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Lutezia

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XVIII

Una selva di spruzzoli. – Recessi ombrosi. – La casa di un egoista. – Irritazione di nervi. – Correzioni storiche a un cattivo dipinto. – Anna d'Austria. – Un bel madrigale. – Ricordo d'amore, raggio di sole.

Me ne andrò da Versaglia senza aver visti i celebri zampilli e getti d'acqua, a cui si dà moto soltanto in certe occasioni solenni, e che vi trasformano i laghi di questa villa in una selva di spruzzoli. Ma anche senza questi giuochetti, i laghi di Versaglia sono belli a vedersi, coi loro cavalli marini e le loro divinità mitologiche folleggianti a fior d'acqua. Abbondano i recessi solitarii dottamente architettati e rivestiti di borracina, che invitano a sedere, anzi meglio, a sdraiarsi. Raccomando il bosco d'Apollo, una specie di Elicona, col suo fonte Castalio, presso una grotta, ove Febo sta a chiacchiera con le Muse, all'ombra di cento famiglie di erbe e d'arbusti, i cui rami spenzolanti vi dànno un senso di grata frescura. Io ho sentito una voglia matta di avere una palazzina in quel bosco e davanti a quella grotta; la qual cosa dimostrerà una volta per tutte ai malevoli che io non sono un uomo di pessimo gusto. Soggiungo per altro che, se non mi permettessero di fabbricare la palazzina nel bosco d'Apollo, mi contenterei di abitare mille passi più in là, nel piccolo Trianon, e alla più trista nel grande. Perchè son due, i Trianon, non troppo distanti l'uno dall'altro; e sono due, perchè non sono tre. Infatti, il loro nome ve lo dice: tria non.

Quanto al palazzo, vedete la mia modestia, non mi sentirei di abitarci. Eppure, se c'è palazzo fatto a posta, direi quasi tagliato alla misura d'un uomo solo, è proprio questo. Nella sua sterminata grandezza si sente e si vede il carattere personale, la boria egoistica del suo fondatore, e questo sentimento, questa apparenza, non sono punto cancellati dalla trasformazione superficiale del palazzo in Museo e dalla ospitalità accordata «a tutte le glorie della Francia.»

Vi ho parlato di quelle grandi tele che decorano, deturpano, secondo i gusti, le pareti di troppe sale, ripetendo a sazietà, anzi fino alla nausea, le dure fattezze e gli atteggiamenti da ballerino del gran re Luigi XIV. Ce n'è uno, tra questi, che m'ha urtato maledettamente i nervi. Immaginate per fondo del quadro una sala, che riconoscete subito, per averla veduta lì presso e averla sentita chiamare la grande galerie; da un lato è Luigi sul trono, seduto, col cappello in testa, la mazzetta tra le dita e le braccia comodamente appoggiate. Principi e grandi signori stanno in piedi ai due lati del trono. Nel mezzo del quadro è un vecchio, vestito d'un'ampia toga, che, già saliti i tre gradini del palco, s'inchina profondamente, col berretto nella mano sinistra e accostandosi la destra al petto, quasi in atto di picchiare e di dire mea culpa. Dietro a lui, ma ancora sul pavimento della sala, quattro personaggi in toga, e nello stesso atteggiamento del primo, su cui sembrano modellarsi intieramente. Dietro a loro un mastro di cerimonie; nel fondo cinque o sei figure di cortigiani, che ci sono probabilmente come saggio d'un numero maggiore, affollato nella gran sala dei ricevimenti reali.

A tutta prima non mi ero commosso. Ne avevo veduti già tanti, di quei quadri, neppure commendevoli come opere d'arte, che, guardatolo appena alla sfuggita, muovevo già il passo per seguitar la mia strada. Ma il cicerone proprio allora mi disse: —Le doge de Gênes venant faire ses excuses…

Rizzai la testa, trattenni nelle dita la voglia d'uno scappellotto, che avrebbe messo a soqquadro il palazzo e forse m'avrebbe fatto accoppare da tutte le glorie della Francia, mi volsi di nuovo al quadro e guardai la scena che vi ho brevemente descritta. Molte cose mi dispiacevano nel dipinto; ma erano storiche e ci voleva pazienza. Per altro, una non era storica, e mi parve sconveniente che il gran re l'avesse lasciata dipingere da' suoi impiastratori di tela. Che cosa significava quel re seduto e col cappello in testa, davanti al doge di Genova, che aveva salito in quel punto i tre gradini del trono? Apro le memorie del tempo, scritte in Francia, da francesi, e trovo che, alla vista del doge, il re si coperse e invitò il doge a coprirsi; solo i quattro senatori stettero a capo scoperto. Le memorie aggiungono che il doge fece un discorso giusta i termini del trattato; che il discorso fu umile, ma colui che lo pronunziava fu costantemente dignitoso e fiero; che solo quando ebbe finito di parlare si scoperse il capo, salutando, e gli fu risposto con pari cortesia.

