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Lutezia

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XII

Le grandi cose e le piccole. – Teatri e concerti. —Incipit lamentatio.– Il più costoso tra tutti i rumori. – Caffè cantaiuoli. —Il faut que jeunesse se passe.– I sette castelli del diavolo. – Cavalli e pantomimi. – L'amore al lavoro.

Abbiamo veduto il palazzo del campo di Marte con tutte le sue dépendances, e abbiamo veduto il palazzo del Louvre; l'esposizione del presente e l'esposizione del passato, la transitoria e la permanente; a farla breve, le due grandi cose di Parigi.

Ma Parigi non vive solamente di grandi cose; vive molto e sopratutto di piccole. Chi non ha lette Les petites industries di Edmondo Texier, uno studio pubblicato sulla famosa Guida di Parigi del 1867, dove l'arguto scrittore del Siècle racconta come, vadano a finire i trecentomila mozziconi di sigaro buttati quotidianamente per via, come si faccia il pan grattato per le trattorie di quart'ordine, come si fabbrichino le creste di pollo e le ossa di prosciutto, e via discorrendo, non sa quanto ingegno ci voglia per cavare il nuovo dal vecchio, nè quanta fortuna arrida a questi sforzi di una civiltà sopraffina. Qui niente d'inutile, niente di perduto o di buttato via; dei rilievi d'un pranzo della Maison dorée si fa un arlequin dei Mercati; cogli avanzi dell'Acadèmie nationale de musique (che così pomposamente si chiama il teatro dell'Opera) si possono fare le musichette dei cafés chantants. Qualcheduno pretende che ci sia uno scambio, come un movimento di flusso e riflusso; ma io non ardisco andare tant'oltre.

All'Opera si spende troppo e non è dato a tutti di entrarci. Il bureau de location si apre un'ora prima dello spettacolo; bisogna far coda all'ingresso, per sentirsi a dire, un'ora dopo, che primi, secondi e terzi posti, tutto è andato a ruba da cinque giorni, e magari da quindici. Volete un biglietto d'anfiteatro, d'orchestra, o di loggia, per la medesima sera? Lo troverete sicuramente, ma ad uno di quegli uffici di rivendita, che sono frequentissimi nelle vicinanze dei teatri, e specialmente sui boulevards, pagando, secondo le circostanze, quaranta o sessanta lire quello che è segnato per quindici sui prezzi correnti del bureau de location, il quale non ha mai nulla per voi.

Tra parentesi, che cosa ne avviene? Quello che è avvenuto due settimane fa, appunto alla grande Académie nationale de musique. Un tenore si ammala, poche ore prima dello spettacolo. Come supplirlo, da un momento all'altro, e senza la possibilità di una prova d'orchestra? Cambiar lo spartito! Magari; ma, per far ciò, mancano le decorazioni, il vestiario, le scene. In quella gran mole, così bella, quantunque farragginosa, dell'architetto Garnier, non c'è posto per un magazzino, per una attrezzeria proporzionata al bisogno. Ci vuole almeno un giorno per introdurre e mettere a posto tutto ciò che occorre allo scenico allestimento del Profeta o del Faust. Dunque? Bisogna rimandare la gente che sta per entrare in teatro e restituirle i danari: cioè, intendiamoci, promettere di restituirli la mattina vegnente, con comodo, e mediante il sistema della coda al bureau de location.

L'impresario non sa darsene pace. È una brutta cosa dover restituire 22,000 lire, chè tante ne erano entrate in cassa quel giorno. Ma il caso dello spettatore è anche più brutto. Il biglietto d'ingresso, secondo la tarifia del teatro, val quindici lire? Gli restituiscono puntualmente le sue quindici lire. Ma quel biglietto egli lo aveva pagato sessanta in un bureau di fuori via, che naturalmente non restituisce nulla, perchè non era lui il mallevadore della rappresentazione. E così avviene che il sullodato spettatore abbia pagato quarantacinque lire per non veder nulla, e per sentire altrettanto. In verità, è troppo caro.

