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Santa Cecilia

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XIII

La contessina Cecilia era il più bel tipo di donna bionda che vi poteste immaginare. Anzitutto non era bionda, come generalmente s'intende delle donne, le quali non hanno i capegli neri, nè castagni, nè rossi. Erano capegli d'oro, i suoi, come li hanno dipinti Raffaello Sanzio e Leonardo da Vinci, epperò sempre accompagnati da una carnagione bianca e rosea, ma viva di colorito, da lineamenti aggraziati, e da occhi grandi e nerissimi. Era poi snella della persona, sebbene non potesse raffigurarsi allo smilzo tronco del pioppo, di portamento leggiadro, e infine (che vi dirò?) non aveva che diciotto anni.

Nulla poi di affettato nei suoi modi: semplice era, mite e dignitosa, come dovevano certamente essere quelle sante castellane del medio evo, le quali si preparavano alla canonizzazione, in quella che i loro mariti combattevano coi musulmani in Soria.

E volete credere? fu questo il pensiero che nacque in tutta la gente del paese, al veder la contessina di Villa Cervia; tanto è vero che il cuore non conosce disparità d'ingegno, nè di coltura.

Il conte Emanuele, tosto che per l'arrivo della figliuola ebbe ricevute le visite del sindaco e delle famiglie notabili, volle condurla egli stesso a ricambiare le loro cortesie. La contessina Cecilia, che io vidi quel giorno per la prima volta, era vestita con quella elegante semplicità, che è il migliore adornamento della bellezza. Indossava una veste di seta nera che le saliva fino al collo, donde usciva una gorgieretta di tela finissima, con le maniche strette alle braccia, giusta la foggia di quel tempo, e i polsini bianchi rivoltati. Una pellegrina di pizzo di Fiandra, portata con disinvoltura, come se fosse il più modesto scialle, e una pezzuola di merletto nero sul capo, la quale dava risalto all'aurea capigliatura, compivano il vestimento di quella bellissima giovinetta.

La gente si fermava estatica lungo la strada e sugli usci delle botteghe a guardarla. – È la signorina del castello! – dicevano. – Ve', come è carina! che aria di bontà! E come saluta tutti senza fasto e senza sussiego! Par proprio una santa!

Questo fu il nome che le rimase, e nel paesello non ne ebbe più altro che quello di santa. Nome che le andava proprio a capello, imperocchè le opere sue, come il viso e il portamento, furono tali da farnela meritevole. Ella era ogni mattina nei dintorni, accompagnata da Giovanni, il vecchio e fedel servitore del Villa Cervia, per andare a visitare la povera gente, a consolare i malati, ad alleviar le sventure domestiche, tutta sorrisi, tutta cortesia, tutta amore.

E cionondimeno v'era della gente a cui la sua venuta non andava a sangue, e che parlava di lei a fior di labbra, con un mucchio di reticenze. Erano queste le signore del vicinato, e certi giovinotti attillati della loro risma; Veneri ecclissate e Adoni distrettuali a cui la schietta bellezza e i modi riguardosi della contessina di Villa Cervia non potevano sicuramente piacere.

La casa del conte era aperta a tutte le persone più ragguardevoli di quei dintorni; ma che volete? Le donne, voglio dir le signore, che fino a quel tempo avevano regnato in paese, ci andavano poco, perchè la contessina era troppo bella e troppo gran dama. Perciò ella era sgraziata anzi che no, duretta, mal vestita, insomma, una vera puppatola.

I giovanotti, poi, tenevano bordone alle signore. Da principio s'erano messi tutti quanti in moto per vederla e farsi vedere; ma la contessina aveva avuto il gran torto di non accorgersi della presenza di alcuno. Per un tratto, i nostri Adoni seguitarono ad andar le domeniche alla messa del castello, a sfoggiar di panciotti variopinti e di sciarpe le quali avrebbero dato dei punti alle penne dei pappagalli; ma la fanciulla, che stava tutta contegnosa nella tribuna, col padre e la dama di compagnia, non guardava nessuno; pareva tutta assorta nella preghiera e nei suoni dell'organo.

