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Lutezia

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VII

Arte francese. – Cabanel, Durand, Meissonier. – Dumas figlio in libreria. – Povero nudo! – Effetti di colore. – Pei miopi e pei presbiti. – Giusto giudizio sugli Italiani. – Ai pittori dell'avvenire.

E notate, se mai ci fu tempo di vincere, era questo di certo. I francesi, che, un po' con l'arte vera, un po' con l'altra dell'affichage, del bavardage e del colportage giornalistico, hanno ottenuto il primato nella pittura e possono vantarsene da per sè nella lingua più intesa del mondo e nel mercato per tante ragioni più frequentato d'Europa, i francesi, dico, sono nella pittura ciò che molti dei nostri sono diventati nella scoltura, dei faiseurs agréables. Vuoi per una trentina d'anni in cui la Bohème artistica ha spadronato a sua posta, uccidendo coll'arma del ridicolo i classici, vuoi perchè gli Ingres, i Delacroix, i Delaroche, non nascono tutti i giorni, vuoi perchè si fanno volentieri i quadretti quando c'è' un mercante di tele che li compra per rivenderli ai piccoli salotti borghesi, come si fanno volentieri gli articoli spiritosi di giornale quando il gusto del pubblico ha sostituito all'opera pensata i quattro segni quotidiani in punta di penna, il fatto sta ed è che l'arte francese si trova al lumicino. Hanno qui un famoso pittore che travia tutti gli altri con l'amore e con la scienza del piccolo. Non c'è che dire, c'est un grand petit peintre. Dei corazzieri lunghi un dito mignolo, un filosofino, un sergentino, un piccolo posto di guardia, una vedetta da guardarsi col microscopio, ecco le tele del signor Meissonier. Son belle, non lo nego; stanno così bene in un salotto, sopra la spalliera del canapè! Cinquanta centimetri di lunghezza, cinquantamila lire di prezzo, è roba regalata. Dunque, tutti Meissonier; così vuole la moda. Chi non può avere Meissonier, si contenta d'un imitatore fortunato.

Anche il ritratto è in onore e trattato per benino. Cabanel, Carolus Durand, lo stesso Meissonier, lo hanno elevato a dignità di quadro. Ed è naturale che sia così. Come ritratto, si preferisce una bella fotografia del Disdori, o di Numa Blanc, ambedue fotografi sul boulevard des Italiens, e degni di questo centro dell'universo. Dunque, il ritratto a olio deve ricattarsi sugli accessorii, per vivere, e Tiziano Vecellio, Paris Bordene, i grandi ritrattisti del volto, Antonio Vandick, il gran ritrattista del volto e delle mani, possono andarsi a riporre. Per ciò vediamo Alessandro Dumas figlio collocato là dove meno si sarebbe immaginato, in una libreria. Capisco, il Meissonier lo avrà posto in mezzo alle sue commedie e a' suoi romanzi, rilegati alla foggia dei libri vecchi, en reliures d'amateur, come si chiamano qui. Ma tuttavia, Alessandro Dumas figlio, rappresentato in una libreria, lui che ha sempre studiato nel mondo, anzi nel mezzo mondo, allons donc!

Quanto ai ritratti di donna, la pittura ad olio si spiega anche più facilmente. La fotografia non rende l'impasto della carne, e un abito scollacciato vuole la sua mostra di carne. Sappiate impastare le carni, dunque. Ci sono qui molti pittori che fanno assai bene le carni, specie le carni che hanno ricevuta la debita impiastricciatura di cold cream. Per contro, non ce ne sono due che sappiano fare il nudo. La grazia confonde la bellezza e per conseguenza anche la verità. Per amore della grazia, qui si dipingono le Veneri e le Ninfe con un fianco che sporge e l'altro che rientra; Veneri sciancate, a cui Paride non darebbe neanche una fetta del suo pomo. Ninfe zoppe, che nessun Fauno s'attenterebbe d'inseguire, per tema di vederle cadere troppo presto.