Del resto non vi lagnate; se siete buongustai, non avete perduto altro che l'occasione d'un disinganno. L'esecuzione musicale è meschina; le decorazioni son tutto. Questi famosi spettacoli (e qui non parlo solamente per l'Académie nationale de musique) si reggono per la moltitudine degli spettatori, che si dànno la muta ogni sera; il buon esito è assicurato da una claque intelligente: la riputazione è formata da una critica, anche più intelligente della claque.

Per queste ragioni, ed anche un pochino per questi pericoli, rinunzieremo a certe musiche grandiose e andremo a sentire la musichetta dei caffè cantaiuoli. Sono veri teatri, questi caffè, somiglianti a certe arene d'Italia; platea all'aperto, qualche volta protetta da un velario; quattro alberi intorno, ma non sempre; il palcoscenico in fondo, elegantissimo, con grandi specchiere, lampadari, fiammelle di gasse; queste poi a centinaia, a migliaia, sotto tutte le forme conosciute dal cavaliere Ottino, ed altre ancora, dentro e fuori del recinto, imprigionate in bellissimi globi di cristallo. Bisogna trovarsi sull'imbrunire ai Campi Elisi, in questa amenissima passeggiata che dalla piazza della Concordia mette all'Arco della Stella e al Bosco di Boulogne; le fiammelle di tutti quei caffè, vedute attraverso le piante, riescono d'un effetto magico, fantastico, e… trovate voi gli altri epiteti, perchè io ci perdo la scrima. Di tanto in tanto un concertino di corni da caccia vien fuori ad avvertirvi che quelle fiammelle dei Campi Elisi non sono le anime dei giusti, e che potete entrare liberamente anche voi. Entrate di fatti, o all'Alcazar, o agli Ambassadeurs, o all'Horloge; ai primi posti sborserete tre lire, ai secondi la metà, sotto forma di pagamento per un gotto di birra, o per un mazagran (caffè in bicchiere) che avrete domandato al tavoleggiante e che egli vi avrà posto su d'un listello orizzontale di latta, appiccicato alla spalliera d'una sedia, che sarà in linea perpendicolare davanti alla vostra. Inutile il dirvi che per una seconda portata si paga da capo, ma non più così caro.

Frattanto, sul palcoscenico le cantilene si succedono e si rassomigliano. La più parte sono sciocchezze, senz'altro sugo che quello di un doppio senso fatto abilmente capire, o dalla bellezza, o dalla grazia, di chi canta e gesticola; bene inteso, se chi canta e gesticola appartiene al «devoto femmineo sesso.» Le voci, per solito, si fanno desiderare; gli abbigliamenti sono elegantissimi e spesso anche limitatissimi. Intorno alla cantante, o al cantante, sedute su certi canapè, come in un salotto e durante un concerto di società, si vedono spesso dieci dodici tra baronesse e contesse di princisbecco, le quali non hanno altro ufficio che di muovere il ventaglio, di guardare a destra e a sinistra sicut leo rugiens, e di mostrare i denti, quaerens quem devoret. Di queste dame non è piccol numero neanche in platea. Guai a voi, se siete Mozambicco, cioè a dire non avvezzo a queste magnificenze; la testa vi gira, e, nell'uscire dal tempio, non vedete più i meandri della sacra selva, donde vi bisogna uscire, per tornarvene a casa. Fortunatamente, non è lontana la piazza della Concordia, coi suoi mille lampioni accesi, colle sue statue colossali in giro e col suo obelisco nel mezzo. Arrivate là, guidato da quella gran luce; vi parrà d'essere in Alessandria d'Egitto. L'obelisco di Cleopatra vi guarda; se non siete Marc'Antonio, ci scatta poco.

Ho citato tre caffè cantaiuoli, ai Campi Elisi. Poco distante è il Mabille, un giardino dove si balla, cioè, correggo la frase, dove si vede ballare. Il luogo ha più fama che non meriti; i forastieri ci vanno in folla e ne ritornano disillusi, qualche volta stomacati. Bullier, una variante, o riscontro di Mabille, è sull'altra riva della Senna; gli studenti ci abbondano. Il faut que jeunesse se passe. Non dico di no; purchè passi all'esame!