Di guisa che tutti in breve ora levarono l'assedio, dando ragione, senza saperlo, a coloro i quali credono esserci al mondo delle donne create a bella posta per tener lontani i babbei che la pretendono a qualche cosa e fanno il sopracciò. Sia vero questo o non sia (che non intendo sedere a scranna io, povero provinciale), gli è pure un fatto che donne simili non istanno molto a levarsi dattorno i mosconi. Costoro ronzano un tratto: «è una superbiona, una stolida»; ma finiscono sempre con allontanarsi, e questo è il busilli.

Un uomo solo non aveva ancora volto gli sguardi sulla contessina Cecilia, ed ignorava perfino che la ci fosse: Calisto Caselli. Il giovane seguitava a vivere coi suoi libri, con la sua musica e con le sue montagne, non vedendo nessuno, non parlando con nessuno, tranne di rado coll'arciprete don Bernardo.

Egli, come vi ho detto, non si faceva mai vedere nel paese, dove lo chiamavano il malinconico, e, salvo un tantino per la sua maestria sull'organo, non si curavano nemmeno di lui. Per contro era amato da tutti i contadini e dagli stessi coloni che vivevano nel podere dei Villa Cervia, i quali non avevano ancora smesso di chiamarlo il signorino. Giovanni, il vecchio servitore del conte, era più che mai innamorato di lui e non tralasciava mai, la domenica, di andare sull'orchestra a inginocchiarglisi destramente daccanto.

– Oh signor Calisto! – gli susurrava egli una di quelle mattine. – Se ella suonasse il pianoforte che abbiamo nel castello! Io sono certo che piacerebbe anche a lei…

– Che pianoforte? – esclamò Calisto meravigliato. – C'è un pianoforte nel castello?

– Sicuro, e venuto dianzi da Parigi. Lo ha mandato a comperare il signor conte per la signorina.

– Che signorina? – chiese Calisto, così per rispondere qualche cosa ai discorsi del servitore.

– Oh, come? Non sa ella che da tre mesi c'è qui la signorina, la figlia del conte, venuta da Lione, dove era in convento agli studi?

– Io no. Sapete che non vedo mai nessuno.

– Oh, se la vedesse, che buona e bella padroncina! È un angelo del paradiso; e come vuol bene alla povera gente! E come suona! Se la sentisse!.. Veda, quando ella si pone al pianoforte, io chiudo gli occhi e mi pare di sentir lei, signor Calisto, sebbene tra il pianoforte e l'organo ci corra un po' di differenza; non è egli vero?

– Certo, c'è differenza, – rispose l'altro distratto; e non fece altre parole.

Il dialogo era avvenuto sul finir della messa. Calisto strinse la mano a Giovanni, come era suo costume, dopo che lo vedeva ogni domenica presso all'organo, tutto intento ad ascoltarlo; e se ne andò per la campagna.

Giovanni lo lasciò andare; ma, pel giorno dopo, gli serbava una improvvisata. Il conte Emanuele, che era grato a Calisto della sua cortesia, e che si sentiva sempre rompere il capo dal vecchio servitore con le lodi del giovine, e che infine era un po' curioso di vedere quel solitario, aveva detto a Giovanni che andasse da lui e, ringraziatolo della sua cortese assiduità, gli dicesse che era aspettato per la domenica seguente, dopo la messa, ad asciolvere al castello. Avrebbe intanto veduto il pianoforte e suonato qualche cosuccia.

Il vecchio servitore avrebbe potuto far subito l'imbasciata, ma se la tenne dentro, per andare egli stesso al Castagneto nella mattina seguente. E così fece, e argomenterete di leggieri che non ci andasse di gamba malata; tanto gli godeva l'animo di far cosa grata (così egli pensava) al prediletto signorino.

Se il conte avesse un figlio come lui! Era questo il pensiero continuo di Giovanni, imperocchè egli era uno di quei fedeli servitori, i quali si affezionano alla famiglia, come l'edera si abbarbica al muro. Il ramo principale dei conti di Villa Cervia si estingueva col conte Emanuele, il quale non aveva che una figlia; non è a dire se questo fosse acerbo rammarico per Giovanni. A lui, vecchio, direte, che importava che la famiglia fosse, o no, tenuta viva? Ma certe cose le si sentono, non ci si ragiona su; e questa malinconia di Giovanni era del numero.