Apro le storie genovesi e trovo quest'altro racconto, che ben s'accorda col primo. Passati il doge e i senatori da Parigi a Versaglia, furono sul principio introdotti nell'appartamento degli ambasciatori; quindi, vestiti delle toghe che solevano portare nelle occasioni solenni, salirono, con cento cavalieri del loro seguito, per la gran sala, ove facevano spalliera i cento svizzeri della guardia del corpo, armati d'alabarde. In cima della scala, quattro gradini a basso (notate esattezza minuziosa del cronista!), si trovò il maresciallo duca di Duras, capitano della guardia del corpo, vestito «in abito nero di complimento, all'italiana,» il quale, avendo inchinato il doge, si avanzò a facilitargli il passo in mezzo alla moltitudine dei cortigiani, che ingombrava le scale, gli atrii e l'appartamento regio. Entrato il doge nella sala, ov'erano sotto le armi i moschettieri, proseguì per diverse stanze fino alla grande galleria, a capo della quale stava il re, con monsignore il Delfino a destra e il duca d'Orléans a sinistra.

«Era la galleria, per quanto capace e vasta, così piena di personaggi e di nobiltà dell'uno e dell'altro sesso, che non fu possibile al doge e ai senatori di arrivare così presto alla presenza del re; onde più volte il re stesso, levatosi in piedi, con la mano e con la voce fece segno che s'aprisse la strada, nè bastando questo, calò i due gradini del trono e fece mostra di battere con la picciola canna che aveva in mano. Ma essendo finalmente il doge arrivato in vicinanza del trono, dopo di aver salutato il re, che lo attendeva in piedi, si coprì. Indi il medesimo doge, voltatosi dall'una e dall'altra banda per vedere se i quattro senatori erano a' suoi fianchi, si levò di nuovo la berretta, come fece il re il cappello; ed essendosi l'uno e l'altro ricoperti, il doge con pari energia e franchezza proferì il seguente discorso.»

Ommetto il discorso e la risposta del re, ommetto i complimenti fatti separatamente da questo ai quattro senatori; ommetto le nobili accoglienze avute dai poveri, ma non umili, inviati di Genova, presso i principi e le principesse del sangue. Riferirò soltanto che Luigi XIV «rimase così preso dalle maniere del doge (Francesco Maria Imperiale Lercaro) e insieme così soddisfatto dell'abbondante miniera di scienze varie, speculative e pratiche, che trovò in lui, che fu udito più volte commendarlo tra' suoi; e dire, in riguardo della straordinaria franchezza mostrata nella prima udienza dal medesimo dogo nel profferire l'orazione, che «egli aveva parlato con riverenti espressioni, ma con aria e portamento da principe.»

Così Filippo Casoni, che attinse alle fonti vive. Un altro manoscritto di quel tempo narra che il trono era «alzato solamente di due gradini» e aggiunge che essendo ito il doge a deporre l'abito cerimoniale, e avendo indossato un abito color violetto, sedette a mensa «su d'un fonteglio.» Altri, nello stile d'allora, avrebbe voltato il francese fauteuil in «sedia d'appoggio.» Ma non badiamo a queste minuzie e seguitiamo col manoscritto. «Molte dame, delle principali della Corte e delle più qualificate, erano accorse a veder pranzare il Duce e gli facevano corona all'intorno, quando, essendogli presentato il dessert, le regalò dei più bei frutti della tavola. Fece in appresso il Duce una visita privata al re; stette coperto con esso in discorso, con dimostrazione di particolar gradimento.»

In Parigi e in Versaglia il doge Lercaro e i senatori, che furono Giannettino Garibaldo, Agostino Lomellino, Paride Salvago e Marcello Durazzo, godettero di quei divertimenti «che sogliono dare ai forestieri sì gran città e sì gran corte» e con speciale invito del re furono spettatori «dei giuochi meravigliosi delle acque ne' giardini reali.»