Un teatro, o caffè, o giardino, più curioso di tutti è parso a me quello delle Folies Bergères, poco discosto dal boulevard Montmartre. C'è un teatro chiuso, con gallerie, platea ed orchestra; c'è un giardino, colla sua brava fontana zampillante nel mezzo, ma tutto coperto da cristalli e anch'esso con gallerie che corrono torno torno; un medesimo vestibolo vi conduce al bivio, anzi al trivio del giardino, della platea, delle scale, che mettono su, alle gallerie dell'uno e alle logge dell'altra. Da per tutto i deschetti di zinco; da per tutto i tavoleggianti, pronti a servirvi; in alcuni punti di passaggio i banchi, a cui siedono le rappresentanti dell'autorità padronale; tra queste una giovine donna, con veste scollata, i baffi e le fedine lunghe un palmo, che sta a sentire, col suo sigaro ai denti, le giaculatorie dei gommeux, in adorazione davanti a lei. Lungo gli anditi e le gallerie è una processione continua di viscontesse e di duchesse Christophle, sfarzosamente vestite, che vi passano daccanto, distribuendo occhiate imperatorie. Potete offrir loro un rinfresco; la galanteria francese non lo impedisce, e Baiardo nei panni vostri farebbe lo stesso. Se non lo fate, niente di male; son tanto alla mano, quelle gran dame, che quel rinfresco, alla vostra tavola, sono capaci di offrirselo da sè.

Qui, lo confesso, fui Mozambicco, rimasi a bocca aperta, cogli occhi sbarrati, davanti a tanto spreco di luce, di eleganze, ed anche di povera carne umana. Triste spettacolo, per un moralista dell'antica maniera! Uno della nuova vi asserirà che il chiudere questi ritrovi non muterà le condizioni fisiologiche, o patologiche, del «cervello del mondo.» Io credo che sarebbe già un tanto di guadagnato a togliere la mostra, e che tante disgraziate coscienze perderebbero l'incentivo. Un tempo si diceva: le roi s'amuse: ora Parigi ha preso il posto e fa le veci del re; per divertire Parigi e i suoi centomila ospiti di tutto l'anno, occorre molta gente in scena, qualunque sia lo spettacolo. L'operaia del giorno è figurante di sera; il figlio di Parigi, chiusa la bottega, va a fare il romain, il claqueur, n'importe quoi, in un teatro qualunque; magari il ballerino a Mabille. Egli pure si diverte, e si diverte gratis, aiutando a quest'opera di corruzione intensiva, che rende così piacevole agli uni, così molesto agli altri, il soggiorno di Parigi. Il garzone del mio parrucchiere, un bravo ragazzo, dopo tutto, che legge due volte alla settimana il Journal des abrutis, e lo capisce, mi ha confessato di fare ogni sera il claqueur al teatro dello Châtelet, contribuendo largamente al trionfo dei Sept Châteaux du Diable, rappresentazione fantastica, mimica, coreografica, lirica e melodrammatica, che abbraccia tutti i generi, e ne rasenta degli altri.

 

Questa féerie dello Châtelet meriterebbe una lettera da sola. Siamo nel prologo all'inferno, dove Belzebù si cruccia di non aver più carne per la sua pentola. Un diavolo agli sgoccioli, come vedete, e a Parigi! Che cosa fa lui, per rimediare a questa carestia? Corre in Bretagna, a perseguitare due contadinotte, le quali hanno fatto voto di andare in pellegrinaggio ad un santuario dei più reputati; le fa passare per sette tentazioni, corrispondenti ai sette peccati capitali, in sette castelli incantati, l'uno più meraviglioso dell'altro. Ma ohimè, povero diavolo! Le contadine arrivano al santuario, in barba sua; un po' sbattute, se vogliamo, un po' lacere, ma finalmente ci arrivano, in compagnia dei loro innamorati, cantando, ballando, curiosando, attraverso il serraglio di Stambul, le piazze di Ninive, il regno di Gargantua, ed altri luoghi consimili, che dànno occasione allo scenografo, al macchinista, al corpo di ballo, di farsi un onore immortale.