Si notano anche le grandi composizioni; e un amico della verità non deve passare sotto silenzio la Salomè, la Sfinge, la Vestale, il Papa Formoso, il Carnefice moresco, l'eccidio di Corinto, l'Entrata di Maometto II in Costantinopoli. Hanno tutte la loro parte di buono, ma il quadro che vi trattenga e vi comandi l'ammirazione non c'è. I più ragguardevoli non sono quasi altro che effetti di colore; piacevoli o no, legittimi o meno, ma effetti di colore. Questa è la malattia degli artisti moderni in Francia, e la si vede anche meglio nei quadri di paese, dove la figura è secondaria e non richiede ombra di disegno, o manca affatto per deliberato proposito dell'artista che rammenta la massima di Teofilo Gautier: «l'homme! ça gâte le paysage». Si dicono veristi, ma in questi loro paesi, in queste loro marine, il vero non c'è; solamente l'effetto del vero, a chi si contenti di guardare in distanza, se è miope. I presbiti soli possono accostarsi; anzi la cosa è espressamente raccomandata.

Il buono c'è, lo ripeto, e mi pare di averlo anche detto in principio; ma poichè l'ottimo è sparito, era questo per l'Italia il tempo di farne lei, presentando cinque o sei quadri, largamente concepiti, magistralmente eseguiti, come sanno fare certuni. Che cosa, infatti, non avremmo potuto sperare se ci fosse stato all'esposizione di Parigi bravamente condotto a olio, il Galileo davanti al Sant'Uffizio, composizione del Barabino, che si ammira a Genova, condotta a fresco, nella palazzina Celesia? un'altra Cacciata del duca d'Atene, opera dell'Ussi, che merita da per sè sola il viaggio di Firenze? o un altro Barbarigo, come quello che il Giannetti ha dipinto a Venezia, per la fondazione Querini Stampalia? J'en passe et des meilleurs, come dico Don Ruy Gomez de Silva.

Come va questa faccenda che nessuno, o quasi, dei nostri grandi pittori di storia ha esposto nulla? Le colpe del governo le ho dette, e senza riguardi; ma ci sono anche le colpe degli artisti sullodati, e mostrerei di aver due pesi e due misure, se non calcassi anche su queste dopo averle accennate di volo nella lettera precedente. Quando si ha un nome nell'arte bisogna essere presenti a tutte le gare, a tutte le battaglie, se non a tutte le feste dell'arte. Non ci sono scuse che tengano; l'Italia non incorona i suoi migliori, perchè essi nelle occasioni solenni se ne rimangano a casa, o si coprano coi pretesti del tempo, che è loro mancato. Noblesse oblige. Però Enrico IV poteva scrivere al duca di Crillon, dopo una giornata campale: «pends-toi, brave Crillon: on s'est battu et tu n'y étais pas». Ma allora il Bearnese aveva vinto, e il rimprovero poteva farsi per celia; qui siamo nel caso contrario, ed io non fo celia, appioppo un rimprovero.

È stata indolenza? è stata paura? A buon conto, i pochi buoni che hanno mandato anche poco, e non del loro meglio, non isfigurano qui. Si guardano con piacere il Ripudio di Giuseppina del Pagliano e la Ragione di Stato del Didioni, una medesima scena colta felicemente da due artisti in due momenti diversi. Sempre uguale alla sua fama l'Induno, di cui si osserva l'Italia nel 1866, bella composizione fra il soldatesco e il campestre, già veduta e degnamente encomiata fra noi. È ammirato il Pasini colle sue scene di Costantinopoli e il Vertunni con le sue Piramidi, la sua Sfinge nel deserto e le sue Paludi pontine. Non cito il Michetti, pittore che mi dicono di vaglia, ma di cui non vedo che un quadro, la Primavera, trasparentissimo di colore, ma troppo bizzarro nel suo concetto allegorico. Lascio il De Nittis che meriterebbe gran lode per le sue brume londinesi e pel suo Ritorno dal bosco di Boulogne, ma che vive da lunga pezza a Parigi e a Londra, e non mi pare di scuola italiana. Il Petit Journal, in una sua esecuzione sommaria di tutti i pittori italiani, non manda salvi che il Pasini e il De Nittis, gabellandoli quasi per artisti francesi, smarriti, a quanto pare, nella sezione italiana.