Il re Luigi (sono gli storici di Francia che lo dicono) trattò il doge Lercaro con la squisita cortesia di cui si faceva una legge. I ministri Louvois, Croissy e Seignelay gli si mostrarono più arcigni; la qual cosa fece uscire il Lercaro in questa bella sentenza:

– Il re, con le sue oneste accoglienze, ruba ai nostri cuori la libertà; i suoi ministri ce la rendono. —

E qui viene a taglio di ricordare che il marchese dei Seignelay, avendo chiesto a Francesco Maria Imperiale Lercaro che cosa trovasse di più curioso a Versaglia, ne ebbe la memoranda risposta:

– C'est de m'y voir!

Raccontano a Genova che la frase fosse detta dal Lercaro ad un senatore della sua comitiva; e ciò forse per potersi servire del vernacolo genovese, che la rende in due monosillabi: mi chi. Ma gli scrittori francesi, a cui pare abbia fatto senso, la vogliono detta nella loro lingua, e il citare che fanno il Seignelay ad interlocutore del doge, m'induce a credere che abbiano ragione loro. Il marchese di Seignelay era stato col Duchesne al bombardamento di Genova, ed era il figlio di quel Colbert, che l'aveva a morte coi genovesi, per ragioni di rivalità commerciale. Con lui, nemico garbato, ma nemico riconosciuto, la malinconica ed altera risposta del genovese era proprio a suo luogo.

È piuttosto fuori di luogo la lunga narrazione del fatto. Ma il lettore mi renderà giustizia in questo: che io, per amore di brevità, mi sono astenuto dal raccontare le cause, o per dire più esattamente i pretesti della guerra. Mi premeva soltanto di mettere in chiaro che quel dipinto orgoglioso è in qualche sua parte bugiardo. Ciò non muta il fatto delle scuse, non tempera il dolore del sopruso patito, lo so; ma infine, se è permesso ai popoli di essere gli artefici delle proprie disgrazie (e Genova, come tante altre città italiane, non è stata per questo riguardo con le mani alla cintola), è bello di conservare una certa maestà nella sventura e di meritare l'ammirazione degli stessi nemici. Specchiamoci in questo esempio, ma sopratutto adoperiamoci in guisa da non dover neanche lasciare di queste mezze consolazioni ai nepoti.

 

Muto registro; se no, la politica invade. Prima di uscire da Versaglia, sono andato a salutare un'immagine cara alla mia adolescenza, e probabilmente anche alla vostra. Anche voi, da giovinetti, avrete letti (io li ho divorati senz'altro) i Tre Moschettieri, i Vent'anni dopo, il Visconte di Bragelonne; anche voi avrete fatto raccolta (io ne ho fatto a dirittura una razzìa) di tutti i libri che si riferivano ad Anna d'Austria. Intorno a quella figura di regina, senz'anima, forse, ma non già senza cuore, c'è tutto un ciclo di romanzi, come intorno al buon re Arturo della Tavola Rotonda. Li ho letti tutti quanti e riletti; tornerei forse a leggerne ancora, e a cercarne di nuovi, se non fossi stato a Versaglia e non avessi veduta l'eroina. Dio buono, che amaro disinganno! Dov'era andata l'Anna d'Austria delle cronache contemporanee, bella per donna e per regina, fatta per ispirare amore e rispetto, alta della persona, elegante di forme, cogli occhi verdi e trasparenti, la bocca piccina e vermiglia come un bottoncino di rosa, e i capegli lunghi, morbidi, di quel biondo muto, che dà tanto risalto alla bianchezza delle carni? Ahimè, sarà forse stato perchè avevo veduto poco prima la signora Récamier; ma il fatto sta che Anna d'Austria m'è scaduta un pochino. È bianca, sì; ha bianche e ben tornite le braccia e le mani, di cui era tanto orgogliosa; ma fermi lì, non c'è altro da ammirare. Povera la capigliatura; cortino il collo e le spalle ineleganti d'una bofficiona come se ne vedono tante; le labbra tumide senza grazia, gli occhi verdognoli senza trasparenza, il naso tirato e depresso alla radice, la fronte stretta e allungata, traente alla forma cucurbitacea, che era il carattere distintivo della famiglia; eccovi Anna d'Austria, quella donna che fu argomento di tanti fervidi amori e di tante gelosie feroci. Vedendola, ho sentito il desiderio di dirle: signora, perdonate, ma io non capisco più il duca di Buckingam.