Non meno portentosi di quelli dello Châtelet, sono gli spettacoli dell'Hippodrôme. Il teatro, tutta in ferro, capace di diecimila e più spettatori, ha un'arena, che è vasta, a giudicarne così ad occhio e croce, come quella del Colosseo. Figuratevi che tutti gli artisti, perfino i clowns, quando vengono a fare i loro giuochi, entrano nell'arena in carrozza a quattro cavalli, cogli staffieri dietro, tutti incipriati, pronti a saltar giù, per aprir lo sportello ai gloriosi mattaccini. I giuochi sono stupendi, qualche volta paurosi, come quello dell'Atlante che si porta su, colla punta dei piedi, il suo globo di cartone per una spirale alta cinquanta metri, e se lo riporta giù, collo stesso metodo, su quella lista di legno, larga cinquanta centimetri, senza ringhiera, e con una inclinazione del quaranta per cento. Bella sicurezza d'occhio e bella forza di punte! Ad ogni intermezzo, poi, compariscono i nani e il gigante cinese; i nani sono alti sessanta centimetri; il gigante due metri e trentacinque; dico trentacinque. Quando gira attorno, avvicinandosi alle gradinate, e sorride, si ha paura d'essere attratti, mandati giù per quella bocca, come un rosso d'uovo. Ultima è sempre una pantomima, in cui c'entrano tornei medievali, mostre di cento cavalli, di splendide armature d'acciaio, colla solita moltitudine di figuranti; parigini e parigine, che ingrossano la compagnia equestre, e mostrano (chi vorrebbe negarlo?) di prendere amore al lavoro.

XIII

Sequitur lamentatio.– Usanze barocche. – Il tempio dell'arte drammatica. —La entième de Hernani.– Onorate l'altissimo poeta. – Il bello e il deforme. – I miei classici.

Rimango nei teatri, se non vi spiace, perchè ci ho dell'altro da dirne.

Quella forzata intromissione del rivenditore di biglietti d'ingresso deve sicuramente far comodo a qualcheduno; poniamo agli stessi impresarii teatrali, i quali s'ostinano a tener chiusi fino all'ultim'ora i bureaux de location; ma essa non fa comodo certamente al forastiero, che se ne lagna, nè al parigino, che la tollera. E questa non è la sola tra le noie a cui va incontro chi si reca a teatro. Ugualmente molesta, se non forse di più, è l'istituzione sociale delle ouvreuses de loges; veri sciami d'arpie che infestano tutti i teatri di Parigi. Se non si trattasse che della mancia per un ombrello, una spolverina e uno scialle, di cui l'ouvreuse ha voluto ad ogni costo liberar voi e la vostra signora, meno male; e tanto meno male in una loggia che non somiglia punto alle nostre d'Italia, in una loggia dove siete in sei, ed anche più, non avendo di vostro che la sedia occupata da voi. Ma il guaio grosso è nel modo in cui dovete entrare e rimanere, acciuga infelicissima, nell'anfiteatro… del teatro.