Contro l'aspettazione del vecchio, l'imbasciata non parve piacere a Calisto, il cui volto si rabbuiò.

– Dio buono, signor Calisto! – soggiunse il vecchio. – Il signor conte credeva di usarle una cortesia. Egli aveva pensato che non le fosse discaro metter le mani sul pianoforte, tanto per variare un pochino…

– Lo so, lo intendo, Giovanni; ditegli che lo ringrazio, ma che, come egli saprà, non uso vedere nessuno.

– Ha ella dunque tanta paura a metter piede nel castello? —

Questa dimanda semplicissima del vecchio punse Calisto sul vivo, laonde tutto confuso si affrettò a rispondergli:

– No, no! Voi vedete pure che io ci metto piede, poichè entro nella cappella. Ma le mie consuetudini e l'umor mio mi dànno di vivere solo. Ringraziatelo, dunque, e scusatemi presso di lui.

– Oh, signor Calisto! Se Ella non ha altre ragioni, il conte verrà egli stesso a prenderla sull'orchestra, e sarà finita d'un colpo. —

Queste parole, con le quali Giovanni aveva tolto commiato, posero il Caselli in una grande perplessità per tutta la settimana; e siccome avviene dei caratteri ombrosi, vissuti lunga pezza nella solitudine, egli si fece il male più grande assai che non fosse; il castello, nel quale egli non aveva voluto entrar mai, gli appariva tutto irto di dolorose ricordanze, le quali gli contrastassero l'ingresso. Ne avvenne che la domenica seguente, quando si trattò di uscire di casa, egli aveva la febbre e non si potè muover da letto.

Il giorno dopo, passato il pericolo, anche la febbre passò; ma nuove angustie stringevano il giovine. – Che cosa dirà il Villa Cervia? Mi dirà scortese e peggio, e non avrà il torto. E la gente, che era avvezza ad udirmi?.. Oramai non potrò più andare. —

Calisto non era già pentito di aver ricusato di andare dal conte, sibbene di non essere andato alla cappella; e di questo non sapeva darsi pace. Due giorni rimase accasciato a quel modo, senza nemmeno aver la forza di uscir fuori all'aperto; e più assai vi sarebbe rimasto, se non tornava Giovanni, con aria malinconica, a recargli le condoglianze del conte Emanuele e lo invito di lasciarsi almeno vedere alla cappella per l'altra domenica.

 

Egli stette ad udire attentamente; poi volle che ripetesse. – Vi ha proprio detto così? Come vi ha detto? Con quali parole?

– Ecco; – rispose il domestico; – il conte mi ha chiamato e mi ha detto precisamente così: Giovanni, vattene dal signor Caselli. Non gli chiederai della sua salute, imperocchè io m'immagino che, se non è venuto ier l'altro, egli è proprio perchè il mio invito gli è tornato discaro. Gli dirai in quella vece che io sono dolente di averlo invitato ad asciolvere; ma che lo supplico, poichè non ama conoscermi, di venire alla messa. Anche a lui dorrà, per una cosa di tanto lieve momento, smettere le sue belle suonate. —

Per chi conosceva l'umore del conte Emanuele, era quella certamente una gran degnazione; e, a dir vero, egli non si sarebbe piegato, se non era la dolce violenza della figliuola.

Egli infatti s'era adontato grandemente della scortese assenza di Calisto, imperocchè, se lo andare a suonar l'organo le domeniche non era pel giovinetto un vero debito, tale lo aveva pur fatto la consuetudine, e il debito era divenuto quel giorno più grave per l'accompagnatura dello invito a colazione.

Per tutta la domenica egli non disse nulla; ma ben si vedeva come egli fosse sdegnato. Il giorno appresso, non potendone più, se la prese col servitore, da lui beffardemente chiamato l'amico, il protettore del signorino. Giovanni non fiatò, ma con certe occhiate pietose parve scongiurar la contessina Cecilia che lo volesse difendere.