Eppure, no, non può essere che sia lei. Anna d'Austria, abbastanza disgraziata in quella sua vita, che ha da un capo Luigi XIII, il cardinal Mazzarino dall'altro, e l'ombra del cardinale di Richelieu nel mezzo, doveva aver poca fortuna anche col pittore, destinato a tramandarne le sembianze ai posteri. Dev'essere così; è certamente così. Arrotondo quella fronte con uno sforzo di fantasia, metto un po' di fosforo in quegli occhi, dò una toccatina a quel naso, alleggerisco quel collo; ed ecco l'Anna d'Austria della mia adolescenza, l'Anna d'Austria amata da Giorgio Villiers, duca di Buckingam, che fece tante sublimi sciocchezze per lei e a cui la vita fu interrotta da un colpo di pugnale, forse perchè non avesse a farne delle altre.

Anna d'Austria amò Giorgio Villiers? Quanto e fin dove? L'hanno voluto sapere un po' tutti; ma Chamfort chiude la bocca a tutti, con una sentenza che vale tant'oro: «Intorno a questo negozio (egli scrive) la metà di ciò che si dice non è vero, e la metà di ciò che è vero non si sa.» Certo, la passioncella ci fu; non se ne fece mistero; divenne quasi uno scherzo familiare il rammentarla. Quando il cardinale di Richelieu presentò il suo segretario, Giulio Mazzarino, alla bella e vigilata regina, le disse sorridendo: «Voi lo amerete, signora; egli somiglia un pochino a Buckingam.»

Sedici anni dopo la morte di Giorgio, e spariti anche dalla faccia della terra i due uomini che più fieramente l'avessero odiato, Anna d'Austria, allora ritirata a Rueil, incontrò in un viale il Voiture, suo poeta favorito. Costui veniva innanzi cogitabondo, o fingeva. – A che pensate? – gli domandò la regina. – Pensavo, – rispose il Voiture, rizzando la testa come un uomo che si sveglia, – pensavo…

 
Je pensais que la destinée
Après tant d'injustes malheurs
Vous a justement couronnée
De gloire, d'éclat et d'honneurs,
Mais que vous étiez plus heureuse
Lorsque vous étiez autrefois
Je ne veux pas dire amoureuse…
La rime le veut toutefois.
Je pensais (car nous autres poètes
Nous pensons extravagamment)
Ce que, dans l'humeur ou vous êtes,
Vous feriez, si, dans ce moment,
Vous avizies en cette place
Venir le due de Buckingam,
Et lequel serait en disgrace,
De lui, ou du père Vincent.
 

Il P. Vincenzo era il confessore della regina. Anna d'Austria (racconta la signora di Motteville) non si offese dei versi; anzi, li trovò così belli, da volerne una copia, che custodì lungamente nel suo pensatoio.

Ricordo d'amore in una triste esistenza; raggio di sole in un cielo tempestoso!

XIX

Rassegna alla corsa. – Passeggiate e giardini. – Armi ed armature. – La casa degl'Invalidi. – Il soldato con la testa di legno. – Un rogo di trofei. – Napoleone I e la storia. – Dove andiamo? – Al Père Lachaise.

L'Istituto, l'Accademia, l'Osservatorio, l'Università, la Sorbona, gli Archivii, la Scuola paleografica; ecco un bel numero di cose che vorrebbero essere attentamente studiate. Queste ed altre, che per amore di brevità non accenno neanche, son glorie vere e durevoli della Francia; parecchie di queste non hanno riscontro presso le altre nazioni: tutte concorrono a darlo il primato in quella che si potrebbe chiamare la distribuzione del pensiero moderno, agevolata dall'uso di una lingua che tutte le persone un po' colte, o parlano, o cincischiano, o almeno intendono, nelle cinque parti del mondo. Ed è naturale che sia così, poichè la lingua dei gallo-franchi, impastata di tanta romanità, favorita da tanti secoli di fortuna politica, è come l'anello di congiunzione tra le lingue nordiche e le meridionali d'Europa. Ma, tornando alle cose di cui sopra, io sono pur costretto a passarmene, perchè queste lettere non eccedano la misura della discrezione. Immaginando che siate stanchi di palazzi e di musei, lascio da banda il Lussemburgo, un Pitti parigino, col suo giardino maraviglioso, che fu tracciato pensando a quello di Boboli. Non vi trattengo neppure coi pochi avanzi romani di Parigi, nè coi molti medievali, tra cui l'elegantissima torre di San Giacomo e la severa cattedrale di Nostra Donna, che mi condurrebbero Dio sa dove, fors'anco a parlarvi dell'arte gotica; un'arte che io, mezzo pagano, ammiro grandemente, ma senza capirla poi troppo.