Quanto al Pasini, mi pare che l'Aristarco francese abbia torto. Il Pasini sarà stato lungamente a Parigi, com'egli afferma; cionondimeno si è conservato un artista italiano. Quanto al De Nittis, non c'è che dire, l'Aristarco francese ha ragione. E ripeterò con lui, quantunque di mala voglia, che le tele del De Nittis rialzano un pochettino l'esposizione italiana, non già la scuola italiana, «car il est trop visible que l'Italie, qui a compté successivement tant d'écoles immortelles, n'en a plus une seule aujourd'hui». E dedico queste linee, che non mi dà l'animo di voltare in lingua nostra, a quei valenti infingardi, che non si sono fatti vivi per l'onore dell'arte nazionale.

Grazie alla loro mancanza, l'Italia è stata sconfitta. Da chi? Vatt'a pesca chi t'ha dato, sarebbe il caso di ripetere con un sonetto del Belli. Per me, credo che da tutti potevamo lasciarci battere, fuorchè dagli austriaci. E quando si pensa che tutto ciò è avvenuto per un pittore, per un solo pittore di più che hanno mostrato loro, e per uno di meno che abbiamo mostrato noi, si corre involontariamente col pensiero a Lissa e a Custoza. In fondo in fondo, è sempre andata così, tra paese e paese. Date ad una nazione due uomini, uno che sappia provvedere, ordinare, preparare, un altro che abbia molta fede in sè, e ne ispiri ne' suoi soldati altrettanta, ed una guerra è vinta, dieci o vent'anni di primato si ottengono. Il mondo, che giudica ogni cosa dall'esito, si contenta di queste prove fortunate; donde la conseguenza che un paese ha mestieri di questi uomini, e guai a lui quando questi uomini non ci sono, o si nascondono.

Si consolino intanto i veristi d'à peu près. Nel paese che più d'ogni altro deve la sua fama pittorica ai veristi, essi hanno avuto la lode che meritano e probabilmente la sola che ambiscono. Cito ancora il famoso articolo del Petit Journal. «Ce ne sont pas les ruines majestueuses de sa grandeur artistique d'autrefois que l'Italie nous invite à contempler; c'est un art tout battant neuf, un art à la mode, qui tient beaucoup du métier et qui a l'éclat tapageur d'une ville de parvenu. Est-ce à dire que… (seguono le citazioni) ne soient pas des oeuvres agréables et amusantes à regarder avec leur papillotement de couleur et l'allure affectée de leurs personnages? Assurement non. Ces imitations de Fortuny tiendraient honorablement leur place dans tout exposition qui ne serait pas l'exposition italienne; mais on s'attriste de les voir, ou plutôt de ne voir qu'elles, dans les envois de la patrie de Raphaël, de Titien et de Veronèse».

 

Lascio i veristi sullodati, per non guastarmi più il sangue, e parlo ai giovani dell'avvenire. Si diano all'arte grande, se hanno cuore; studino il vero, senza dimenticare i sommi maestri e il modo in cui essi hanno saputo renderci il vero. Imitare per imitare, val meglio andare in traccia dei fulgidi esemplari, per cui l'Italia ha un nome e desta ancora tanta invidia nel mondo.

E quind'innanzi facciamo come fo io, povero profano, che oramai, quando vorrò vedere dell'arte buona, sentire la scossa elettrica del sublime, se sarò a Firenze andrò a Pitti, o agli Uffizii, se sarò a Roma pellegrinerò apostolicamente fino ai Musei Vaticani, se sarò a Parigi come ora, domanderò ospitalità in casa nostra… al Louvre.

VIII

Il Louvre e le Tuileries. – Soluzione di continuità. – Storia eroicomica. – Una etimologia da lupi. – L'architettura del Risorgimento. – L'arte nostra al Louvre. – Regine, ministri, imperatori italiani. – Compre e rapine.