– Padre mio, – disse la giovinetta, dopo che il conte ebbe sfogato il suo mal umore per bene, – tu non devi dire che quel giovine vuol star troppo sulla sua…

– Anche tu ti metti ora a difenderlo?

– Io no; ricordo soltanto quello che tu stesso dicevi un giorno di lui. Egli non tiene già il broncio alla nostra famiglia, poichè tutte le domeniche usa venire tanto cortesemente a suonar l'organo; è piuttosto a credersi che la sua riluttanza ad entrare in queste sale derivi dalle tristi memorie che esse gli inspirano. Da quello che tu mi hai detto, intendo che il signor Caselli dev'essere molto malinconico e ombroso, e questo mi fa capire come egli abbia potuto starsi lontano ieri. Padre mio, non ti dispiaccia che la sensitiva ritiri e stringa le sue foglie quando la tocchi, poichè non è ruvidezza la sua, ma paura. —

Queste paroline, dette con aria di candore giovanile e accompagnate da una carezza, poterono più sul conte Emanuele che un sacco di buone ragioni. Gli si spianarono le rughe sulla fronte, ed era già sul punto di sorridere; ma, non volendo darsi vinto così presto, si provò a tener viva la controversia.

– Che fare adunque? Il signorino adesso non si lascerà più vedere, dopo il tiro che ci ha fatto. La gente vorrà sapere… crederà che sia avvenuto un grosso guaio, e chi ne avrà la peggio?.. Noi, sempre noi.

– E a cotesto, padre mio, – soggiunse la bella avvocata, – non si rimedia nemmeno con lo sdegno. Fa a modo mio, mandagli a dire che tu lo dispensi dal venir qua, poichè ciò sembra dispiacergli tanto, ma che farà cosa grata a proseguire le sue belle suonate. Di questo modo, se la sua assenza può ascriversi a ruvidezza, quella che tu gli darai sarà una generosa lezione di urbanità; se, come io credo, non è che effetto di timore, tu lo assicuri con le tue gentili parole.

– Ben detto! – saltò su a dire Giovanni dall'uscio del salotto ove s'era rincantucciato; e fu tale il piglio, tale l'accento del buon servitore, che il conte si messe a ridere, e non seppe dir altro.

Intanto Calisto, udita la narrazione del vecchio Giovanni, si sentì come sollevare il cuore da un grave peso, e respirò a larghi polmoni.

– Direte al signor conte che lo ringrazio dal profondo dell'anima; – rispose egli allora. – Tutto il giorno di domenica fui a letto con la febbre, la quale non mi consentì di recarmi alla cappella. Per quanto risguarda il suo cortese invito, io, mentre pur gliene serbo gratitudine, non posso altrimenti accettarlo, imperocchè nelle stanze ove egli dimora a buon dritto, io pure ho passata la mia infanzia, con la mia povera madre. Ditegli che ho paura delle mie ricordanze, ed egli mi tenga per iscusato.

– Povero signorino! capisco… capisco… – borbottava Giovanni, asciugandosi le lagrime.

– Andate dunque, Giovanni, e a rivederci. Aggiungerete, rispetto alla febbre che m'ha tenuto in letto, che io mi sarei fatto un debito di mandarlo ad avvisare, se avessi creduto che francasse la spesa!..

– Che dice ella mai? – esclamò il servitore, alzando le palme. – Si figuri se non francava la spesa! Lei è l'anima di tutto, lassù. La cappella, senza l'opera sua, pareva deserta. Per un pezzo s'è aspettato, ed io sono uscito tre volte a guardar giù, sulla strada, dall'alto del bastione… Insomma, la non si immagina mai più come si sentisse la sua mancanza, signor Calisto! E non francava la spesa… non francava la spesa!.. —

E ripetendo questa frase, che a lui sapeva di eresia, il vecchio Giovanni si allontanò dal Castagneto, per ritornarsene alla volta del castello.

