Il Castello Della Bestia

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Il Castello Della Bestia
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Table of Contents

Books by Aurora Russell

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Book Description

Dedica

Capitolo Uno

Capitolo Due

Capitolo Tre

Capitolo Quattro

Capitolo Cinque

Capitolo Sei

Capitolo Sette

Capitolo Otto

Capitolo Nove

Capitolo Dieci

Capitolo Undici

Capitolo Dodici

Capitolo Tredici

Capitolo Quattordici

Capitolo Quindici

Epilogo

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L’Autrice

Totally Bound Publishing books by Aurora Russell

Single Books

The Au Pair and the Beast

Anywhere and Always

Falling for the Tycoon

Snowbound with the Billionaire

IL CASTELLO DELLA BESTIA

AURORA RUSSELL

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio e non devono essere considerati come reali. Qualsiasi riferimento a fatti realmente accaduti o a persone, in vita o defunte, è puramente casuale.

“Au Pair and The Beast” ©Copyright Aurora Russell 2021

Cover Art by Louisa Maggio ©Copyright February 2021

“Il Castello della Bestia” Traduzione Italiana ©Alessandra Maffioli 2021

Editing a cura di Chiara Vitali

ISBN: 978-1-80250-050-9

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere utilizzata, riprodotta elettronicamente o stampata senza autorizzazione scritta dell’Editore o dell’Autore, fatta eccezione per brevi citazioni inserite nelle recensioni.

Pubblicato nel 2021 da Totally Bound Publishing, Regno Unito.

Il nuovo lavoro di Veronica arriva corredato da un bambino adorabile, un castello gotico e... una bestia?

Veronica Carson, recentemente licenziata, viene raccomandata per un lavoro alla pari dall’elegante leader del suo gruppo di conversazione francese. Non è sicura di cosa aspettarsi, ma certo non un castello gotico nel profondo delle terre selvagge del Maine. Tuttavia, è subito attratta dal piccolo e gioioso Jean-Philippe, il bambino di cui dovrà occuparsi, ma ancora di più dal suo cupo padre.

Alain Reynard, uomo d’affari di successo e senza scrupoli, ha già amato in passato e non desidera ripetere la dolorosa esperienza. La tragedia del suo recente passato è ancora fresca nella sua mente, e non vuole avere niente a che fare con la nuova e bella ragazza alla pari di suo figlio. Nonostante i suoi sforzi, però, non riesce a togliersela dalla testa.

Una storia d’amore appassionata comincia a sbocciare, ma viene messa alla prova quando i dolorosi ricordi del passato di Alain tornano a farsi vivi. Mentre girano brutte voci, le verità del passato e del presente si scontrano. Veronica deve decidere se Alain è davvero una bestia e, se è così, lei potrà amarlo abbastanza da spezzare gli oscuri ricordi e i segreti che lo legano al passato?

Dedica

Per la mia bestia, e per i nostri due bellissimi, energici, sciocchi ragazzi. E poi, per il resto della mia meravigliosa famiglia e amici, ma soprattutto per mio padre e la mia matrigna, i miei più grandi fan e sostenitori in tutto ciò che faccio. Infine, per mio fratello e mia cognata.

Forse siamo sempre stati destinati a essere una famiglia, ma sono davvero grata che abbiamo scelto di essere anche amici.

Capitolo Uno

«Aspetta ... sta mandando la sua macchina con l’autista a prenderti alla stazione dei treni? Per portarti al suo castello? Che cosa squisitamente gotica!! Probabilmente quel maniero si trova in alto su qualche scogliera, con una vista incredibilmente pittoresca delle onde che si infrangono sulle rocce.»

Veronica accennò un sorriso alle parole di Katrin che crepitavano attraverso il suo cellulare, la cui ricezione sembrava andare e venire mentre lei proseguiva il suo viaggio. La sua migliore amica aveva una spiccata attitudine al dramma, perfezionata grazie a un certo numero di lezioni di teatro al college.

«Beh, se la metti così... in effetti sembra piuttosto intrigante» concordò Veronica ridendo. «Se è così, ti manderò sicuramente una foto del panorama, con tanto di nebbia e spruzzi del mare.»

La risatina di risposta della sua amica risuonò divertita. «Come fa la signora Montreaux a conoscere questo tizio?»