Ci sarebbe da descrivere i giardini, i parchi, le passeggiate campestri, per cui Parigi è famosa. Infatti, le delizie di questo genere non si restringono tutte nel bosco di Boulogne e nei Campi Elisi. Per esempio, una lettera la vorrebbero per sè quelle amenissime Buttes Chaumont, gruppetto di colline, tra cui, da un avvallamento di verdura, si rizza una balza acuta, sormontata da una specie di Tempio della Sibilla, come nelle vicinanze di Tivoli. Ma la lettera non sarebbe che un esercizio di stile, da farsi ammirare, o accoppare, secondo i casi, e nell'uno o nell'altro, da non farsi capire. Io, già lo indovinate, non riuscirei che a farmi accoppare; ergo, acqua in bocca. E taccio, per la stessa ragione, del Jardin d'acclimatation, vastissimo ritrovo, di piante esotiche e d'animali domestici delle varietà più rare; taccio del Jardin des Plantes, ancora assai ricco per la sua flora, ma non più tanto per la fauna, ond'era in altri tempi così celebre. I leoni, le tigri, le pantere, i leopardi, ed altri nobili rappresentanti della famiglia felina, debbono aver lasciate le polpe nell'assedio del 1870. Per contro, è rimasta incolume la bellissima collezione di rettili, tra cui molti coccodrilli, boa, serpenti a sonagli, pitoni, naje, aspidi di Cleopatra, vipere, ceraste, e via discorrendo; nè occorre il dirne la ragione ai lettori.

Sarebbe piuttosto il caso di una lunga fermata all'Hôtel des Invalides, monumento ed istituzione ugualmente ammirabili, e per sè stessi, e pel museo d'armi e d'armature, che v'è annesso, dalle accette di selce fino alla mitragliatrice, dagli arnesi del guerriero gallo fino ai calzoni corti del soldato di Sambre-et-Meuse, con una giunta ricchissima di tutte le foggie antiche e moderne dei combattenti d'ogni parte del mondo. Ma anche questa sarebbe archeologia, e voi vorrete ormai tornare allo studio del vivo, magari anche uscir fuori da questo commercio epistolare. Prendiamo una via di mezzo; vi parlerò degli Invalidi, che abitano ancora là dentro, aspettando l'appello dell'ultima sera e i tre rulli del silenzio finale. Son gente malinconica e poco socievole, quantunque vivano insieme. Già, a quell'età, e venendo da corpi diversi, non è più il caso di stringer vincoli di famiglia posticcia. Mangiano e dormono sotto il medesimo tetto, ma si sparpagliano volentieri per le vie circostanti; quali a piedi, e sorreggendosi sulle grucce, quali in una carrozzella, di cui muovono i congegni da sè. I pochi che restano a soleggiarsi nel cortile, presso la batteria trionfale, composta di cannoni d'ogni forma e d'ogni provenienza, parlano poco e mal volentieri tra loro.

Io ne ho trovato uno molto cortese; ma la stessa sua cortesia mi è stata cagione d'un disinganno. Vedendogli qualche medaglia sul petto, gli avevo domandato quali campagne avesse fatto. —Des campagnes? Je n'en ai pas;– mi rispose —J'étais aux cuirassiers; je n'ai donné que dans les émeutes.

Un soldato decrepito scaldava al sole il suo magro corpicciuolo e parecchie medaglie, tra le quali spiccava la stella della Legion d'onore. Chiesi al mio cicerone se quello fosse un soldato del primo Napoleone. – Sì, – mi rispose, – delle ultime campagne del grande Impero. – E quella decorazione? – Sì, è decorato; gli hanno reso giustizia. – Per qual fatto d'armi? – Per nessuno; l'ha avuta tre mesi fa; – mi rispose il cicerone corazziere. Capii così in digrosso, che, dopo un certo numero d'anni d'invalidato, si acquista il diritto alla stella. È una decorazione d'anzianità; quando uno l'ottiene, si può dire benissimo che gli hanno reso giustizia.