Un cortile immenso, tre volte più lungo che largo, in cui potrebbero esercitarsi comodamente cinque seimila soldati, e in cui s'entra e da cui si esce, per tre arcate da una banda, verso il centro di Parigi, per tre arcate dall'altra, verso la Senna; in mezzo al cortile, ma verso le estremità, due boschetti tondeggianti da un lato, rinchiusi entro cancelli di ferro, e un arco di trionfo dall'altro, che, con tutta la sua mole, sembra un giocattolo di bambino sull'orlo di una tavola da pranzo; intorno a quest'area, due file di fabbricati di vario stile, fusi oramai nella tinta grigia del tempo, in parte abbelliti dalla giunta di nobilissimi porticati con terrazze sovrapposte e grand'uomini di marmo che incoronano le balaustrate, e qua e là interrotti armonicamente da certi padiglioni, le cui facciate sporgono in fuori un pochino e i tetti si spingono in su, oltre la linea normale, co' loro cappelli di piombo; finalmente, a lontano riscontro, sui due lati minori dell'immenso parallelogrammo, due palazzi di gran lunga più rilevati, più ornati e più nobili; uno severo nella sua venerabile antichità, ma vivo ancora e sano, l'altro più gaio di linee, più giovine all'aspetto, ma morto, col cranio scoperchiato e le occhiaie vuote; eccovi il Louvre con le Tuileries, che gli sono… cioè, diciamo meglio, che gli erano appiccicate da prima.

La soluzione di continuità rappresenta qui le tradizioni interrotte tra il passato monarchico della Francia e il suo presente repubblicano. In questi ultimi anni fu ricostrutto quel po' delle due ali che l'incendio della Comune aveva scamozzate; ma la saldatura tra le ali e il corpo delle Tuileries non è stata più fatta, quantunque governassero i Versagliesi, nè si farà certamente ora che accennano a voler governare i repubblicani conservatori. Si direbbe, al vedere così rispettata la sentenza di Erostrato, che la Francia abbia paura di rifare il nido alle aquile, o il covo alle vipere. Imperocchè dovete sapere, che alle Tuileries c'è stato un po' delle une e delle altre, senza contare gli animali di minor conto. E ciò sia detto per amore della metafora continuata, senza la menoma intenzione di far torto a chicchessia.

Come palazzo regio, le Tuileries erano cosa moderna. Le aveva ideate Caterina de' Medici, che, dopo la morte disgraziata di suo marito in una giostra, non voleva più saperne del palazzo delle Tournelles, e non amava ancora abbastanza il vecchio Louvre, in cui si era ridotta. Enrico IV prosegui l'opera incominciata da Caterina, ma non volle uscire dal Louvre. Maria de' Medici, sua moglie, andò, lui morto, ad abitare nel Lussemburgo, fabbricato da lei sul gusto del palazzo Pitti, suo nido natale. Nè Luigi XIII, nè il suo figliuol putativo abitarono le Tuileries; solamente, e per poco, Luigi XV, fin tanto che rimase sotto tutela. In quei tempi, la Corte dimorava a Versailles. Alle Tuileries fu impiantata l'Accademia reale di musica; poscia la Commedia francese, e Voltaire ci fu incoronato d'alloro. Fu la rivoluzione (vedete stranezza) che allogò nelle Tuileries i re di Francia, con un decreto dell'Assemblea costituente. È vero bensì che l'intenzione non era di lasciarceli a lungo. Infatti, essa li mandò ben presto alla prigione del Temple e di là al patibolo, con una doppia sentenza, in cui sì punivano nei figli le malefatte dei padri.

La Convenzione, diventata sovrana, andò lei ad alloggio nel palazzo destinato per burla all'ultimo dei Capeti. Colà il cittadino Chaumette, in un momento di georgica ispirazione, domandò che il bel giardino di Lenôtre fosse ridotto a coltivazione utile, piantato a ricino, a rabarbaro, ed altri medicinali, per uso degli infermi. Il rabarbaro non attecchì, e Robespierre potè in quel giardino salvato celebrare la sua festa idilliaca dell'Ente Supremo, in cui si degnò di proclamare l'immortalità dell'anima. Colgo l'occasione per dirvi che il giardino delle Tuileries è al di fuori del palazzo omonimo e non ha nulla a che fare con gli altri due accennati più sopra, piccole oasi moderne, con cui si è voluto correggere uno sconcio di prospettiva, entro la corte magna che si dilunga tra i due palazzi affrontati.