Si chiama impropriamente anfiteatro una certa escrescenza che fanno i teatri di qui, all'altezza della prima fila dei palchi; specie di mezza luna che si avanza, come una platea sulla platea, ma senza coprirla tutta; che è larga e piena nel mezzo, e si assottiglia a mano a mano sui lati, fino a non dar luogo che per un posto solo. È fatta a scaglioni co' suoi sedili e i suoi cunei, fra mezzo ai quali salgono le gradinate di passaggio, come nei teatri e negli anfiteatri romani; donde il nome che ho detto. Ora, badate a me. I sedili, in questa mezza luna, come nelle altre spartizioni del teatro, son tutti numerati; ma i posti numerati non si sono venduti al bureau de location, bensì negli uffici di rivendita, e a prezzi naturalmente esagerati. Il posto che avete preso, con molto sforzo, al bureau de location, vi dà diritto anch'esso di entrare nell'anfiteatro, ma dipende dalla bontà dell'ouvreuse e dall'argomento ad hominem, cioè, no, ad foeminam, che le avrete fatto luccicare sott'occhio, di ottenere il meno peggio dei posti, inventati lì per lì, la mercè di certe assicelle di legno, collocate di gradino in gradino, tra cuneo e cuneo, o, per parlare il linguaggio del tempo, tra settore e settore. L'ouvreuse, angelo di misericordia, può darvi anche un cuscino, da mettere sull'assicella di legno; ma quel cuscino vi bisogna pagarlo, come avete pagato il servizio di non essere spinto su, coi meno fortunati, nel punto più alto e più lontano della gradinata di passaggio.

Quanto alla gente dei posti numerati, entrata che sia a fare il suo mestiere di acciuga, ha più poca speranza di muoversi. Perchè uno possa uscire, a prendere una boccata d'aria, bisogna che dieci o venti persone, sedute nella gradinata di passaggio più vicina, si alzino l'una dopo l'altra, tolgano il cuscino, sollevino la ribalta, e ad una ad una gli concedano il passo. Immaginate la noia che date, e i moccoli che ognuno attacca, nel santuario della propria coscienza, tutti per voi, e non già per pregarvi del bene. Conchiudo dicendo che questa dell'anfiteatro è un'usanza barocca; quella dell'ouvreuse, che vi presiede e ne approfitta, una invenzione diabolica; e l'una e l'altra non hanno poco contribuito a guastarmi coi teatri francesi.

Ho detto teatri francesi, al plurale, in forma collettiva. Parlando al singolare, abbiamo il Teatro Francese, così detto per antonomasia, che vuol essere eccettuato. La verità avanti ogni cosa, e il Teatro Francese avanti ogni teatro di commedia, di dramma, o di tragedia, che sia di presente in Europa, anzi nel mondo civile. Anch'esso ha la mezza luna e le ouvreuses, forse per dimostrarvi che non c'è niente di perfetto nel mondo sullodato; ma questa imperfezione è largamente compensata dalla abolizione della musica, o, per dire più esattamente, di quel concertino di trombe, violini, violoncelli et similia, che tien luogo d'orchestra in tanti teatri moderni. «Le plus cher de tous les bruits», come lo ha definito in un momento di cattivo umore il Gautier, non vi lacera gli orecchi, sotto pretesto di riempir l'intermezzo; il manico del contrabbasso non si rizza indiscretamente fra voi e gli attori, non si curva curiosamente ad origliare, come un servitore della commedia antica, le conversazioni amorose de' suoi giovani padroni.

Tacerò dello scelto uditorio che assiste alla rappresentazione del Teatro Francese. È un po' cosmopolita, il pubblico di questi ultimi mesi; ed io per conseguenza ho dovuto vederlo tale, alcune sere fa alla centesima rappresentazione dell'Hernani. Per altro, anche questo pubblico cosmopolita, più curioso che intelligente, più stupefatto che buongustaio, sentiva anche lui la maestà dell'ambiente. Questo è il maggior tempio dell'arte drammatica; messe piane non se ne dicono; tutte messe cantate. Molière, Racine, Corneille, sono i canonici più autorevoli del capitolo; seguono pochi altri, ultimi venuti, tra i quali l'Augier; Victor Hugo c'è entrato giovane, di straforo; ma oggi, grazie all'ingegno suo e al consenso del popolo, ha dignità di arcivescovo.