Gl'invalidi furono raccolti per la prima volta in questo ospizio da Luigi XIV. Anticamente, anzi fino dai tempi di Carlomagno, e in forza d'un suo decreto, erano posti a carico dei monasteri e delle abbazie, sotto il nome di oblati; cosa che non doveva piacer molto ai priori d'allora, nè dovrebbe piacere agli abati d'oggidì, comunque laudatores temporis acti. Luigi XIII fu il primo ad istituire una comunità ad hoc, sotto il nome di Commanderie de Saint Louis, ove gli storpi e i mutilati dell'esercito fossero alloggiati e nutriti. Il figlio compì l'opera del padre, allargandola alle proporzioni d'un grande ospizio, capace di duemila ricoverati.

Un po' di buona vita aveva fatto dei primi Invalidi la gente più allegra e burlona del mondo. Nacque allora la leggenda dell'invalido con la testa di legno, che i visitatori più semplici dell'ospizio andavano cercando di piano in piano, di camera in camera, senza trovarlo mai, quantunque ognuno degli invalidi, a cui si rivolgevano per informazioni, giurasse di averlo lasciato poc'anzi, in questo luogo, o in quell'altro, aggiungendo qualche volta che doveva essere andato dal barbiere, ma che non poteva star molto a ritornare. Per fortuna dei Calandrini, uscì fuori una Guide de l'Étranger à Paris, che, accennando a questo invalido con la testa di legno, soggiunse pietosamente: «qui jamais n'a existé

Ora, ve l'ho detto, gl'Invalidi sono diventati malinconici. Inoltre, vanno diminuendo; le pensioni, fatte più grasse, danno agio ad ufficiali e sott'ufficiali di andarsene a vivere in provincia, presso gli avanzi delle loro famiglie; meno bene, forse, ma con la loro bella indipendenza. Tuttavia, l'ospizio rimane una bella istituzione e un monumento degno di essere visitato. La chiesa è piena di bandiere prese al nemico, ma tutte posteriori al 1815. I vecchi trofei di quattro secoli, in numero di millecinquecento, furono coraggiosamente, ma non lietamente, bruciati in mezzo al cortile, quando Napoleone I fu domato dalla fortuna e gli eserciti alleati stavano per entrare in Parigi. Tra que' trofei erano le insegne e la spada di Federico II.

Alle spalle della chiesa degli Invalidi, e congiunta con essa, è quell'altra in cui sono sepolte le ceneri di Napoleone. Egli è là, il grand'uomo, nel suo masso di granito rosso finlandese, sorretto da un basamento di marmo verde; egli è là, chiuso nelle sue cinque casse, di latta, di magògano, di piombo, d'ebano e di quercia, l'eroe che ha sbalordita l'Europa con le sue vittorie e con la sua immane caduta; amato e venerato ancora, con tutto il male, odiato e maledetto ancora, con tutto il bene che ha fatto, e, dopo tutto, non giudicato più severamente da nessuno, che non lo fosse da sè medesimo in un momento di epico malumore.

 

La cosa è narrata da Lord Holland, nelle sue preziose memorie. Napoleone non amava il Rousseau, e al conte di Girardin, che gli lodava il filosofo ginevrino come un uomo di rette intenzioni, rispose: – «no, egli era un uomo cattivo; se non fosse stato per lui, la Francia non avrebbe avuta la rivoluzione». E siccome il Girardin non potè trattenere un sorriso, – «volete dire, soggiunse Napoleone, che, senza la rivoluzione, la Francia non avrebbe avuto neanche me? È possibile; ma essa, dopo tutto, non ne sarebbe stata che meglio.» —