Soltanto con Napoleone I le Tuileries incominciarono ad essere dimora stabile di monarchi. Seguirono, come sapete, due Borboni, un Orléans e un altro Napoleone: après quoi on a tiré l'échelle. Almeno, così dicono. E la reggia, abbruciata dai Comunisti, che poco mancò non incendiassero anche il Louvre, è stata conservata nella sua maestà di rovina solitaria. Essa non mi dispiace neanche così. È, dopo tutto, un brano di storia affumicata, che può servire ad ogni classe d'ignoranti. Gli uni guardano e temono; gli altri guardano e sperano; il tempo passa e canzona tutti quanti. Gran filosofo il tempo; assai più filosofo che galantuomo.

Andiamo via e voltiamoci al Louvre; casa nostra, come ebbi l'onore di dirvi. Era anticamente una torre, e Filippo Augusto ci teneva chiuse con molta gelosia le sue carte, i suoi sparagni e i suoi prigionieri di Stato. Come e perchè si chiamasse Louvre un luogo per solito così poco aperto, non so. Nel latino dei notai si disse Lupara, e il Dizionario di Trévoux pretende che il nome derivi appunto da serraglio di lupi. Per un dizionario stampato nel secolo XVIII, con approvazione e privilegio del re, non c'è male; che ne dite?

La torre di Filippo Augusto si moltiplicò in processo di tempo. Quando Carlo V ci venne ospite di Francesco I, il Louvre contava tredici torri, murate in cerchio, e coronate dalle loro banderuole di ferro. Si narra che, per la solenne occasione, Francesco I facesse indorare a nuovo le banderuole in discorso. Ma siccome non parve a lui che ciò bastasse ad abbellire la dimora dei re di Francia, pensò bene di abbattere ogni cosa e di far sorgere ex novo un palazzo degno di lui e di madonna Diana di Poitiers, favorita di due generazioni, le cui iniziali e le lune falcate dello stemma dovevano poscia vedersi scolpite sulla fronte dell'edifizio, immaginate voi con che gusto di due legittime mogli.

Il vecchio Louvre è un vero miracolo dell'arte del Risorgimento in Francia. Gli architetti erano Francesi; il gusto italiano. Francesco II fu il primo ad abitarvi con tutta la sua corte. Enrico IV edificò il braccio lungo Senna, per congiungere la sua reggia alle Tuileries edificate da Caterina de' Medici. Luigi XIII, Maria de' Medici, Anna d'Austria, condussero a compimento la corte quadrata e decorarono gli appartamenti. Luigi XIV non fu da meno di loro, quantunque non ci abitasse mai. Pel re Sole era quella una reggia borghese, troppo in mezzo alla bordaglia dei sudditi; e il re Sole edificava Versailles.

Ma di questo più tardi. Debbo strigarmi dalla storia del Louvre, narrando che Luigi XIV destinò una parte del palazzo all'Accademia francese, a quella delle scienze, e ad altre consimili, magnificamente istituite da lui; un'altra parte alla stamperia reale, alla zecca delle medaglie, agli archivii e via discorrendo. Così ebbe principio la nuova vita del Louvre, non più dimora di re, ma santuario delle scienze e delle arti. La Rivoluzione compì l'opera; il Consolato e l'Impero l'arricchirono in modo straordinario. E si capisce; Napoleone, gran cacciatore d'uomini, ma altresì di quadri e statue al cospetto di Dio, doveva essere pel Louvre un provveditore eccellente.

Tutta la roba nostra, o almeno un due terzi della roba nostra in materia di pittura, è qui dentro. Mettete insieme le gallerie Vaticane di Roma, Pitti e gli Uffizi di Firenze, il Museo Nazionale di Napoli e cinque o sei pinacoteche delle corti minori della penisola; tutti i capolavori nostrani, raccolti in questi santuarii del bello, non raggiungono la metà dei quadri italiani del Louvre. Se poi si lasci in disparte il numero e non si badi che al pregio maggiore o minore delle opere, la proporzione riesce ancora più notevole a vantaggio del grande museo parigino. Il quale, se possedesse ancora, come gli avvenne in un periodo di epiche ruberie, la Trasfigurazione di Raffaello, la Comunione del Domenichino, la Madonna di San Gerolamo del Correggio, ed altri due o tre quadri consimili, sparsi ora nelle gallerie d'Europa, potrebbe vantarsi senz'altro di aver tutto il meglio delle scuole italiane.