Descrivervi questa centième del dramma di Vittor Hugo, non si può; nè io son uomo da tentar l'impossibile. Vi schicchero alla buona le mie sensazioni, e non tutte, perchè in verità non mi ci raccapezzo; tante furono, e così vive. Anch'io ho dovuto applaudire à tout rompre, incominciando dai guanti; applaudire ripetutamente, furiosamente, come se fossi un romain, uno chevalier du lustre, un clacqueur (tre sinonimi, per dire un applauditore salariato), oppure un romantico della vecchia scuola, un discepolo del Maestro, un Ugolatra, insomma. Sapete che cosa sia, o meglio, che cosa fosse, trent'anni fa, un Ugolatra, e che cosa l'Ugolatria. Vittor Hugo, autore a ventisette anni della famosa prefazione del Cromwell, era detto per eccellenza il Maestro, i fedeli alle sue dottrine, si chiamavano i discepoli, gli apostoli; perfino il modesto luogo in cui si riunivano a spezzare il pane della nuova vita e a sbocconcellare la costoletta dell'amicizia, si chiamava, con nome evangelico, il Cenacolo. Luigi Reybaud, in que' tempi, canzonò gentilmente la nuova religione letteraria nei primi capitoli del suo Jerôme Paturot à la recherche d'une position sociale. E certo l'esagerazione ci fu, non indegna di riso; ma non tutta per colpa dei discepoli di Vittor Hugo; molta invece nel pubblico di certi pretesi classici, ai quali dispiacevano maledettamente gli enjambements del verso nuovo, e che andavano su tutte le furie perchè Donna Sol gridava, in un momento di febbre amorosa, ad Ernani:

Vous êtes mon lion superbe et généreux,

o perchè Don Cesare di Bazan, nel quarto atto del Ruy Blas, diceva d'una vecchia governante:

 
affreuse compagnonne
Dont la barbe fleurit et dont le nez trognonne.
 

Ma quale distanza da quei tempi al nostro! Ora quegli sdegni pudicamente accademici non si capiscono più; le celie non hanno più eco; i dardi della critica si sono spuntati; una cosa sola rimane, l'ammirazione del pubblico pel teatro di Vittor Hugo. Stupendo teatro! E come lo si rivedrebbe tutto volentieri, rappresentato da questi valenti artisti della Commedia francese! Cromwel, Marion Delorme, Hernani, Angelo, Marie Tudor, Lucrèce Borgia, Le roi s'amuse, Ruy Blas, Les Burgraves, creazioni immortali! E dire che qualche critico, oggi ancora, fa colpa a Vittor Hugo di aver voluto essere uno Shakespeare! L'ambizione, dopo tutto, era nobile. Ma uno Shakespeare riveduto e corretto; che orrore! Fermiamoci qui e mettiamo in chiaro la faccenda. Non consta da nessun documento che Vittor Hugo abbia mai detto o pensato una cosa simile. È da credersi solamente che chiunque, oggi, foss'anche un altro Shakespeare, si mettesse a scrivere pel teatro, non potrebbe più, nè vorrebbe, dar libero corso a quei getti d'eufimismo che guastano la semplicità del discorso, a quelle trivialità che frammezzano i luoghi sublimi, a quelle sregolatezze d'immaginazione e a quelle licenze di storia e di geografia, che sono come a dire la scoria del prezioso metallo, in cui Shakespeare ha gittate le sue creazioni. E neanche si lascerebbe ingannare da una certa lode che si vuol dare oggi al tragico inglese, di aver badato sopratutto a concentrare la luce del suo genio e l'attenzione dello spettatore su d'un solo personaggio, curandosi meno degli altri e niente affatto degli accessorii; perchè nessuna affermazione, a proposito dello Shakespeare, è più arbitraria di questa, che lo vorrebbe far passare per un esageratore degli antichi, anzi che pel caposcuola dei moderni. Quel concentrarsi dell'azione in un solo carattere non è punto provato, non ha quasi esempio nel teatro dello Shakespeare; il riscontro di due caratteri, o l'antitesi di due passioni, ecco invece la sua novità. La gelosia d'Otello ha il suo contrapposto e il suo risalto nell'amore di Desdemona; l'ambizione di Macbeth deriva i suoi terribili ardimenti da quella di sua moglie; l'amore e la fatalità si contrastano epicamente il campo nel dramma di Romeo e Giulietta; l'amore e il dovere, nella fosca leggenda di Amleto, e così via. O contrasto, o dualità; non si esce di qui, nel teatro dell'inglese. Che cosa ha fatto il francese? Ha allargato il quadro; ha fatto girare più aria, ha dato contorni più ricisi a tutti i suoi personaggi. Figure in luce e figure in ombra, di tutto si è curato con uguale amore, e non meno degli accessorii. Concorrono tutte le parti all'azione? Contribuiscono all'effetto? Aiutano a svolgere la filosofia del dramma? Sì, come è dimostrato ampiamente e luminosamente dall'esito. L'accusa di avere stemperata la forte unità dell'azione shakesperiana, non regge. Il francese, come l'inglese, ha veduto e sentito il dramma nel contrasto. Se egli non esce dal paragone così grande come lo Shakespeare (che ha il merito di essere venuto il primo) ne esce come Vittor Hugo; ed è già qualche cosa. Diamo tempo al tempo; e vedremo il resto, o per dir meglio, vedrà chi sarà vivo.