Siamo giusti, anche con quest'uomo che si condanna da sè; la Francia non ne sarebbe stata peggio, di certo. Ma la rivoluzione, anche a non volerci vedere tutte le fiere bellezze che innamorarono un mondo d'inconsapevoli copisti, era un fatto necessario nell'ordine delle cose. Si può disputare del più e del meno, abbominare le esorbitanze, credere perfino che i «diritti dell'uomo» fossero già vivi ed operanti nelle coscienze, prima d'essere incisi nelle tavole della legge; ma bisogna riconoscere che quello scoppio d'ira fu un effetto logico di cause non dimenticabili, come tanti altri fatti grandi e piccini, utili e dannosi, sovrabbondanti nel bene e soverchianti nel male. I fatti hanno le loro ragioni efficienti, che li concatenano, e le tradizioni d'un popolo, che li sviano qualche volta, ne signoreggiano il corso; questa doppia azione, diretta e riflessa, costituisce la storia. E Napoleone, figlio e ministro della fortuna, sorto dalle rovine di una grande vendetta che aveva oltrepassato l'intento, artefice d'una nuova tirannide per naturale ambizione, ma altresì d'un nuovo ordine di cose, che altri, in condizioni normali, non avrebbe potuto instaurare, doveva essere un flagello e una benedizione pel mondo. Incantesimi rotti, ostacoli vinti, abissi colmati, ecco l'opera di un uomo. E quando si pensa che fu un uomo per davvero, non un fantoccio in balìa dei partiti o del caso, si può guardare con rispetto quel masso di granito e pensare che esso è ancora meno saldo, ancora meno durevole, della gloria immensa a cui si accompagna.

Giovenale ha chiesto una volta: «quot libras in duce summo?» Ma questo signor Giovenale non è tutto oro di coppella. Le grandi larve siedono ancora sui pugni d'ossa e di polvere, che furono le loro spoglie mortali. Si pensa, davanti a quelle reliquie, e lo spirito si eleva. Tutto ciò che eleva lo spirito aiuta il progresso dell'umanità e ne ingentilisce il costume, rendendo a mano a mano più agevole il gran punto, che pure è tanto difficile ancora, della convivenza sociale. Convivenza! esclama il pessimista; per che fare? In verità, io non ne so nulla, e non credo che gli altri ne sappiano di più. La stessa domanda si potrebbe fare pel nostro sistema planetario, che è pure così ben conosciuto in tutta la sua distribuzione meccanica. Dicono gli astronomi che andiamo di questo passo verso il lambda della costellazione d'Ercole; ma non è anche accertato, pur troppo, che ci fermeremo laggiù.

Per intanto, questi frettolosi viventi di Parigi vanno al Père Lachaise, e non tutti hanno la fortuna di allogarsi in un masso di granito. Ci sono stato anch'io, ma non già per restarci, come vedete. Il luogo mi piace poco. È una collina, c'è alberi e sole; ma i cippi sono troppo ammucchiati, serrati in fila, sui margini di certe strade selciate, come quelle che danno già tanta molestia ai viventi. I monumenti solitarii son pochi; abbondano i tabernacoli, e vi ricordano quelli dei crocicchi campestri.

Trovai molta gente che si affollava ad una di quelle nicchie, per scrivere il nome in un libro, come si fa nelle anticamere dei grand'uomini ammalati. Curiosa maniera di rendere omaggio al Thiers, che è sepolto là dentro; ma, dopo tutto, è una maniera che vale quanto un'altra. Lì presso è il monumento di Raspail, coperto affatto, come sepolto, sotto un monte di corone. Per contro, il povero Gall, l'inventore della frenologia, è lì, a due passi dal Raspail, senza il tributo d'un fiore; non avrebbe neanche l'occhiata del viandante, se non fosse pel suo sistema delle protuberanze del cranio, rappresentato a contorni, che si vedono incisi su tre facce del cippo.

Un bel monumento, sormontato da una statua di bronzo, ricorda Casimiro Périer; una tribuna oratoria, in marmo, onora la memoria di Garnier Pagés. Béranger ha voluto onorare l'amicizia, facendosi seppellire nella tomba del suo diletto Manuel, il grande oratore, morto tanti e tanti anni prima di lui. Grandi ricordi non cercati s'incontrano ad ogni piè sospinto. Io ho cercato Rossini e Bellini, di cui resta il cenotafio, poichè le ceneri sono tornate alla patria, e Alfredo de Musset, il cui salice disseccato non dà più ombra alla terra ove dorme il poeta.

Salendo per una viottola a destra, mi sono imbattuto in un monumento gotico, che non avevo cercato, ma che sarei oggi dolentissimo di non aver visto. Colà, sotto un padiglione sorretto da svelte colonne, come in un letto antico, stanno composti nel sonno eterno, l'uno a fianco dell'altro, due celebri amanti, Abelardo ed Eloisa. Chi rammenta la badia del Paracleto? Chi rammenta il concettualismo e le dispute con Bernardo di Chiaravalle? Una mezza dozzina di eruditi. Ma i due amanti sono rimasti nella memoria di tutti; un grande amore, sopravvissuto alla tomba,

Vince di mille secoli il silenzio.