Certo, un sottile accorgimento ha presieduto, per molte generazioni di re e di ministri, all'incremento della sterminata raccolta. Ministri e re dovevano aver di continuo i loro segugi e bracchi in giro per le nostre città, a fiutare la selvaggina e levarla, dovunque ella fosse. Poi, due figlie dei Medici non andarono impunemente a sedersi sul trono di Francia, nè un Mazzarino sullo scanno di Richelieu. Tutti quegli Italiani portavano la loro arte con sè, vecchia e nuova, senza misericordia, senza carità per la patria. E tele rapite all'Italia, e tele dipinte in Francia da artisti chiamati dall'Italia, andarono di mano in mano arricchendo le collezioni del Louvre. Lupara; serraglio di lupi! Ma che lupi raffinati, Dio buono! E come fiutavano il genio!

IX

Cortesia da padroni di casa. – La scuola francese. – Un viaggio a ritroso. – Le glorie italiane. – Monna Lisa. – Cristo e la Maddalena. – Le nozze di Cana. – Un saluto a Raffaello. – Il Correggio, Luca Giordano e il Panini. – Un capriccio del Rubens.

Che i francesi sappiano essere, col più lieve sforzo di volontà, il popolo più cortese del mondo, è noto per lo meno fin dal giorno 11 maggio del 1745, giorno della battaglia di Fontenoy e del famoso: «messieurs les Anglais, tirez les premiers.» Qui, negli appartamenti del Louvre, la cortesia francese non si è punto sbugiardata. I padroni fanno gli onori di casa; l'arte paesana è tutta nelle prime sale, con la manifesta intenzione di dare all'arte forastiera il luogo più nobile.

I maligni potrebbero dire che i francesi fanno così, per non essere ammazzati da tanti capolavori. E i maligni stavolta avrebbero torto. Anche l'arte francese dei secoli andati e del principio di questo può vantare un discreto numero di grandi pittori, che non sfigurano in nessun luogo e davanti a nessun paragone di scuola. Cito il David, autore d'intendimenti classici, fors'anche in parte accademici, come nel Leonida e nelle Spose Sabine, ma pieno del sentimento della natura, come nel parlante ritratto di Pio VII. Cito il Gros, pittore di battaglie napoleoniche, degno illustratore di quella nuova epopea militare; il Girodet, di cui amo l'Endimione e il Seppellimento di Atala, due scene soavi, l'una del classicismo antico, l'altra del romanticismo moderno, sentite con una giustezza non comune da un pittore poeta, che tra romantici e classici intravedeva la pace futura, solo che gli uni buttassero via un po' del loro contegno sforzato e gli altri della loro stravaganza cercata. Giunto tardi per le guerre di scuola, mi commovo pochino pel famoso Radeau de la Méduse di Géricault, che in cinquantanove anni d'esistenza ha avuto il torto di annerire maledettamente, come certi uomini hanno quello d'imbiancare, anche prima di questa età rispettabile. Ma torno ad intenerirmi per Boucher, Watteau, Fragonard, pittori delicatissimi, l'ultimo dei quali è anche notevole per un magnifico impasto di colori; saluto con memore affetto il Poussin e Claudio di Lorena, eccellenti ingegni scaldati al nostro sole, e mi fermo con rispetto davanti ai ritratti di Filippo di Champagne. Il migliore tra questi vi rappresenta il cardinale di Richelieu; di Ricciliù, come dicevano gli storici italiani del tempo.

