchese di Cardiana, gran ciambellano a corte, col quale da parecchio tempo non teneva più carteggio; nè già per discrepanza di opinioni, poichè, come vi ho detto, le ubbìe liberalesche del conte Emanuele, non andavano niente più giù della pelle, e tutti ne sapevano quanto era necessario saperne.

Il vecchio marchese di Cardiana, dopo aver dato sue nuove all'amico, gli annunziava la visita del figlio suo, giovane sui ventisei, che era forse un po' sventatello in ragione dell'età, ma a cui il prender moglie avrebbe fatto un gran bene. In sostanza (e questo non lo diceva il marchese), il giovanotto menava a Torino una vita da scioperato e gli usurai gli davano troppo facilmente ad imprestito; laonde il padre, che era stato costretto a pagare per lui un centinaio di mila lire, e gli era parso di escirne pel rotto della cuffia, aveva pensato di dargli moglie; nè migliore avrebbe potuto trovarne della figlia del suo vecchio amico, la quale alla morte del padre avrebbe avuto un patrimonio di settecento mila lire, se non forse di più.

 

«Ti mando il giovanotto (diceva la lettera); tu vedrai se è partito che convenga alla tua bella figliuola, di cui mi si dice mirabilia. Se non ti va a genio, scrivimi liberamente; egli non sa nulla e non avrò che a richiamarlo presso di me. Noi rimarremo sempre i buoni e schietti amici di prima.»

Il marchese di Cardiana, che scriveva di queste lettere, era un uomo quattro o cinque volte milionario, e non aveva che due figli; per giunta egli apparteneva alla prima nobiltà piemontese, e si vantava di un suo antenato che era stato a Rodi con Amedeo di Savoia (il quale Amedeo, a dirla tra parentesi, non è mai stato laggiù); nè si poteva disconoscerne che fosse un magnifico partito, segnatamente se il giovine era costumato; della qual cosa, poi, non era a dubitarsi nemmeno, essendo egli un Cardiana.

Tutte queste belle ragioni si affacciarono alla mente del conte Emanuele, tra un periodo e l'altro di quella lettera miracolosa. D'altra parte, chi avrebbe egli dato in marito a Cecilia, fino a tanto che stava rinchiuso tra quelle montagne? Poichè questo passo si aveva a fare, meglio il farlo subito e cogliere una occasione che non si sarebbe più così agevolmente offerta, con una corona di marchese in capo e due milioni nel portafogli.

La deliberazione fu pronta nell'animo del conte Emanuele. Egli alzò gli occhi dallo scritto, e voltosi a Cecilia che stava seduta al suo pianoforte, mentre Calisto scorreva degli occhi il giornale, le annunziò la venuta del giovine marchese di Cardiana, loro mezzo parente per via di donne, il quale veniva a recar loro i saluti del padre e fare una scampagnata nelle Langhe.

La giovinetta impallidì, e i suoi occhi pieni di subitaneo sgomento andarono incontanente a cercare quelli di Calisto. Egli pure era diventato pallido come la morte.

Il conte Emanuele non si avvide di quello sguardo, e dopo aver preso il giornale che Calisto aveva lasciato cadere sulla tavola, se ne andò su d'una loggia lì accanto, come era suo costume, per mettersi in corpo tutte le quattro pagine.

– Cecilia, – esclamò il giovane, accostandosi a lei, nel colmo dell'agitazione, appena il conte fu andato: – quest'uomo sarà vostro marito!..

– Dio mio! non correte tanto! – rispose la contessina, senza trovare nè strano, nè disdicevole che egli per la prima volta si facesse a chiamarla col suo nome. – Egli viene, e sia pure; per la strada che viene potrà anche ritornarsene.

– Così pur fosse! Ma, vedete: ci sono dei presentimenti, che ingannano di rado; e questo è del numero.

– Perchè mi dite cotesto? – chiese Cecilia, assai più sgomentita che non volesse parere.

I suoi timori, infatti, rispondevano troppo bene a quelli del giovane. Che cosa voleva quel marchesino di Cardiana, del quale non s'era mai sentito parlare? Perchè veniva ad intromettere la sua ignota persona in un queto idillio campestre, senz'altra ragione che quella, già molto stramba di per sè stessa, di recar le novelle del padre, ignoto egualmente ai due giovani, e non mai nominato, nè in altra maniera ricordato dal conte?

– Perchè mi dite cotesto? – chiese adunque sgomentita Cecilia, ma non già per avere una risposta; chè la vera, l'unica che si potesse fare, l'aveva già data a lei il suo presentimento medesimo.