La domenica seguente, alle dieci in punto, Calisto era sull'orchestra, seduto davanti alla tastiera dell'organo, che gli parve tutta piena di arcani profumi. Per la prima volta forse, da che era giunto in quei luoghi, si sentiva contento; dal rotto delle nuvole gli scintillava un raggio di sole.

Egli suonò quel giorno assai meglio che per lo innanzi, e, senza trascorrere al gaio, le sue melodie furono mirabilmente, soavemente serene. Il conte Emanuele era tutto orecchi a sentirlo; anche la contessina Cecilia stette molto attenta a quel mirabile concerto, e fu notato che per tutto il tempo della messa ella tenne gli occhi sul suo libro di preghiere, ma senza mai voltare la pagina.

XIV

Il pensiero dello sconosciuto, che non voleva farsi vedere nel castello dove risiedevano tutte le sue più care e in un malinconiche ricordanze, cominciò forse allora a girarle per il capo?

Chi lo sa? Io, come vedete, argomento molte cose per via d'induzioni, fondate su quella poca esperienza del cuore umano che deriva dal mio ufficio. Vo ricomponendo questa storia con tutti i particolari raccolti allora da questo o da quello dei personaggi che v'ebbero parte, e a me rimasti in mente perchè mi furono raccontati tante volte; ma sento qua e là il difetto di molti fatti, o per meglio dire di molti pensieri i quali mi diano il bandolo psicologico della mia narrazione. E qui allora io vo rabberciando alla meglio, aiutandomi con un po' di invenzione. Non ve ne lagnate; poichè di questa guisa io vengo a darvi il lavoro fatto, senza che abbiate bisogno di beccarvi il cervello.

Ora veniamo al buono; donde vedrete scaturire una nuova testimonianza a pro di quella trita verità, che i grandi effetti spesso derivano dalle piccole cause.

In quell'ultima sua gita alla cappella, di cui vi ho narrato testè, il giovine Calisto si era accorto che qualche voce dell'organo calava un tantino, e ne parlò a Giovanni, dicendogli che sarebbe tornato il giorno appresso per rimediarvi; però, verso il meriggio, lasciasse aperto l'uscio della cappella.

La dimane, infatti, poco prima dell'ora prefissa, il giovanotto saliva con lenti passi l'erta del castello, assorto nella sua consueta mestizia. Giunto alla piazzetta, gli venne all'orecchio un indistinto mutar di suoni musicali; ma egli era cosiffattamente sovra pensieri, che non vi badò, o, per meglio dire, i suoi orecchi si fecero a quella musica, senza che a lui venisse in mente di cercarne la ragione. Di cotali distrazioni ognuno di noi ne ha avuta la sua parte, e ricorda benissimo che in quei momenti i sensi vanno dietro ad una cosa, mentre lo spirito ne prosegue un'altra, le mille miglia lontana.

Così sbadato, il giovine si avvicinò colla medesima andatura alla gradinata, entrando sempre più nel cerchio delle onde sonore. La cappella risuonava tutta in quel punto di gravi e malinconiche armonie, e a lui parve la cosa più naturale del mondo, e come se la messa fosse incominciata, ed egli medesimo già fosse al suo posto. Cosiffatto scempiarsi delle facoltà mentali non è neppur nuovo nè strano negli uomini che pensano molto, e Calisto, come vi ho detto, era pensieroso e distratto quanto dieci filosofi.

Salì, sempre a quel modo, la scaletta a chiocciola dell'orchestra; andò verso l'organo che fremeva tutto di sonore armonie, e là finalmente, alzati gli occhi, si avvide di non essere solo, e conobbe ad un tempo la vera cagione di quella misteriosa suonata.

Una bella giovinetta, dagli occhi neri che guardavano in alto, dai capegli biondi che le ricadevano sulle spalle, vestita di mussolina bianca con nastri azzurri bellamente disposti sul taglio della vita e sul petto, era seduta dinanzi all'organo, e le sue dita bianche, affusolate, correvano maestrevolmente sulla tastiera.