 

Lo Champagne è un pittore di quel Seicento, che fu così manierato in arte, così amico dei panneggiamenti spezzati e svolazzanti e delle posture acrobatiche; ma del Seicento non ritragge nulla, e lo si direbbe piuttosto un pittore di dugent'anni più addietro, se le foggie de' suoi modelli non tradissero l'età. Lo accusano di freddezza nella composizione, e in generale di poco movimento nelle figure. A me non sembra; ci vedo piuttosto una casta durezza, che non manca di attrattive. Dopo tutto, c'è l'espressione dei volti; e, in un ritratto, che cosa volete di più? Quegli uomini son cupi; quelle dame fanno violenza alle labbra, perchè non ne scatti il sorriso. Malgrado le vesti sfoggiate e i colori smaglianti, la nota allegra non balza fuori dal quadro. Ma pensate che sono re ed uomini di Stato, i quali non hanno mai detto il loro pensiero quando erano vivi, e non debbono dirlo adesso, quantunque la critica storica lo abbia posto in luce di mezzodì; dame e regine che non vogliono lasciarsi sfuggire il segreto di un caro nome, quantunque le cronache ne spiattellino all'occorrenza due e ne lasciano caritatevolmente sospettare fin quattro.

I miei complimenti a Filippo di Champagne e passo oltre, chè il tempo è prezioso e la «via lunga ne sospigne» attraverso queste sale infinite, ornate con molta magnificenza, decorate di grandi nomi e tutte provvedute d'una storia. Le tristi e liete avventure di cinque o sei regni, intorno a cui si è esercitata la vena di tanti romanzieri, ebbero qui la loro scena stabile. Non troverete più le porticine segrete per cui passavano i La Mole, o i Buckingam, nè le cateratte per cui scendevano sotterra i letti reali, ad aiutare le sostituzioni di principe; ma vi è lecito di credere che il secolo prosaico ha turate le fessure e ragguagliate le pareti, o che i congegni hanno fatto la ruggine, o che i romanzieri le hanno sballate grosse, intorno a questi pavimenti di legno levigato, a queste pareti, oggi tappezzate di quadri d'ogni forma e misura.

Amate sperimentare la forza delle vostre gambe? Non occorre che andiate a piedi da Parigi a Versailles; fate semplicemente il giro degli appartamenti del Louvre, dimenticando anche le sale delle armature, delle miniature, dei cartoni e degli arazzi, che fanno già di per sè stesse la metà del palazzo, e contentandovi di quelle destinate ai quadri, ora andando oltre, ora trattenendovi, all'uopo ritornando indietro, sempre sulle ali, sempre in sospeso, per dare una voltata a destra, ed una a sinistra, secondo i casi e i desiderii improvvisi. Vedete qua e siete per contemplare un Leonardo, ma con la coda dell'occhio avete intravveduto un Correggio che vi domanda la priorità. Un Dolci vi chiama; un Sassoferrato vi attira. E poi, che serve? Navigate nel mare delle Sirene, sempre in mezzo ai Vinci, agli Allegri, ai Raffaelli, ai Tiziani, ai Veronesi, ai Tintoretti, ai Domenichini, ai Guercini, ai Caravaggi, ai Tiepoli, ai Giorgioni, ai Bordoni, ai Pordenoni, ai Caracci, ai Salvator Rosa, ai Giordani, ai Reni, che ve le fiaccano, le reni, e vi riducono peggio di quel Cristo flagellato del Vecellio, che trova tanti copisti al Louvre, degni la più parte di buscarle loro, quelle sonore frustate.

Che dirvi dei Perugini, dei Sebastiani del Piombo, degli Antonelli da Messina, dei Mantegna e d'altri della pleiade minore, che qui tuttavia ci hanno il loro meglio e fanno perciò una eccellente figura? Dio mi perdoni, ma qui, davanti ad una pensosa figura di Leonardo da Vinci e accanto a certe scene di ninfe e amorini dell'Albani, ho contemplato lungamente una Annunziata, indovinate di chi? del Vasari. Mi sono rappattumato qui con messer Giorgio degnissimo, il quale mi aveva seccato un pochino a Firenze, colle sue pitture murali nella sala dei Cinquecento.

