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La notte del Commendatore

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–Ma sì, davvero;—disse Ariberti inchinandosi di molto e alzando in pari tempo il gomito, per modo che la mano della signora Mary si trovò quasi a tiro di un bacio;–nessuna donna ha mai fatto tanto pel vostro umilissimo servo.

–S'ha a credere?

–Ve lo giuro.

–-Neanche Giselda?

–Neanche Giselda. Ma perchè lei più di un'altra? Io non l'ho mai avvicinata nel suo salotto.

–Strano!—mormorò ella tra i denti, quasi volesse parlare da sè.

–Strano, che cosa?—domandò il giovine, a cui quella parola schiudeva un mondo di vaghi sospetti.

–Nulla, nulla!—rispose ella schermendosi.—Ho io detto veramente strano?

–Sì, lo avete detto. E in che modo è da intendersi? Parlate, via, non mi tenete sulle spine.

–Ah, ah, la vi preme dunque un pochino, molto moltissimo.

–Aggiungete niente affatto, e il giuoco è finito. Io domandavo la spiegazione di una parola oscura; ecco tutto.

–Orbene, ecco qua il senso vero della parola, poichè non voglio lasciarvi colla impressione di aver tenuta a braccetto la Sibilla Cumana. Mi è parso strano che Giselda, a cui siete tanto divoto, Giselda che è così spesso in volta per le vie di Torino, non vi abbia mai dato questa prova di fiducia.

–Che volete? Sarà come voi.

–Mutiamo i termini;—soggiunse Mary, dando una scossa dispettosa al braccio di Ariberti;—dirò invece che non abbia fatto questa prova di confidenza nelle sue proprie forze.

–Ah, e voi vi sentireste di farla?

–Sicuro che mi sentirei… Che specie d'irresistibile vi argomentate voi di essere?

–Io, signorina? Io non mi argomento d'esser nulla. Si ciarla ed io fo la mia parte. Venite dunque ora, e date questa prova di fiducia a me, a voi, a chi volete insomma.

–-No, no, ho scherzato;—disse la bella inglesina, troncando il discorso;—contentatevi che io veda le vostre finestre, per sapere dove augurarvi la buona notte, quando mi avrete ricondotta all'uscio di casa mia.

–Come volete. Dicevamo dunque… Che cosa dicevamo?

–Che siete un capo ameno, e molto innanzi, troppo innanzi per la vostra età.

–Or ora dicevate il contrario.

–Eh, mi sarò ingannata. Poi, chi sa? gli uomini son così stravaganti!

Timidi con questa, audaci con quella: chi li capisce?—

Ariberti sentì, argomentando dal caso suo, che l'inglesina toccava giusto. Infatti, timido con Giselda, perchè innamorato, egli si sentiva più libero, più disinvolto con Mary, che pure incominciava maledettamente a piacergli, ma in un modo tutto diverso dall'altra. Sì, lettori umanissimi, debbo confessarvelo. E voi, del resto, lo avrete già capito a quella alzata di gomito, che fu come il batter d'ali dell'uccellino che si addestra al volo; il mio giovane eroe non sentiva impunemente la vicinanza di una bella ed elegante creatura, circondata di tutte le fragranze della gioventù e della profumeria. Alle corte, l'adoratore della altera marchesana di San Ginesio non avea bruciato i suoi incensi sull'ara domestica della signora Giuseppina Giumella? L'adoratore di Giselda faceva assai meno grave caduta, sdrucciolando ai piedi della signorina Mary.

Dopo tutto, non esageriamo. Ariberti era in una condizione nuova e difficile, come a dire sulla corda tesa, e non senza una certa voluttà mista di timore, perchè la fortuna era lì, scherzevole e lusinghiera, davanti a lui, ma c'era anche il pericolo di sentirsi mandare al diavolo nel qual caso tutto gli andava a rovescio, e la lusinghiera ingannatrice non avrebbe tralasciato di fare le sue confidenze a Giselda.

Tutte queste probabilità, più o meno lontane, più o meno paurose, passarono per la mente ad Ariberti in quella che si faceva a seguire il fuoco fatuo sull'orlo dei precipizio. E perchè egli non era ancora risoluto di andare innanzi o di tornare indietro, accettò senza sforzo il cambiamento di discorso che ella mostrava di volere.

–Audace!—ripigliò il giovane per conto suo.—Non lo sono. La vostra grazia m'incanta e meritate bene che anch'io vi faccia rispettosamente un pochino di corte. Dite sinceramente che cosa pensereste voi di un uomo il quale vi conducesse sospesa al suo braccio e non vi dimostrasse colle parole e cogli atti di far differenza tra voi e… la prima venuta?

–Ah, se fosse così!—esclamò la signora Mary sospirando.—Ma gli è che io temo per l'appunto di esser come la prima venuta ai vostri occhi. Chi sa, poi? Siamo quasi al buio, e potreste immaginarvi di essere accanto a Giselda.—

Questa volta fu Ariberti che non potè reprimere un movimento di stizza.

–E sempre Giselda!—gridò egli, alzando dispettosamente le spalle.—Che cosa c'entra Giselda?

–C'entra sicuro. Nessuno mi leverà dal capo che voi l'amate.

–Vi ho già detto due volte che non è vero.

–Lo diceste anche mille, quell'astuccio, da solo, basterebbe a provare il contrario.

–Quell'astuccio!… Ah sì, parliamone! Un dono che mi avete costretto a fare voi stessa!

–Io?

–Sì, col vostro discorso di Moncalieri.

–Davvero?—diss'ella, con accento impresso d'ironia,—Proprio vi siete deciso a far quella spesa per me?

–Certamente. Io non sono ricco… Lo avete detto voi. Mi contentavo di regalare dei fiori, come avrei fatto per ogni altra dama a cui fossi stato presentato e che avesse mostrato di gradirli. Ma voi, signorina, mi avete posto in canzone, vi siete beffata de' miei doni pastorali, mi avete messo al punto…

–Ah, gli è dunque per un semplice puntiglio che voi regalate gioielli alle dame?

–Ma sì, per un semplice puntiglio. Capirete che a nessuno piace di esser tenuto in quel conto che voi mostravate di tener me, quasi fossi un pezzente.

–Ammettiamo dunque che la colpa sia mia;—ripigliò l'inglesina, cedendo un po' di terreno al suo avversario.—Ma se si fosse trattato di un'altra donna che non fosse l'amica mia, avreste voi fatto lo stesso? Per esempio, avrei voluto vedere se lo avreste fatto per me.

–Anche per voi;—rispose Ariberti gittandosi a capo fitto nel ginepreto, da cui tanto e tanto non poteva più distrigarsi;—dirò meglio; a voi più che ad un'altra.

E il pensiero gli correva frattanto all'altra metà della somma ottenuta da Arun-el Rascid, che minacciava di non volergli rimanere in tasca più a lungo.

–Vi ringrazio;—disse la signora Mary, con voce così soave che più non sarebbe stata una carezza.—Badate che ho scherzato. Io non accetterò mai un dono simile se non dall'uomo che amerò.

–E dàlli, coll'uomo che amerà!—pensò Ariberti, stizzito contro questo personaggio mistico che incominciava a dargli noia prima di esistere.

Il giovinetto provava, rispetto a quel Tizio di là da venire, quel medesimo senso che molti provano in una sala pubblica, mirabilmente ornata di marmi e dorature, ma dove ci sia nella parete una nicchia vuota, che fa venire la voglia di gridare via, metteteci un grand'uomo, anche da dozzina, e facciamola finita una volta.

Così ragionando, e alternando i soliloqui col dialogo, Ariberti andava speditamente lunghesso i portici di Po, colla bella inglesina aggrappata al suo braccio. La gente che li vedeva passare così leggeri e contenti sotto le arcate, stretti l'uno contro l'altra come i due gemelli appiccicati di Siam, pensava: ecco due sposi novelli che han fretta di giungere a casa. E tutti, poichè a quell'ora non c'erano donne in volta, tutti invidiavano lo sposo, non lei.

Ma l'essere così vicini e il sostenere tutte quelle occhiate e giaculatorie dei viandanti, non li custodiva mica dal freddo. Certi buffi gelati scendevano tratto tratto dalla collina di Superga, che non erano punto piacevoli, e la bella inglesina incominciava a tremare.

–Avete freddo?—chiesele Ariberti.

–Un pochino.

–Torniamo indietro, se vi pare.

–No, no, ho promesso di venire a vedere le vostre finestre, e non sarà mai detto che un po' di freddo mi abbia fatto mancar di parola.—

Intanto affrettavano il passo.

–Ci siamo;—disse il giovine, come furono alla svolta di un angolo.—Se volete uscire di sotto ai portici, vedrete queste meravigliose finestre. Vi avverto che non sono di buon stile. Vedete, son quelle due là, nel mezzo.

–Ah, non è mica troppo alto.

–No; come vedete, è un secondo piano.

–Dovrete starci bene.

–Ma sì, abbastanza.

–C'è buio; non ci avete nessuno?

–Nessuno.

–Eh via! Volete darmela ad intendere.

–Nessuno, vi ripeto. Chi ci ha da essere? Del resto, venite su e potrete sincerarvene.

–No, grazie; andiamo fin là a vedere il fiume. Sarà gelato.

–Che dite? gelato il Po?

–Gelo ben io!—disse ella, ridendo e rabbrividendo ad un tempo.

–Ah, vedete? E perchè non confessarmelo subito?

–Perchè il freddo mi pareva più sopportabile. Il più forte mi ha preso or ora.

–-Venite, torniamo indietro.

–Si;—rispose ella con un filo di voce.

E voltarono indietro; ma il freddo pungente le dava assai noia, ed ella batteva i denti per tal modo che il suo cavaliere incominciò a temere non fosse per accaderle di peggio.

–Chiudete bene la vostra mantellina;—le disse;—intanto sarà meglio che entriamo sotto i portici. Ma che avete, Dio mio? Vi sentireste male?

–Qui, qui;—rispose ella stringendo la mano al petto e arrovesciando gli occhi con moto convulso:—mi manca quasi il respiro.—

Ariberti si spaventò davvero, come tutti coloro che si trovino in simili casi la prima volta, e via, mettiamo anche la seconda e la terza, poichè la vista di una donna che soffre, o mostra di soffrire, fa sempre pena ad un'anima bennata.

Per fortuna, la sua abitazione era lì a pochi passi, ed il nostro giovinetto potè condurre sollecitamente la sua donna al coperto. Ella si lasciò trascinare, portar quasi sulle braccia, e non aperse più bocca, direi quasi che non trasse più il respiro, fino a tanto non si trovò nei quartierino di Ariberti. Egli, lesto come uno scoiattolo, mise mano a quante carte inutili stavano nel canestro accanto al camino, e le ficcò sotto la stipa, che, sentito il fuoco, levò prontamente gran fiamma e scoppiettò allegramente, mandando per la camera sprazzi di luce rossastra e di caldo.

 

Fornita questa prima parte del debito suo, Ariberti accostò una portoncina al camino e vi fece adagiare la sua bella compagna, che seguitava di tratto in tratto a rabbrividire. Voleva anche coprirle la persona con un ampio coltrone, strappato dal letto; ma ella non lo accettò, amando meglio scaldarsi al fuoco che divampava nel camino e già incominciava a far sentire i suoi benefici effetti.

–Ecco una scappata che mi costa cara—diss'ella poscia, forse volendo alludere a quel gran freddo che la aveva colta.

Ariberti s'inchinò su di lei con atto amorevole.

–-Mi duole davvero,—diss'egli di rimando,—che per cagion mia… Ma in fine…—

Voleva soggiungere: infine lo avete voluto voi; ma si accorse che stava per dire una solenne bestialità, e si rattenne a tempo.

–Infine,—proseguì egli allora, mutando l'indirizzo della frase,—io ci ho guadagnato il piacere di darvi ospitalità. Questa cameretta quind'innanzi mi sarà sacra, per aver dato ricetto alla vostra bellezza.

–Purchè non vi salti in capo di murarvi una lapide commemorativa!—esclamò ella, coprendo con una allegra risata la scabrosità della situazione.

–Ah bene!—gridò egli, tutto racconsolato.—Voi ridete; siamo dunque fuor di pericolo.—

C'era ella stata davvero, in pericolo? Io non ardirei di affermarlo. E forse, pensandoci su a mente fredda, non lo avrebbe creduto neanche Ariberti. Ma là, a quel caldo, non bisognava guardarla tanto nel sottile. Ad altro pensava Ariberti; pensava a via d'Angennes e gli mordevano il cuore certi rimorsi! A quell'età, si capisce che ne avesse ancora. Non poteva Giselda risapere il giorno seguente quella sua scorribanda notturna? E con che coraggio si sarebbe presentato a lei? Imperocchè, delle due l'una, o l'inglesina era una donna a modo e avrebbe taciuto, ma lo avrebbe anche messo lui nel caso di dover rinunciare a Giselda; o non lo era, e per vanità, o per chiasso, avrebbe cantato senza fallo. Pregarla che stesse zitta; sicuro! La cosa sarebbe stata davvero di buon gusto, a quell'ora!

Intanto, la furba inglesina andava pigliandosi spasso de' fatti suoi.

–Dite, mio bel signorino, vi sono io sempre antipatica?

–Voi? a me?—chiese egli confuso.

–Sì, io. Non è questa l'impressione che io ho avuto la disgrazia di fare su voi?

–Ma chi ha potuto dirvi?…

–Eh, un testimonio credibile; la mia amica Giselda.—

Quel tradimento della signora Szeleny gli diede maledettamente sui nervi. Che bisogno c'era egli di andare a ripetere i suoi discorsi a Maria? Ariberti se n'ebbe a morder le labbra dalla stizza. Ma, intanto, bisognava rispondere, e la stizza contro l'una non era una risposta per l'altra.

–Sì,—disse allora, facendo di necessità virtù,—l'ho detto… per vendicarmi.

–Vendicarvi? Di che?

–-Correggo la frase; rendervi pan per focaccia. La signora Giselda mi ha raccontato che vi ero antipatico, ed io ho risposto: a buon rendere. Dite su, non le avete forse detto che io vi ero antipatico?

–Sì e no;—rispose Maria.

–Come sì e no? Questa è una sciarada. Non la capisco.

–Quando conoscerete un po' meglio le donne,—replicò l'inglesina,—capirete anche questa.—

Fu quella l'unica volta che il nome di Giselda venne fuori nella loro conversazione. Forse l'inglesina ne aveva troppo parlato in principio e non voleva tormentare più oltre il suo cavaliere. Fors'anche, e questo mi pare più probabile, ella non voleva spaventarlo di soverchio coll'ombra dell'amica lontana, e mirava a serbarsi il benefizio di parlar chiaro e di mettergli le sue condizioni più tardi. Gli faceva insomma la strada piana ed agevole ad entrar nella rete, salvo a fargli trovare gl'intoppi quando si trattasse di uscirne. È suppergiù l'artifizio delle nasse, in cui le aliguste entrano così facilmente a morder l'esca, e poi, con tutte quelle steccoline che chiudono la gola del ricettacolo, non trovano più il verso di liberarsi.

Per altro, se l'inglesina taceva, non taceva del pari la coscienza di Ariberti. L'immagine della signora Szeleny gli tornava ad ogni tratto davanti; ed egli era ancora troppo giovane per cavarsela da queste malinconie con una alzata di spalle, nè abbastanza padrone di sè (e questo lo abbiamo già visto) per rinunziare ad una fortuna così piena di rimorsi. Egli non era, per dirla con una frase volgare, nè carne nè pesce, e incominciava a portare la pena de' suoi tentennamenti.

Gli bisognava svagarsi, inebbriarsi, dimenticare. Questo era per un animo come il suo il consiglio migliore. Era giovine, e la cosa gli venne fatta più facilmente che non a me spiegarvela con queste mie ciance. Si lasciò andare agl'impeti della sua indole pronta ed esuberante; finse la più profonda passione che nascesse mai da un momento all'altro nel cuore di un uomo e credo che nella furia andasse perfino di là dal segno. Alla sua età, con quell'ardore nel sangue, il nostro eroe poteva illudere a quel giuoco, non che una donna, sè stesso.

Così riscaldato com'era, egli non si fermò neanche a considerare che il passo della signora Mary era ardito oltre ogni ritegno di condizione ed ogni misura di convenienza. Ma in questo errore sarebbe caduto anche un uomo più maturo di lui. Tutto ciò che le signore donne fanno per noi è ben fatto; nelle loro debolezze non vediamo che la nostra potenza, e questa poi, siamo sempre disposti a condonarcela. Se si trattasse della fortuna di un altro, oh allora, giù senza misericordia sulle donne che cascano. Ma si tratta di noi…. È forse colpa di quelle poverine, se noi siamo nati irresistibili? E il giorno che si è fatta quella scoperta, come si desina di buon appetito! come ci si stropiccia allegramente le mani!

Lettori, io mi perdo in chiacchiere, e sono già le tre del mattino. Anche i miei due personaggi se ne sono accorti, per l'indiscrezione di non so quale orologio del vicinato.

–Mio Dio!—esclamò Ariberti, col suo solito candore.—Che dirà ora la zia?—

In questo caso, come in tanti altri che ha registrati la storia, da Eva in giù, la donna si mostrò più forte dell'uomo.

–Che importa?—diss'ella.—Alla fin fine non sono più una bambina. Sappiate, signor mio, che tra due mesi anch'io calcherò le scene e dovrò pure uscir di tutela.

–Ma intanto…

–Ma intanto non vi date pensiero di ciò che diranno le zie. E questo sia detto sui generali, per tutto ciò che può occorrervi nella vita. Nel caso nostro poi, non c'è da pensar molto per trovare un pretesto. Avevo freddo; sentivo lo stomaco vuoto e siamo andati da Biffo…

–A prendere un brodo; benissimo. Ci si potrebbe andar ora, per non dire una bugia tutta intera.

–No, no!—interruppe l'inglesina.—Potrebbero vederci, e ciò non mi garba… colla vostra aria da trionfatore romano.

–Cattiva! Dite piuttosto che temete d'incontrarvi in qualcheduno dei vostri eterni adoratori.

–Voi vedete a quest'ora come io mi prenda pensiero di loro.

–Venite, dunque.

–No;—replicò la signora Mary, che aveva buon senso per due;—a quest'ora da Biffo ci si può essere ancora, ma lo andarci a quest'ora…

–Ho capito;—gridò Ariberti;—ed io sono una bestia.

–Ah, manco male!—

E quel battibecco d'innamorati finì in una sonora risata.

La conseguenza del ragionamento si fu che Ariberti accompagnò a casa, senz'altre fermate, la signora Mary, giurandole sull'uscio un amore infinito e promettendo alle sue cinquecento lire che, se nessuno gliele rubava al ritorno per via, sarebbero andate il giorno vegnente dal gioielliere a ricongiungersi con certe altre, da cui erano state barbaramente divelte.

CAPITOLO XVI

Che chiude l'êra delle pazzie giovanili.

Erano questi gli studi d'Ariberto Ariberti; così viveva egli, ciondolandosi, coll'isocronismo comune ai pendoli e agli animi deboli, dalle marchese di San Ginesio alle Giuseppine Giumelle, dalle Giselde alle Marie, dalle Dore alle Euterpi, dai Bertoni ai Ferreri e dai Candioli ai Priori.

Fatto il male, si pentiva; l'indole sua generosa portava così. Egli adunque si pentì eziandio di quel tradimento che gli pareva d'aver fatto a Giselda, e, dovendo comparirle davanti, si tenne per un uomo spacciato. Ma Giselda non gli disse nulla, non mostrò nemmeno di avvedersi del suo turbamento; la qual cosa gli fece credere che l'inglesina avesse taciuto. E infine, perchè avrebbe parlato? Non ci aveva anche lei il suo tornaconto a star zitta? Così, tra speranza e sospetto, col cuore lungamente in angoscia, tirò innanzi più giorni, proseguendo fiaccamente a farle la corte. Egli era impacciato, Giselda era tiepida; il loro affetto accennava a voler morire d'anemia. Avrebbe anche l'amore il suo periodo matrimoniale?

La signora Szeleny doveva per altro aver saputo, o indovinato qualche cosa. Ma in verità il signor Ariberti dovea premerle ben poco, perchè ella non fece gran caso di quel suo tradimento. Solo un quindici o venti giorni più tardi trovandosi ella nel suo salotto con Ariberti e con qualche altro, per modo che non c'era adito a nessuna peripezia drammatica, di punto in bianco gli chiese:

–Vi è più antipatica la mia amica Maria?—

Quella domanda improvvisa, accompagnata da uno sguardo che parve voler dire assai più dischiuse il solito abisso davanti agli occhi del giovane; il solito mondo di pensieri gli si affacciò alla mente turbata, e lì sui due piedi, come portava il bisogno, la solita deliberazione fu presa.

–No;—le rispose egli, dopo i tre minuti secondi necessarii a tutto quel lavoro mentale che ho detto.

E la conversazione non ebbe altro seguito.

Rammento ancora il brutto senso che fece in me, scolaretto di grammatica, e con tutta la maggior venerazione per l'ingegno di Vincenzo Monti, la chiusa dell'Aristodemo, con quel suo endecasillabo così povero di concetto e finito così malamente in tronco:

«Qual morte! Egli spirò».

Scommetto che ai miei lettori non riuscirò meno molesto io, quando avrò detto che con quel no, tronco, o monosillabico che dir si voglia, ma sempre maledettamente asciutto, ebbe fine il romanzo tra lui e la bella Giselda. Con quei cominciamenti maravigliosi! Sicuro; anche l'Aristodemo incomincia maestoso e fiorito:

«Sì, Palamede, alla regal Messene «Di pace apportator Sparta m'invia. «Sparta…»

con quel che segue e che ogni buon dilettante ricorda, senza bisogno di suggeritore alla buca.

Del resto, chi sa? Era logico che quell'amore, nato così facilmente, come i funghi tra uno scroscio di pioggia ed un raggio di sole, si disfacesse chetamente da sè, con altrettanta ragione di morte quanta era stata la sua ragione di vita.

Di Ariberti e delle sue incertezze vi ho detto, e si capisce perchè avesse lasciata intisichire la sua passione a quel modo. Ma che pensare della signora Giselda? Ecco qua una faccia del poliedro (poichè la geometria è di moda in letteratura) una faccia da poliedro teatrale. La donna, creatura debole, ha sempre mestieri di appoggio; la prima donna, che è donna alla seconda potenza (vedete? dalla geometria si passa nell'algebra), ha mestieri di appoggi. L'uomo, anzi, gli uomini, non sono un fine per lei, ma strumenti ordinati ad un fine, collocati sulla sua strada perchè essa li usi a quel fine. Perciò, amori pochi, e tutta galanteria; galanteria molta o poca, schietta od impura come le varie qualità di petrolio che sono in commercio (ahimè, qui si casca dall'algebra nell'industria!), ma sempre subordinata alla carriera.

La carriera, capite? Imperocchè, salvo i casi di fare fortuna con qualche ricco sfondolato che offra il suo cuore per la trafila del notaio e del prete (adesso bisognerà aggiungere il sindaco), il sopraccapo della carriera artistica va innanzi perfino alla cura del vile guadagno. il tornaconto è una cosa; la carriera è tutto. C'è dentro la soddisfazione dell'animo, la vanità consolata, le rivalità debellate, la notorietà, l'apparenza, insomma tutti i benefizi dell'essere in mostra. Anche il giornalista, per quanto dicono i suoi critici, è fatto un pochino così. Semel abbas semper abbas; cioè a dire che quando abbia una volta assaporate le pericolose gioie dell'essere in vista, alla ribalta del suo teatro politico, non sa più rassegnarsi a tornare fra le quinte. Come? potrebbe egli venire il giorno per lui che Minghetti, o chi per esso, non tremasse nello strappare la fascia del suo riverito giornale? che nessuno dei mendicanti di fama credesse più necessario di fargli la sua scappellata per via? Si grida contro le seccature del mestiere; ma che serve? il palcoscenico attira. Avanti dunque gl'istrioni! Anche a Nerone, buon'anima sua, dispiaceva di andarsene dalla scena del mondo, e soltanto perchè non avrebbe potuto più sostenervi la sua parte. «Qualis artifex pereo!»

 

Eppure la felicità è una cosa modesta nelle sue apparenze, dirò meglio, una cosa oscura, che si compiace nel silenzio e sa farsi, con pochi ma saldi affetti e con umili ma care consuetudini, il suo recesso ignorato anche in mezzo alla folla. Solo il piccolo mondo che ci siamo foggiati, per così dire, nei ritagli del grande, ha veri conforti per noi, o tanto più efficaci in quanto che sono più concentrati. Ma sì, andate a dirlo agli istrioni! Neppure Giselda era fatta per accettare di buon animo la sua parte di felicità con Ariberti, quantunque giovane, bello, e innamorato per giunta. Se egli avesse posseduto almeno cinquanta mila lire d'entrata, chi sa?…. Forse allora la bella diva avrebbe potuto rinunziare al suo piedistallo sul palcoscenico, ma per formarsene un altro nella società elegante e per avere il diritto di lagnarsi poi, di rimpiangere costantemente due volte al giorno il sacrificio fatto di tanti omaggi d'adoratori a cui era avvezzata, dei fiori, degli applausi e del nome in mostra sui cartelloni.

Quanto ad accettarlo come un amante, a dargli e ad accoglierne un tributo d'affetto immenso e fugace, la cosa sarebbe stata più facile, perchè Ariberti le era simpatico. Rammentate il modo in cui si erano conosciuti. Ma il piacere agli occhi di una donna non basta ancora; e spesso, in una società che fa tutto a mezzo e non ha gagliardia d'impulsi per la virtù nè pel vizio, val più una occasione colta a volo, che non la costanza e l'ossequio da un lato, e la passione, o la misericordia, dall'altro. Poi, il nostro innamorato non era stato abbastanza audace, o la signora Szeleny non aveva avuto bisogno abbastanza di lui. Siate audaci; un granellino d'audacia dà risalto all'amore. Rendetevi necessari, e sarete anche cercati. È il segreto di molti con molte, e se non temessi di farmi cavar gli occhi da qualche decima Musa sdegnata, vorrei dire con tutte.

Così adunque ebbe fine quell'altra passione di Ariberto Ariberti. Venne un mattino uggioso e freddo, sebbene fosse già di primavera inoltrata, che la signora Giselda Szeleny se ne andò via da Torino. Era stata cinque mesi sulle rive del Po, e mietuti quei pochi allori, pigliati a stento quei magri quartali che l'impresario giurava non aver essa guadagnati, se ne tornava alla sua residenza artistica in riva all'Olona. Spariva, insomma, portando via ad Ariberti un pezzettino di cuore e lasciandogli in ricambio qualche frase magiara pei suoi studi di lingue comparate, un guanto per la sua collezione di roba scompagnata e qualche ciocca di viole appassite, malinconici trofei d'un amore, che si era fermato alle prime avvisaglie. Ma no, dico male; gli lasciava anche la promessa di scrivergli spesso e lungamente, tanto per avere una scusa a non dirgli altro a parole e per dare una forma meno recisa e fredda all'addio.

Frattanto quel suo ripesco amoroso colla bella inglesina andava innanzi col solito metro. E i debiti pur troppo del pari, di guisa che Arun-el-Rascid già incominciava a star sul tirato e il nostro eroe si vedeva in un ronco, senza speranza di uscirne.

Il suo dramma era stato recitato ed era anche piaciuto discretamente ai popoli. Ma egli aveva lavorato per la gloria, la qual cosa vuol dire che non aveva buscato un soldo. E per giunta alla derrata, quel po' di gloria gli fruttò noie e grattacapi a bizzeffe. La Dora aveva detto corna del lavoro, e con parole di superbo dispregio, che a lui parve eccedessero i termini assegnati alla critica onesta. Si capisce che mandò subito i suoi padrini ai compilatori dell'ibrido giornale. Andarono questi e trovarono Ferrero, che rifiutò di battersi per un giudizio letterario. Povero a lui, diceva, se avesse dovuto dare soddisfazione sul terreno a tutti gli autori fischiati, o degni di esserlo! In quell'idea s'incocciò, nè ci fu verso di smuoverlo, neanche con qualche frase un po' dura. Quanto al contino Candioli, egli non poteva battersi che coi pari suoi, e Ariberto Ariberti era un plebeo. La teorica parve più codarda che superba al Priore, che, trovandosi in ballo, commise l'imprudenza di dare il suo conto giusto a quello sciocco vanaglorioso. Non lo avesse mai fatto! La sera di quel medesimo giorno, era chiamato ad audiendum verbum alla polizia, e lì, sui due piedi, mandato via da Torino. Straniero, con qualche marachella sulla coscienza, ce n'era d'avanzo per dargli lo sfratto.

Ariberti capì l'antifona. Era in un paese di prepotenti, e qualcosa poteva toccare anche a lui. Però stette zitto e divorò la sua rabbia. Intanto, la cacciata del Priore gli faceva perdere eziandio la speranza di qualche aiuto ne' suoi bisogni più urgenti. Perchè, come sapete, il Priore era generoso a' suoi giorni. Lui partito da Torino e senza timore che potesse tornare, incominciarono le chiacchiere sul conto suo e si venne a risapere che teneva il sacco ai banchieri del Ghetto e tirava in trappola i figli di famiglia; ma, dopo tutto, Tristano Falzoni non era un usuraio egli stesso, e se guadagnava male il denaro, sapeva poi spenderlo bene, rendendo anche qualche servizio ai merli spennacchiati per opera sua. C'era in lui, come si vede, il sentimento della restituzione; non lo si poteva dire in tutto, nè del tutto un malvagio… In altri tempi, e con più nobili occasioni, avrebbe potuto essere un eroe. Il tempo suo, la vita randagia, l'oziosità, l'amor dello spendere, il bisogno, ne avevano fatto un cavaliere d'industria.

L'accorta inglesina non ebbe a far molto, per avvedersi che il suo amante navigava in cattive acque. In verità, bisogna dire che ci sia proprio qualche cosa, intorno a noi e parte imponderabile di noi, la quale non si vede, come l'aureola dei santi nei quadri della vecchia scuola, ma si sente tuttavia e fa intendere l'animo nostro, indovinare gli arcani della nostra vita a cui meno vorremmo. Essa è qualche volta l'aureola della felicità e della gloria, qualche altra della miseria e dell'abbattimento. Si ha un bel nascondere questi segreti e custodirsi il volto con una maschera di bronzo; essi, quando non traspariscono, traspirano da noi. Inoltre ci sono nella vita di un uomo giorni di fortuna e giorni di disdetta; negli uni va tutto bene, anche il mal fatto; negli altri va tutto male, anche il più sapientemente architettato a fin di bene.

Ariberti era in uno di questi periodi; non gliene andava più una diritta. Però aveva perduto la serenità spensierata dell'animo; rideva ancora qualche volta, ma, in mezzo alle matte allegrezze, il suo spirito si arrestava in soprassalto, come se una voce interna lo richiamasse alle angustie, alle malinconie della sua condizione. Si aggiunga che la sua eleganza era sparita, o per meglio dire, aveva perduto ogni freschezza, ed egli faceva lo zerbinotto sugli avanzi del passato splendore; campava sui rilievi della sua propria mensa. Aveva incominciato a mettere un cordoncino di seta in luogo della catenella vistosa che gli ornava la sottoveste, venduto a mano a mano i ciondoli, le spille, i bottoni ed altri simiglianti gingilli. Un bel giorno anche l'orologio se ne andò al monte; segno (avrebbe detto qualche capo armonico dei cavalieri di Malta) che era annoiato di rimanere in pianura.

E proprio allora quell'inglesina del malanno incominciava ad aver mestieri ogni tanto di saper l'ora giusta. Per qualche giorno la tenne a bada con certe sue invenzioni; un po' era uscito senza orologio; un altro po' lo aveva dato ad aggiustare, e l'orologiaio, secondo il solito, non si faceva premura di renderlo, infine, menava il can per l'aia, o fingeva di non avere udito.

Intanto, i calabroni erano ricomparsi e le ronzavano a sciami d'attorno. Questa frequenza non si era più vista dopo la passeggiata notturna che ho raccontato più sopra; segno che l'inglesina tutta intenta ad irretire il giovinetto, aveva tenuti quei molesti invasori lontani dall'alveare. Come diamine si erano essi fidati di ritornare? Fiutavano anch'essi la chiusa del romanzetto, o rispondevano ad una chiamata? Ariberti non ne sapeva nulla, ma si adombrava di tutto. Il cattivo umore lo rendeva ancor più geloso che per sua natura non fosse.