Voi già avrete riconosciuto in questo bozzetto la leggiadra contessina di Villa Cervia; ma Calisto non la conosceva punto; e in quel momento non gli venne neppure in mente che potesse essere la figlia del conte Emanuele quella bella creatura che gli stava dinanzi agli occhi, fata gentile, che risvegliava col magistero delle sue mani delicate le migliaia dei genietti armonici, nascosti nelle canne dell'organo.

Egli rimase confuso, estatico, a guardarla, rattenendo il respiro, come uomo che sogni e non ami svegliarsi e vedere d'un tratto dileguarsi una diletta visione. Immaginate qual virtù dovesse avere la vista improvvisa di quella bellissima persona sull'animo di un uomo, il quale aveva in giovine età gustate tutte le dolcezze della vita, ma che non aveva amato mai, e da lunga pezza viveva solitario, nutrito di meste fantasie, che mirabilmente dispongono il cuore alla novità degli affetti.

Il concetto dell'amore gli entrò veloce per gli occhi fino al profondo del cuore, al primo veder quella divina fanciulla, sulla cui testa la luce del meriggio pioveva i suoi raggi, temperati dalla rossa cortina della finestra, e gli occhi della quale guardavano in alto, come per derivarne le inspirate melodie che le sue mani andavano traendo dal grave strumento.

Tutto questo avvenne in pochi secondi, chè al rimescolarsi del sangue, allo sprigionarsi della scintilla elettrica, al mutarsi repentino di tutta quanta una esistenza nelle fiamme di un affetto prepotente, non occorre maggior spazio di tempo. E mentre tutto questo avveniva nel cuore del giovane, le sue labbra non avevano avuto che il tempo di mormorare sommessamente: – come è bella! mio Dio, come è bella!

Ma, nel lento volgersi degli occhi, la suonatrice aveva veduto come un'ombra starle d'accanto. Si voltò da quel lato, messe un lieve grido alla vista del giovine, e fe' per alzarsi.

– Oh no! restate, signorina; – disse egli, tendendo le mani verso di lei in atto di preghiera; – proseguite pure; non vi sgomenti la presenza di un povero suonatore! —

Arrossì la fanciulla e balbettò alcune parole confuse, di quelle tali che, dette appena, non si ricordano più.

Ognuno che abbia amato e che siasi fatto la prima volta a parlare con la donna amata, sarà passato per questa filiera. Egli vi ha, sul cominciare di un primo colloquio, dieci o quindici parole, dette dall'uno o dall'altro dei due interlocutori, le quali non si trovano più, anco a volerle cercare col fuscellino. Sono nonnulla, frasi monche, brandelli di pensiero, i quali spesso non somigliano nè punto nè poco a quello che s'aveva in mente di dire; epperò io credo che, se pur si trovassero, e si potesse metterli sulla carta, farebbero ridere. Il loro gran pregio sta tutto quanto nello esser venuti sulle labbra, in aiuto alle angustie, alle trepidazioni dell'animo; e vi so dir io… cioè, intendiamoci, io non ve ne so dir nulla, ma ho sentito dire dagli altri, che in quelle contingenze essi riescono più grati che una ottava dell'Ariosto, più splendidi che un canto della Divina Comedia.

Che cosa dissero i nostri giovani per entrare in discorso? io non lo so, e, a dirvela schietta, non mi curo nemmeno di saperlo. È probabile eziandio che abbiano taciuto, senza punto accorgersi che non dicevano nulla.

Ma, tacessero o parlassero, venne il momento che si entrò in materia, e fu Calisto che, bene o male, arrossendo e balbettando a sua volta, si bevve intiero quel calice.

– Signorina, – diss'egli, – eravate dunque voi?.. Ieri mattina, sedendomi, dove voi siete adesso, sentii come un arcano profumo, del quale non ho saputo argomentare la cagione…

– Ah! – esclamò la fanciulla. – Era l'essenza di viole, che mi piace tanto e che porto sempre sulla persona.