Valorosi artisti d'Italia, come siete ammirati! E come intendo qui facilmente il bene e il male che avete fatto al vostro paese! Il bene con coscienza, il male senza volontà. Pervenuti con voi a tanta eccellenza nell'arte, siamo stati pregiati solamente per questa, e noi medesimi per lunga pezza non abbiamo avuto altra gloria. Fu male; ma la gloria era grande, e ciò serva di scusa. In questo campo abbiamo vinto davvero e per cinque secoli alla fila, col fare largo delle nostre composizioni, la correttezza del nostro disegno, la sicura audacia dei nostri scorci, la potenza dei nostri effetti di luce, il vigore e la pienezza dei nostri colori immortali. Tutti si chiedono anche oggi come facciano a durare certi bianchi e certi incarnati di dugent'anni addietro, come non abbiano certe tinte a rinforzare, certe altre a smarrirsi, mentre i quadri di cinquant'anni fa prendono il nero come le pipe, il giallo del burro stantìo.

E l'espressione dei volti! Ho citato Leonardo da Vinci, e torno a lui per quella stupenda Monna Lisa del Giocondo, il cui colore, leggermente scaduto tra il grigio e il violetto, fece dire a Teofilo Gautier che quella deliziosa armonia violacea, quella tonalità astratta, è il vero colorito dell'ideale. Bisogna vedere, anche dopo aver saputo che Leonardo spese quattro anni a dipingere il suo quadro, bisogna vedere il sorriso di quelle labbra e di quegli occhi! Bocca chiusa, occhi tranquilli pure, gli uni e l'altra sorridono. Quella di Monna Lisa è una gioia composta, matronale, profonda. Mi pare che dovrebbe sorridere così la mia patria, se fosse qui, persona viva, in mezzo a tante sue glorie.

Badate, l'anima c'è, in tutte queste migliaia di tele; perchè dunque non avrebbero esse la coscienza di ciò che valgono e dell'onore che fanno? Il Cristo del Tiziano, che ho già citato una volta, dimentica perfino di grondar sangue e di avere una corona di spine, per lasciarvi capire che il suo autore era ben degno di farsi raccattare i pennelli da un imperatore. Ce n'è uno di Paolo Veronese, che si lascia rasciugare i piedi nei capegli biondi della più bella creatura di Venezia, e trova il momento per dare un'occhiata agli spettatori ammirati. Hanno un bel dire gli apostoli, che la cosa non va; il Nazareno sorride, pensando che la Maddalena fa bene e Paolo Veronese fa meglio.

A proposito di Paolo Veronese, guardate quella vastissima composizione, che va sotto il nome delle Nozze di Cana. Non ignorate che l'artista ci ha ficcato dentro tutti i personaggi più celebri del tempo suo, Vittoria Colonna e suo marito il marchese di Pescara, Francesco I, Eleonora d'Austria, Maria d'Inghilterra, Carlo V, Solimano I, tutti in compagnia di Gesù Cristo al banchetto di Cana, a cui pare s'invitassero anche i migliori artisti di Venezia, poichè ci si vede lui, l'autore, insieme col Tiziano, il Tintoretto, il Bassano, intenti a rallegrare il pranzo con un concertino di viole, di violoncello e di flauto. Tutti i potenti d'Europa son là; par di vedere un Congresso, alla fine dei suoi lavori. Si sono firmati i protocolli; ora si mangia, si beve e si fa un brindisi alla grandezza d'Italia. Vi prego a credere che non è il Congresso di Berlino.

Raffaello sublime, quali parole troverò adesso, che sieno degne di te? Fui ospite reverente, in ritardo di tre secoli, nella casa della tua donna, e sulla fede della scritta «Raphaeli Sanctio quae claruit dilecta hic fertur incoluisse» ho passato colà le mie notti più liete di sognatore ad occhi aperti. Nel Pantheon mi sono amaramente doluto di vedere la tua sepoltura e di pensare le tue ossa esposte alle periodiche inondazioni del fiume; imperocchè quelle ossa mi parvero degne di star sigillate in una custodia d'oro, collocate sugli altari, come ciò che avanza delle spoglie mortali d'un Dio. Sarà idolatria; ma senza idolatria non c'è amore. E come non idolatrarti, o divino, quando, correndo l'Europa, tra gente che non ci ama, vediamo da per tutto il tuo nome e la tua mano che ci accompagnano, come lo spirito e la mano di un altro Raffaello accompagnarono sulle sponde del Tigri il figliuol di Tobia?