– Perchè?.. – rispose Calisto. – Io chiedo piuttosto a me stesso, a voi, o Cecilia, perchè sono io tornato in questi luoghi, che io non dovevo vedere più mai. —

E dicendo queste parole, Calisto si percuoteva la fronte con le palme, quasi volesse spezzarla e farne uscire i dolorosi pensieri che vi turbinavano per entro. La giovinetta stava a guardarlo mestamente, senza aggiunger parola.

– Oh perdonatemi, signorina! – ripigliò Calisto. – Io non so più quel che mi dica, e il dolore fa sì che non esprima neppur giustamente quello che penso. Checchè avvenga di me, non ho io conosciuta la vostra casa? Non ho io vissuto un anno di felicità? —

La contessina non rispose, ma il suo turbamento era la più eloquente delle risposte.

Passarono due giorni, due brevissimi giorni, nei quali Cecilia fu amorevolissima col Caselli e più malinconica dell'usato. La mattina del terzo, giungeva al castello, accolto con gran giubilo dal conte Emanuele, il marchesino di Cardiana.

Era costui un giovinetto di bella presenza, attillato e profumato come un damerino del suo tempo, che nel parlare smozzicava l'erre e fischiava l'esse, giusta il costume dei suoi pari, pieno di alterigia con gli uomini e di leziosaggine con le signore. Veniva al castello di Villa Cervia con uno staffiere e due cavalli, come sarebbe andato a fare una trottata al Valentino; e all'albergo di Dego, dove era rimasto ad aspettar la venuta dei cornipedi, che gli erano indietro di mezza giornata, era smontato con un reggimento di valigie e bauli, da disgradarne un viaggiatore inglese.

Alla contessina Cecilia uomini di quella fatta non andavano molto a' versi; laonde, a malgrado delle sue smancerie, anzi appunto per queste, fu molto riserbata con lui, fino a quel punto che le buone creanze consentivano ad una sua pari.

Ma da quel giorno, addio passeggiate pei campi, addio facili ritrovi, addio occasioni di lieti ragionamenti. Della qual cosa non è a dire come si struggesse Calisto, e come gli fosse accresciuto il rammarico della sua solitudine. I bei sogni si dileguavano tutti ad un tratto. Passeggiava concitato per que' sentieruoli, memori di tante dolcezze, e non trovava più diletto nel sereno del cielo, o nel verde dei prati. Alzar gli occhi da terra e scorgere, allo svoltare di un poggio, le due torri merlate del castello di Villa Cervia, era divenuto per lui un tormento; e allora dava indietro sollecito, cercando tregua al dolore, e non trovandola mai, poichè il suo dolore egli lo portava con sè.

Il conte Emanuele non si era punto mutato nella sua amorevolezza per Calisto. Egli anzi lo presentò, come un suo carissimo amico, al marchesino, il quale gli fece un saluto schizzinoso, non udendo accompagnato il suo nome da verun titolo di nobiltà.

Questo marchesino venuto di fresco riguardava il Caselli come un intruso, e la semplicità del suo vestire, il suo umor taciturno, erano facilmente scambiati per meschinità campagnuola e zotichezza plebea. Quando egli parlava de' suoi viaggi di Parigi, di Londra, di Vienna, Calisto si guardava ben bene dal fargli intendere che quelle città gli erano state altrettanto dimestiche; e, tra per l'interno rammarico e per la sua ripugnanza a parlare, si teneva affatto in disparte, lasciando che il marchesino sciorinasse le sue leziosaggini alla giovinetta, e che il conte Emanuele facesse le più sperticate lodi del nuovo venuto.

Che importava a lui, finalmente, delle lodi date a quell'altro? Egli ben sapeva e vedeva chiaramente co' suoi occhi quanto poco giovassero presso l'amata fanciulla i complimenti e le affettature del marchesino di Cardiana.

Un giorno, mentre quest'ultimo era andato a cavalcare presso il paesello di Dego, la contessina Cecilia, trovatasi sola con Calisto, gli disse:

– Signor Caselli, io temo davvero che mio padre mi voglia maritare.

– E che cosa gli avete risposto? – chiese egli, turbato.

– Nulla, perchè egli non me ne ha ancora parlato.

– E che cosa risponderete, se ve ne parlerà? – incalzò il giovine, col piglio di chi aspetta da una parola la sua sentenza di vita o di morte.

– Io… – rispose Cecilia. – Perdonatemi, signor Calisto! non lo so… —

E vedendo come quelle sue parole avessero turbato il giovine, la contessina soggiunse, con accento malinconico:

– Ditemi, che cosa rispondereste voi, nel mio caso, alla dimanda di un padre? —

Calisto non rispose. Egli non era così egoista da non intendere le angustie della giovinetta. Stette silenzioso alcuni minuti, col viso nascosto nelle palme; ma quel silenzio maturava una energica deliberazione. Infatti, dopo quella breve sosta, il giovine balzò in piedi, e disse a Cecilia: