Free

Lutezia

Text
iOSAndroidWindows Phone
Where should the link to the app be sent?
Do not close this window until you have entered the code on your mobile device
RetryLink sent

At the request of the copyright holder, this book is not available to be downloaded as a file.

However, you can read it in our mobile apps (even offline) and online on the LitRes website

Mark as finished
Font:Smaller АаLarger Aa

V

Industrie italiane. – Lombardi e Genovesi. – I canditi del Giappone. – Libri e pianoforti. – Scoltura piccina. – Un primato in pericolo. —Exemplaria graeca. – Un pronostico al condizionale.

C'è del buono, mi affretto a dirlo. Non sono pessimista per progetto ed amo render giustizia a tanti bravi industriali, che modestamente, ma indefessamente, lavorano a rialzare il credito delle manifatture italiane. Gran lode va data, per esempio, a tutti quei valenti setaiuoli comaschi e milanesi che hanno esposto i loro prodotti, mirabili per bontà di tessuto e per vivezza di colore, sotto il titolo comune di Associazione della tessitura serica italiana; allo Schlöpfer di Salerno pe' suoi tessuti ad uso di vestiario; al Piccaluga di Gavi e al Bancalari di Chiavari pei loro filati di seta, veramente notevoli; ai Gérard e ai Casa, genovesi, per la bellezza e la solidità delle loro tele; al Trapolin di Venezia e al Levera di Torino per la sfoggiata magnificenza dei loro damaschi. Firenze e Roma si sono mantenute al primo posto, per l'artistica lavorazione delle pietre dure. Nei mobili siamo giunti ad una bella altezza, e tutti, italiani e forastieri, ammirano lo stipo intarsiato del Bertolotti di Savona; il quale stipo, appunto perchè è la cosa artisticamente meglio riuscita di questo genere, che sia nella esposizione italiana, non ha avuto dal giuri, che una medaglia di terz'ordine.

Ma passiamo oltre, che i giurì son tutti compagni. Ricordo a titolo d'onore le belle mostre ceramiche e vetrarie, del Ginori di Firenze, della Società Faentina, della Società di Murano e del Salviati di Venezia; non senza notare che, rispetto a queste industrie gentili, siamo rimasti un po' stazionarii di rimpetto ai francesi. Sèvres e il Baccarat informino! Non così per l'industria dell'orafo e del gioielliere, che corre gloriosa e trionfante, con Alessandro Castellani ed altri parecchi. Le filigrane son belle, ma poche, come i versi del Torti e come in genere gli espositori genovesi, che io cito qui per ragione di cittadinanza.

A proposito di genovesi, e le paste? e i canditi? Ho veduto una piccola mostra di quelle, mandata dal Ghigliotti, ed una piccolissima di questi, mandata dal Ferro. La più parte dei canditi, di Genova e d'altre parti d'Italia, sono giunti in pessimo stato, e non sostengono il paragone dei giapponesi, che pure son venuti… dal Giappone. Ma qui bisogna osservare una cosa. Coi saggi delle industrie giapponesi son venuti a Parigi anche gli autori, che si sono presi una cura gelosissima dei loro prodotti e vi esercitano su una vigilanza quotidiana. I nostri espositori (e non parlo solamente di quelli che mandarono conserve alimentari) hanno il torto di non esser venuti loro a Parigi. I francesi sono quasi sempre davanti ai loro banchi, alle loro vetrine; e ciò si capisce, poichè questa è casa loro. Ma anche gli espositori delle nazioni vicine son tutti qui, intenti a ripulire, a cambiare, a rinnovare. La Spagna ha fatto qualche cosa di più; ha mandato un paio di soldati di tutte le armi del suo esercito, vera esposizione ambulante della sua eleganza in materia d'uniformi, e lusso non indegno di un paese che si rispetta.

Per ritornare all'Italia, il ministero della marina ha mandato qua un modello del balipedio di Muggiano, cavi, cordami, sagome di bastimenti, e un bel saggio d'attrezzatura di nave da guerra, che forma l'ammirazione di tutti i visitatori. Quello della guerra (almeno, credo che sia lui) ha spedito il cannone automatico dell'Albini e una stupenda carta fisica dell'Italia, eseguita in rilievo dal capitano Cherubini. Ma queste medesime citazioni mi obbligano a ricordare che si poteva far molto di più. Cito ancora una volta, come termine di confronto, la Spagna, che ha inviati parecchi cannoni delle sue fonderie, e molti modelli di fortificazioni, campi trincerati, cantieri, bacini, arsenali, eseguiti in notevoli dimensioni e con una accuratezza superiore ad ogni elogio, dalla sua Academia de Ingenieros del Ejército.

Non prendete queste note per un esemplare di diligenza, a cui abbia dato rincalzo il catalogo. Tocco solamente e di volo le cose che mi hanno colpito di più, che mi offrono appiglio a qualche modesta osservazione, e non pretendo di fare un esame minuto, nè una scelta ex cathedra di tutto ciò che l'Italia ha esposto nella sua sezione industriale. Dimenticavo, per esempio, la bella vetrina di libri esposta dal Sonzogno, e meritamente lodata da tanti; la mostra del Civelli, che ha ottenuto il primo premio, a cagione d'un gran vocabolario italiano stampato a proprie spese e cent'anni prima di quello della Crusca; le edizioni del Casanova, dello Zanichelli, del Salmin, e via discorrendo; gli strumenti musicali del Pelitti e i pianoforti di non so chi, ai quali non mi sono accostato, et pour cause. Figuratevi che ogni giorno, dalle dieci del mattino fino alle cinque di sera, eccettuate poche battute d'aspetto dedicate alla colazione, un professore vi suona continuamente laggiù la medesima arietta. Mi hanno detto che si tratta d'un valzer nuovissimo, l'Exposition-Valse, che tutti vogliono sentire e comprare. Tutti, meno il sottoscritto, che, perseguitato, rincorso da quel motivo per tutte le sale attigue, non ha voluto saperne di avvicinarsi alla nicchia dei pianoforti, per leggervi i nomi dei fabbricanti e tramandarli alla più prossima posterità.

C'è del buono, lo ripeto, in questa esposizione italiana, e pare anche meglio quando si è data una corsa in altre sezioni industriali; che non tutte possono avvicinarsi per merito alla Francia, all'Inghilterra, al Giappone, al Belgio, all'Austria-Ungheria, alla Cina. Nuovi in tante arti e mestieri, o scaduti per colpa non nostra dall'antico primato, non possiamo far miracoli in tutto, e a questi lumi di luna. Si aggiunga, per molti industriali italiani, la poca voglia che avevano di mandare i saggi delle loro manifatture in paese lontano; si badi alla ristrettezza del luogo assegnato all'Italia; non si dimentichi la sonnolenza proverbiale di chi avrebbe dovuto e potuto dare a tanti oggetti una migliore collocazione, e si converrà facilmente che, date tante circostanze contrarie, l'esito non è stato infelicissimo. Ma io, dopo tutto, sostengo e dico che se, in parecchie cose, anzi in molte, si poteva dicevolmente restare in terza e in quarta fila, almeno in talune non dovevamo restar secondi a nessuno, e in una di queste secondi a noi stessi, che è peggio.

Vi sembrerà un indovinello, ma non lo è. Dico che ci fa torto di esser rimasti secondi in pittura, poichè nessuno dei nostri grandi pittori ha mandato un palmo di tela; dico che ci fa torto di non aver fatto meglio in scoltura, e di apparire i primi, sì, ma inferiori alla nostra fama del 1867.

Sia lodato il cielo, esclameranno gli ottimisti; in qualche cosa abbiamo il primato. Sicuramente, ma perchè ad altri non è ancora balenata l'idea di strapparcelo, battendoci colle nostre medesime armi. La Francia, verbigrazia, la Francia che ci ha raggiunti da cinquant'anni nel campo della pittura, perchè ci ha oltrepassati da venti? Perchè, impadronitasi dei meccanismi dell'arte, ha avuto il coraggio di rifarsi dallo studio del vero, aggiungendovi poi tutte le grazie della modernità, tutti i lenocinii del pennello. Ora, lasciate che essa intenda nella scoltura tutti i meccanismi dell'arte e tutti i lenocinii dello scalpello; anzi, fate che voglia andar per le spiccie, a pigliarsi a cottimo un centinaio dei nostri bravi finitori, di quei tali che fanno i capegli, i pizzi, i rasi, le sete, i velluti, e vedrete che non tarderà molto a raggiungerci. Non ci oltrepasserà, lo capisco; non ci oltrepasserà, perchè la scoltura non è come la pittura, che sembra contentarsi solamente del vero, ma vuole anche dell'altro, cioè l'idealità, la grandiosità, la magnificenza, compagne inseparabili di un'arte essenzialmente monumentale, e perchè, grazie al cielo, ci sono ancora in Italia degli scultori giovani, che, non disdegnando di fare la mammina, il bambino, il cagnolino (esemplari eccellenti per le terre cotte, che un giorno o l'altro vinceranno la mano a questo genere di scoltura da salotto), sentono ancora e mantengono il culto dell'ideale, del grandioso, del magnifico, a cui l'arte divina s'informa.

Disgraziatamente, all'odierna esposizione di Parigi, gli artisti di questa fatta son pochi, o bisogna dire che quasi tutti si sono contentati di entrare in lizza con lavorucci di poco momento. C'è qui in abbondanza l'arte piccina, l'arte da salotto, la roba da vendere. L'arte grande, l'arte monumentale, l'arte che mira alla gloria, si è fatta viva con pochi e direi quasi timidi saggi. Che cosa ha esposto il Monteverde? Lo Jenner, bellissimo, pieno di verità, ma non certo rispondente all'ideale dell'arte; l'Architettura statua destinata al monumento Sada, opera magistrale, ma che bisognerà giudicare messa a posto, mentre qui non è altro che una donna seduta. Il modello in gesso del monumento Massari col suo angelo poggiato sulle palme al sarcofago, non finisce di contentarmi. Anche lasciando da parte quello sconcio di due linee che s'incontrano ad angolo retto (l'angelo e il morto), che cosa significa quell'appoggiarsi dell'angelo, a cui, per star ritto, dovrebbero bastare le ali? Si dirà che il vero vuol proprio così, ed io non son qui per negarlo. Ma allora, perchè le ali, che non son vere, fuorchè per gli uccelli e per le nottole? A concepimento ideale mezzi ideali; è la regola dell'arte greca, che ha sentito così intimamente ed espresso così efficacemente il vero, ma che, quando effigiava gl'Iddii, non li faceva mai colle estremità del bipede implume, da cui pure toglieva a prestanza le forme.

Parlo con libera schiettezza al Monteverde, perchè lo amo e lo stimo. È un artista con cui si possono citare i Greci, senza essere sospettati di voler fargli dispiacere, nè torto. La quistione del resto non risguarda punto la valentia dell'artista; risguarda semplicemente la scuola, i confini in cui deve restringersi lo studio e l'imitazione del vero. Rammento qui, poichè mi viene a taglio, un altro grande artista italiano, di cui ho ammirato, a Genova, nella necropoli di Staglieno, un bellissimo genio, anch'esso colle ali e coi piedi da biricchino scalzo. Quei piedi erano copiati dal vero; non si poteva far meglio di così, volendo fare dei piedi di ragazzo dodicenne, che dimentichi troppo spesso le scarpe a casa. Ma, per un angelo, quei piedi mi stonano un poco. Imitate il vero dalla testa ai piedi, non dico di no; ma, nel caso di cui sopra, bisogna toglier le ali; anzi, meglio, non far angeli, mai, nè altre figure allegoriche. I Greci, a cui mi piace di ritornare, i Greci, che erano naturalisti in arte quanto noi, se non per avventura più di noi (me ne appello alla Venere di Milo), davano estremità convenienti, e per conseguenza men vere, agli immortali abitatori dell'Olimpo. E la ragione s'indovina: corpo nutrito d'ambrosia non può pesare ottanta chilogrammi, o giù di lì. Il dio pesante non va. Negate Dio, in vostra malora; ma in tal caso astenetevi anche dal modellarlo in creta, com'egli ha modellato voi, in un momento di soverchia bontà. Se lo fate, ammettetelo qual è, o quale lo ha immaginato un popolo di credenti.

 

Aperto così l'animo mio sulla quistione di scuola vi dirò che il Monteverde è qui molto ammirato nelle opere sue. Io lo ammirerei anche di più, se per l'esposizione universale di Parigi egli avesse fatto del nuovo, e a bella posta per essa. Alle corte, per mandar del gesso, come egli ha fatto col monumento Massari, avrei voluto, ne' panni suoi, mandarla io, ai francesi, una Repubblichetta di gesso, ma veramente coi fiocchi. Se ne sarebbero innamorati senz'altro; me l'avrebbero subito commessa in marmo. E che male ci sarebbe stato, se una statua monumentale di Giulio Monteverde, italiano, avesse dovuto adornare una piazza di Parigi?

Del Tabacchi, scultore insigne che possiede tutte le mie simpatie, si ammirano qui tre lavori, la Peri, l'Ipazia e Tuffolina; le due prime concepite con grande altezza di pensiero e tutte poi eseguite con un sentimento del vero, con una maestria di scalpello, da non potersi desiderare di più. Anche al Tabacchi dirò: artista dall'ingegno poderoso, mirate in alto. Fate pure dell'arte minuta, come nella Tuffolina, ma non dimenticate l'arte grande, l'arte magnifica, della Peri e dell'Ipazia.

Lode al Barzaghi pel suo Mosè salvato dalle acque, una composizione elegantissima ed anche una vera trovata. Altri si ferma con maggior compiacenza davanti alla sua Mosca cieca e alla sua Vanerella; io noto il fatto, me ne congratulo coll'artista, e dico a lui, come a tanti altri valenti apostoli della scoltura di genere, di cui mi passo per amore di brevità: – «tutte cose bellissime, e si venderanno; anzi, andranno a ruba senz'altro; ma badate, artefici illustri del primato italiano in materia di scoltura, un giorno o l'altro, se tiriamo avanti col piccolo, ci batteranno, ve lo assicuro io, ci batteranno». —

VI

Dolenti note. – La pittura italiana. – Pittura di genere, pittura degenere – La quarta figura. – I veristi del Cinquecento. —Vox audita est in Rama.– Finanzieri e ciabattini. – Il fazzoletto di cotone.

Vengo alla pittura. Qui non ci batteranno, spero; ci hanno battuti, battuti sonoramente, battuti à plate couture, come si dice sulla faccia del luogo.

Parlandovi della esposizione pittorica dell'Italia, amerei farmi intendere appuntino. Ora, per farmi intendere, debbo trovare un paragone con qualche città secondaria; per esempio, con Genova, che certamente non si lagnerà di essere citata dopo Parigi, per ragione d'importanza. E tuttavia, il paragone non reggerebbe. Genova, in alcune esposizioni della sua Società promotrice di Belle Arti, ha avuto delle tele come la Consolatrice degli afflitti di Nicolò Barabino, come la Morte di Alessandro de' Medici del Castagnola, o del Bellucci, come il Bernabò Visconti del Giannetti, e via discorrendo. Ma lasciamo andare; poichè il paragone non m'è venuto esatto, e a trovarne uno migliore dovrei sudarci parecchio, fate conto che l'esposizione pittorica dell'Italia a Parigi sia una delle migliori di Genova, ma senza Castagnola, senza Giannetti, senza Bellucci, senza Barabino.

E adesso che vi sarete formati un'idea approssimativa della cosa, intenderete ciò che sono per dirvi. A voler prendere questa per un'esposizione di città provinciale italiana, dove possa anche capitare uno straniero e derivarne qualche giudizio intorno all'arte nostra, si può ammettere che qui ci sia molto; ma, per una esposizione universale, a cui potevamo e dovevamo prepararci come ad una giornata campale, decisiva, in cui potevamo e dovevamo impegnare tutto l'esercito, la prima, la seconda linea, ed anche le riserve, c'è' poco, anzi meno del poco.

Ora, questo pochissimo appartiene tutto alla così detta pittura di genere, salvo due o tre quadri che appartengono alla gran pittura… degenere. Parlo liberamente, perchè non ho peli sulla lingua; e cui non piace mi rincari il fitto. Un valente artista italiano, che ho incontrato l'altro dì nella sala di belle arti della Grecia (un altro paese, che non è tornato ancora all'altezza del nome), mi diceva pietosamente che nei quadri italiani si vede lo studio, l'indagine, la ricerca del vero, il desiderio di trovare una strada, mentre in altre scuole, già più avanti della nostra, si nota il periodo della decadenza, del mestiere ben fatto, ma sempre mestiere. Non ho voluto dirgli di no; mi sono contentato di rispondergli che le scuole di cui parlava erano almeno rappresentate al Campo di Marte da tutti i loro più grandi e più famosi artisti, laddove la nostra aveva il doppio torto di non aver messo tutti i suoi in linea di battaglia. Se ciò fosse stato fatto, chi sa? avremmo forse vinto, certamente sostenuto l'onore della bandiera. Così come ci siamo presentati, facciamo la quarta figura, e tutti coloro che giudicano l'arte del nostro paese dai quadri che sono esposti nella sezione italiana, possono dire queste due cose di noi: che nei meccanismi dell'arte siamo rimasti indietro, e che non ci salviamo neanche per la nobiltà degli intenti.

Sento già un'aria di burrasca che consola. Ecco il paladino della grande pittura; della pittura accademica! Sì, signori, della grande pittura; quanto all'accademia, l'ho in un calcetto, ve la regalo, e tanto più volentieri, immaginando che spesso vi accadrà di averne bisogno, per correggere gli errori dei vostri occhi, quando travedono, deturpano, assassinano il vero. Mi si dirà ancora: volete dunque e sempre della pittura storica? Non sempre, sebbene la quantità non guasti; domando dell'arte che miri alto, intesa a contentar l'occhio fin che volete, ma anche a sollevare lo spirito. L'opera che non fa pensare, è un'opera inutile.

Del resto, non volete fare della grande pittura? Non ne fate: anzi, buttatevi tutti a imitare il Meissonier, e diventate milionarii, che Iddio vi benedica e i mercanti di quadri vi aiutino! Sia pure arte piccola, ma fatela bene. Diventate maestri in quell'arte

Che alluminar è chiamata a Parisi,

ma battetevi seriamente, per Dio; ma fatevi ammirare dai Filistei che oggi comandano, col loro buon gusto, nella Terra promessa di Raffaello e di Tiziano, del Correggio e di Leonardo da Vinci. Intanto, che cosa vuol dire che qui a Parigi, al Campo di Marte, tutti, maestri e dilettanti, dotti e ignoranti, connaisseurs… et américains, vanno in folla e si pigiano nella sezione austriaca? Non già nella francese, signori, per intenerirsi coi Meissonier; non già nella spagnuola, per sdilinquirsi nei Fortuny; nell'austriaca, proprio nell'austriaca, che del resto ci ha poco di buono, ma che ci ha pure un quadro, un quadro solo, un gran quadro, origine e suggello di tutta la sua straordinaria fortuna.

Parlo di Giovanni Makart e della sua Entrata di Carlo V in Anversa. Come composizione, il quadro è pieno di difetti; come fattura, manca di originalità. Ma come tutto ciò è compensato! Come tutto ciò si dimentica, alla vista di quella tela smisurata! L'artista ha sentito largamente il soggetto, e questo è già un bel merito, in questi tempi di gretteria applicata alle arti. Poi, sapete che il quadro non l'ha dipinto lui? Vi dico una cosa strana, contro cui protesterebbe volentieri il medesimo autore. Ma il fatto è questo, e non si muta, il quadro gliel'hanno dipinto in due, e tutt'e due italiani, ma del buon tempo antico, Paolo Veronese e Tiziano. Ci pensi l'autore, e finirà col darmi ragione; dirà che non si ricorda bene, che forse dormiva, davanti alla sua composizione abbozzata, e che quei due grandi, non nemici suoi, certamente, hanno approfittato del buon momento, per fargli quel tiro mancino. Benedetti i sonni di un nobile artista, consolati da cosiffatte apparizioni! Io penso con dolore che fra duecento e trecent'anni non si potrà dire, neanche d'un quadro d'artista cinese, che gliel'hanno dipinto due pittori italiani, espositori a Parigi, nella mostra universale del 1878!

Tiziano Vecellio e Paolo Veronese! Che si fa celia? Due realisti, due naturalisti, due veristi del tempo loro; che facevano dell'arte larga, dell'arte grandiosa; che volevano lode e fama, anche accettando le commissioni dei potenti, e si sarebbero vergognati di fare un quadruccio, anche quando, non che venderlo ad un borghesuccio arricchito, dovevano regalarlo a qualche poeta di strapazzo, loro compagno di cena.