 

Parrà strana in me questa abbondanza di lode per uno dei cosidetti novatori. Ma io, se Dio vuole, non sono un fossile. D'altra parte, la tanto decantata insurrezione di Vittor Hugo contro l'estetica antica, è vera come l'altra accusa che dicevo poc'anzi. Il suo teatro è proporzione, misura, euritmia; l'apoteosi del deforme, che altri vuol vedere in alcune accidentalità dei suoi drammi, io non l'ho trovata che nelle prefazioni, in cui qualche volta si compiace ad ingrossare la voce, per metter paura ai Filistei: ad ogni modo, Rigoletto e Quasimodo non sono niente più sciancati e contraffatti di Vulcano e di Tersite, due dissonanze armoniche del gran poema di Omero. E poi, dato e non concesso che il brutto, artisticamente reso, sia il brutto della natura, e che il contrapposto non sia esso medesimo, in giusta misura, una necessità dell'arte, chi vorrà lagnarsi di certi ritorni alla verità, anche quando è volgare? Amico dell'arte antica, io trovo che sono perfettamente compatibili con essa e che anzi le hanno dato qualche volta un risalto maggiore. I grandi d'ogni tempo si son presi le loro libertà; solo gl'imitatori non le intendono, e direi quasi che fanno bene a lasciarle da banda, perchè certe cose non devono essere permesse ai mediocri. I sommi poeti non hanno paura di attingere alle vecchie sorgenti. Dante può esser lui, cioè l'uomo del mondo moderno, chiedendo alle Muse antiche una nuova forma di poesia; classico nell'ordinatezza della sua mente, può scendere al Tartaro con Virgilio, salire in cielo con Esiodo ed Omero. Molte volte le differenze di scuola non sono che alla superfìcie. E perciò io, lasciando stare la quistione se Vittor Hugo abbia violato o no le regole di Laharpe e di tutti i mediocri legislatori del Parnaso, mi consolo di vedere in lui un classico della grande maniera, che è l'unica buona. Quella cura dell'accessorio, che indica l'amante della finitezza, quel parallelismo di caratteri, che denota il cultore dell'euritmia, quella elevatezza di sentimento, che mostra il fautore della bellezza morale, quell'onda di poesia che si svolge, varia e sonora, da tutte quelle scene ammirabili, ed accenna il poeta sublime, mi dànno l'opera compiuta in ogni sua parte, come sapevano pensarla, condurla e finirla, i maestri della mia scuola, i santi del mio calendario.

Con buona pace delle coscienze timorate (perchè ce ne sono ancora, tra i classici di seconda mano) e non importa se con grave scandalo di certa gente chiassona, a cui sembra di aver inventato la polvere, perchè ha trovato una nuova insegna di bottega, io dò a Vittor Hugo il posto suo; lo metto tra i classici.