 

– Non mi ero dunque ingannato; – soggiunse Calisto. – Ma come avrei potuto immaginare che quel delicato profumo mi derivasse da una così bella suonatrice? Ho tuttavia dato vicino al segno, pensando che fossero gli angeli… Non vi dolga del paragone, signorina, e sopratutto non lo abbiate in conto di un complimento. Ho pensato davvero agli angeli. Se il canto dell'organo è la più bella forma di preghiera, perchè non verrebbero gli angeli a raccoglierla, a fine di portarla in cielo, come le altre? Ora per me, tra la venuta dell'angelo del cielo e quella dell'angelo della terra, non corre divario, imperocchè, tanto per la venuta dell'uno, come per quella dell'altro, io non ardirei più mettere le mie dita profane su quella tastiera. —

La contessina di Villa Cervia, che era rimasta un tal poco impacciata a sentir quelle parole pronunciate con dolce lentezza dal giovine Caselli, colse l'ultima frase come un appicco alla conversazione.

– Oh, perchè non suonereste più? – chiese ella. – Voi mi vorreste far pagare troppo caro un capriccio scolaresco. Fin dal primo giorno che vi udii a suonare, volli provarmi pur io sull'organo, per vedere che differenza ci fosse tra questo grave strumento ed il cembalo. Sulle prime non sapevo raccapezzarmi; ma a furia di picchiare, son pur venuta a capo di trarne fuori qualche cosa.

– Altro che! – soggiunse Calisto. – Or ora avete suonato benissimo, signorina, e da cotesto è facile argomentare come siate maestra sul pianoforte.

– Oh, non mi date lode oltre i miei meriti. Il pianoforte era il mio passatempo nel convento, e di quel poco costrutto che ne ho cavato, vo debitrice al grande amore che gli porto.

– Contentatevi, signorina; voi siete come messer Dante Alighieri, il quale ha detto: Vagliami il lungo studio e il grande amore, che m'han fatto cercar lo tuo volume.

– Il paragone, – rispose Cecilia ridendo, – mi farebbe andar molto superba; ma io volevo dire soltanto che ho molto desiderio di sapere, e pochissima scienza. —

Continuò per un bel tratto una di quelle conversazioni senza nè capo nè coda, nella quale la povera scienza, l'organo, il cembalo, Rossini, Beethoven furono altrettanti pretesti per dir con gli occhi e con le più dolci inflessioni della voce che la contessina Cecilia aveva innamorato Calisto, e che quel giovine malinconico e cortese non dispiaceva punto alla contessina.

Dio solo sa dove sarebbero andati a parare con tutti quei loro ghirigori fantastici, se la fanciulla, che si era rimessa a sedere, non si fosse posta sbadatamente a toccar la tastiera, cavandone qualche suonata a mezza voce. Calisto lasciò che andasse innanzi e fu tutto orecchi ad ascoltarla; poi con amichevole libertà si fece a dirle, intanto che ella suonava, come dovesse adoperare coi tasti, quali voci aprire e quali chiudere a tempo.

Questa specie di lezione improvvisata fe' correre assai più spedito il dialogo e più facile e più largo il ricambio dei pensieri tra i due. Cecilia accennava ora un'aria, ora l'altra, secondo il genere di musica o l'autore di cui si parlava; e negli intermezzi si faceva a ringraziare Calisto dei suoi insegnamenti; la qual cosa l'attirò giù giù fino a ringraziarlo della sua cortese assiduità domenicale all'organo della cappella.

– Signorina, – disse Calisto, – non c'è da ringraziarmi per cotesto. Quello che io ricevo è più assai di quello che do, imperocchè nel suonare io trovo un grande conforto, il quale può essere inteso soltanto da chi al pari di me viva tutto solo e scarso di consolazioni.

– È una bella cosa, la musica! – soggiunse Cecilia, che quel malinconico richiamo alle sventure del giovine aveva commossa. – È una bella cosa, ed un grande conforto, in verità. Anche la lettura riesce di sollievo allo spirito.