L'arte è così; divina, o nulla. L'arte piccola confina col mestiere, ci fa le sue scorribande, ci piglia gusto (come lo si piglia, pur troppo, in tutte le discese!) e finisce col metterci casa. Io, per me, non intendo l'artista altrimenti che col cuore aperto a tutti i nobili sentimenti, l'anima a tutti gli alti concetti. Quando ama restringere il suo orizzonte, lo stimo ancora, se è bravo; ma lo rimando al disegno industriale, che dopo tutto ha tanto bisogno d'aiuto, per far fruttificare un altro ramo dell'operosità nazionale.

«Una voce s'è udita in Rama; è Rachele che piange i suoi figli; e non vuol essere consolata, imperocchè essi non sono più». Così le Scritture. Ed io sono un po' come la biblica Rachele; piango la grand'arte italiana, e non so consolarmi di vederla assente da Parigi. Perchè non è venuta? È così che l'Italia ha tenuto l'invito? Mi dolgo del fatto co' suoi pittori più famosi; ma mi dolgo sopratutto col suo governo, accuso la trascuranza di coloro che erano al potere, quando fu annunziata l'esposizione, indetta la gara di Parigi. Ci voleva tanto a chiamarsi intorno una mezza dozzina dei… non dozzinali, per sapere se intendevano di concorrere, e all'occorrenza per incitarli a concorrere? Si poteva, per esempio, dir loro in molta confidenza: «lavorate per la solenne occasione: smettete i quadretti di salotto, le pale d'altare, le medaglie a buon fresco, per una volta tanto; fate qualche cosa di grande, che sia degno della mostra universale, dell'Italia e di voi; se i vostri cinque o sei quadri, per la mole loro o per la natura del soggetto, non si venderanno laggiù, penseremo noi, penserà il paese, a cui avrete guadagnata la medaglia d'oro, e, che più monta, assicurata la fama».

Sicuro, si poteva dir questo. Ma allora… allora sedeva sulle cose della pubblica istruzione un uomo… e su quelle della finanza sedeva un altr'uomo… Non li nomino, perchè, in fin de' conti, non sono essi solamente i colpevoli, e perchè troppi altri, al posto loro, avrebbero fatto lo stesso. Che serve biasimare Tizio o Caio, quando è tutta la scuola dei nostri uomini politici che ha mestieri di rinnovare il suo credo? In materia di finanza, i nostri uomini politici hanno un poco del ciabattino; voglio dire che adoperano troppo la lesina, salvo a buttarla via, ed anche a rovesciare il bischetto, in un momento di buon umore, che è per solito nella domenica del pareggio, e dura qualche volta tutto il lunedì della sbornia. In materia di istruzione, e per conseguenza anche d'arte, che cosa aspettarti da loro, se non vivono d'arte e coll'arte? Questa è libera, si capisce, e non ha più da mendicare la sua vita da un Augusto, nè da un Leone X. Ma qui, con buona pace dei dottrinarii, abbiamo un fatto nuovo, che non si giudica coi loro vecchi criterii. In quella guisa che le grandi reti ferroviarie e le potenti associazioni di credito hanno dovuto scrollare un tantino l'autorità dell'antico aforismo economico dei fisiocratici «lasciate fare, lasciate passare», così le grandi esposizioni internazionali mutano un poco, per non dir molto a dirittura, le condizioni di assoluta libertà, e di assoluta trascuranza, in cui sono lasciate le arti. Se lo Stato provvede a spese ragguardevoli per concorrere ad una di queste esposizioni, perchè non s'intrometterebbe anche nella bisogna di stimolare i grandi ingegni, che in quelle mostre, in quelle gare d'operosità, possono recare il lustro maggiore e l'aiuto più poderoso? Torno a dirlo; i nostri uomini politici hanno torto; e certuni tra loro, a cui giova il tenere il portafoglio dell'istruzione pubblica, hanno torto marcio a non avere intelletto d'amore per l'arte. Capisco che hanno da godersela coi loro provveditori e colle quistioncelle burocratiche; una nuova classe di sventurati da aumentare e da tormentare; gli istituti tecnici da insidiare e da digerire. Ciò basta alla loro operosità; dopo di che, rimane appena il tempo di spiegare un fazzoletto di cotone e soffiarcisi il naso. Ma ciò non è bello, no, non è bello; nè il trascurar l'arte patria, nè il soffiarsi il naso con un fazzoletto di cotone; specialmente se è giallo.