– Oh, non lo dite, signorina! Io antepongo la musica ad ogni altra cosa, dappoichè essa è una grata sequela di sensazioni, le quali inspirano la mente senza punto vincolarla, e lasciano correre la fantasia, senza tiranneggiare il raziocinio. Il libro vi fa pensare quella data cosa che esso vuole; la parola, vigorosa, ricisa com'è, non consente che una interpetrazione, in quella che la melodia, col suo carattere indefinito, senza precisione di contorni, lascia pensar l'anima, e godere, e dolersi a sua posta. Vi è egli mai avvenuto di star seduta al cembalo, di sera, senza lume nella sala, seguitando sulla tastiera con le dita i vaneggiamenti della fantasia, o con la fantasia i capricciosi trascorrimenti della mano? È quello un diletto che la lettura del più bel libro del mondo non saprebbe darvi; così almeno penso io; o, per meglio dire, pensavo, quando avevo in casa il cembalo consolatore. —

La giovinetta non disse parola e stette a capo chino, forse pensando in cuor suo allo stato di quel povero giovine, che amava tanto la musica e non aveva più un cembalo per consolare le sue veglie malinconiche. Tutto ad un tratto ella si scosse, e provandosi a guardarlo in viso, sebbene cotesto la facesse arrossire, gli chiese con accento deliberato:

– E perchè non avete voluto mai venire da mio padre?

– Perchè? – rispose egli, commosso dalla improvvisa domanda. – Signorina, non crediate che io rifugga dal vedere il conte di Villa Cervia. Soltanto coloro che non mi conoscono possono ascrivere il mio ritegno a rancore, ad odio coperto contro il padrone del castello. Io so molto bene che egli è nell'antica dimora dei suoi, e debbo anzi lodarlo di averla riscattata, appena ne ebbe il destro. Ma voi sapete che in questo luogo io son nato, che qui ho vissuti gli anni felici della mia infanzia, che qui vivono ancora, pur troppo inacerbite, tutte le mie dolci ricordanze. Giovinetto, io attendevo agli studi, in un collegio poco lontano di qui, e sapete che cosa facessi? Per otto mesi continui sospiravo i quattro che avrei passati su questa collina, tra queste mura, accanto a mia madre, alla mia povera madre.

– Era una savia e virtuosa gentildonna, – interruppe Cecilia, – ed ha lasciato tra tutti questi terrazzani un desiderio infinito di sè. —

A queste parole della contessina di Villa Cervia, dette con tanto candore e schiettezza, Calisto si sentì correre un fuoco per tutte le vene. Egli non disse parola, ma, con gli occhi accesi e gonfi di lagrime, le accennava di proseguire.

– Sì, – disse la giovinetta, – quanti ne ho interrogati, tanti mi hanno parlato di lei come di una santa. È veramente una bella cosa lasciare tanta eredità di affetti dietro di sè. Ella soccorreva i poverelli, consolava gli infelici, e, fino a tanto che visse, nessuno fu discacciato da questa dimora ospitale, chiedesse egli pane, o implorasse una proroga a pagar la pigione del campo; però tutti la benedicono e pregano per lei, diventata esempio di bontà e di gentilezza. Io, l'ultima donna dei Villa Cervia, non sono punto gelosa di questo culto alla memoria di vostra madre, e non chiedo a Dio che di poterle rassomigliare.

– Oh, voi siete un angelo, come lei! – gridò Calisto, cadendo a' suoi piedi.

Si era fatta molta strada in breve ora, come vedete. La fanciulla arrossì e si ritrasse; Calisto lasciò andare la sua mano, che in quell'impeto di adorazione aveva afferrata.

– Vogliate scusarmi, signorina! – disse egli, rialzandosi e mettendosi la destra sul cuore. – Voi avete parlato di mia madre come io amo udirne parlare, ma come certo non potevo aspettarmi che ne parlaste voi, di fresco venuta in questi luoghi. Ora uditemi: io non posso entrare laggiù, a vedere quelle stanze dove sono vissuto con lei. Ogni angolo, il vano di una finestra, la svolta di un corridoio, una seggiola di velluto chermisi, tutto mi parla di lei, e (non vi sembri una fanciullaggine) perfino le nappe di una cortina di damasco verde, le quali, stando ella seduta verso la luce di un verone, le accarezzavano ad ogni suo più lieve moto i capelli, laonde era sovente costretta a rimuover la seggiola.