Ripensandoci, Veronica non era sicura che la donna che guidava il suo gruppo di conversazione francese glielo avesse mai spiegato... non nello specifico, comunque. «È stato strano. Non ne sono sicura... un giorno mi ha preso da parte, al termine di una riunione del nostro gruppo di conversazione, e mi ha detto di aver sentito parlare di un lavoro per il quale pensava che sarei stata perfetta, sai, dato che sapeva che avevo perso il mio lavoro dopo l’acquisizione della Dumfries & Partners. Ho avuto l’impressione, forse dal tono della sua voce o qualcosa del genere, che lui sia una specie di amico di famiglia, ma è stata molto vaga nei dettagli.» Tamburellò le dita sul bracciolo mentre rifletteva. «Ho dovuto firmare un accordo di riservatezza prima ancora che mi mandassero la descrizione del lavoro.»

«Hmm-mm.» Quell’unico breve verso della sua amica sembrava riflettere scetticismo e sospetto. «Quanti anni hanno i bambini?»

«Solo uno. Un maschietto. Penso che abbia quattro anni... Non va ancora a scuola, ma frequenta l’asilo.»

Veronica osservò il paesaggio sempre più rurale e boscoso che sfrecciava fuori dal finestrino. La giornata era grigia e uggiosa, ma la bellezza delle terre selvagge del Maine era ancora innegabile. La voce automatizzata, ben modulata e incredibilmente femminile dell’annunciatrice, giunse dagli altoparlanti.

“Siamo in arrivo a Grant’s Cliff. Grant’s Cliff è una fermata a richiesta. Per favore avvisate il controllore, se dovete scendere.”

L’eccitazione e il nervosismo si combinarono in un’unica potente scintilla che scatenò un turbinio di farfalle nello stomaco di Veronica, proprio mentre si alzava e iniziava a raccogliere le sue cose.

«Scusa, K... Devo andare. Hanno appena annunciato la mia fermata. Ti chiamo più tardi, okay?»

«Sì! Chiama, invia un messaggio, qualsiasi cosa... Aspetterò con impazienza di sapere che non ti hanno incatenata nel seminterrato di questo tizio, o nelle segrete. In ogni caso, stai attenta! E buona fortuna!»

Sostenendo il telefono tra la spalla e la guancia, Veronica scoppiò in una risata che risultò smorzata, mentre prendeva la borsa dalla cappelliera. «Grazie!»

«Quando vuoi! Ciao!»

«Ciao.» rispose Veronica, lasciando cadere la borsa sul sedile e sfiorando lo schermo del suo cellulare per terminare la chiamata. E, a quanto pareva, lo aveva fatto al momento giusto, visto che catturò l’occhiata del controllore e il treno cominciò a rallentare. Lei gli aveva comunicato in precedenza dove sarebbe scesa, ed era contenta di averlo fatto, perché sembrava che nessun altro avesse intenzione di muoversi. Evidentemente Grant’s Cliff non era una destinazione popolare.

«Da questa parte, signorina.» Il volto segnato dalle intemperie del capotreno si increspò in un sorriso gentile, quando le fece un cenno con una mano indurita dal lavoro.

«Grazie.» Lei gli restituì il sorriso e fece scivolare la tracolla della valigia di traverso sulla spalla, spostandola poi sulla schiena in modo da potersi affrettare lungo il corridoio centrale più facilmente. «Sono l’unica a scendere?»

 

«Esatto» rispose lui con il suo marcato accento del Maine. Lei pensò che il capotreno non avrebbe aggiunto altro, ma mentre usciva dalla porta aperta sul piccolo marciapiedi, lo sentì aggiungere: «Non c’è molto qui fuori al giorno d’oggi, a parte il castello e la bestia.»

Sorpresa, Veronica si voltò, ma le porte si erano già chiuse con un fruscio e il treno aveva iniziato a ripartire. Va bene, forza.

Si voltò e osservò la stazione deserta. Si trattava più che altro di una piccola costruzione, posta accanto a una piattaforma di cemento con dei gradini che portavano a essa. L’insegna di metallo con il nome della stazione non era più grande di un cartello stradale e sembrava consumata dalle intemperie. La giornata uggiosa aveva lasciato il posto alla nebbia, e ora che il treno era ripartito, l’unico suono era il sussurro ovattato del vento tra migliaia di alberi. Dove diavolo è l’autista? si chiese. Anche mentre si guardava intorno, metà della sua mente era ancora concentrata sulle strane parole del capotreno. Cosa intendeva con la bestia? Perché nessun altro gliene aveva parlato? Si trattava forse di un centro nevralgico per i cacciatori di Sasquatch? O il territorio di un feroce grizzly? Un attimo! C’erano dei grizzly nel Maine, per caso? Era convinta che ci fossero solo orsi bruni. Tuttavia, anche un orso bruno avrebbe potuto sicuramente passare per una bestia selvaggia.

Quando la mano gentile di qualcuno le toccò la spalla, strappandola dai suoi pensieri, urlò e balzò a un metro da terra.

«Mademoiselle Carson? Veronica Carson?» L’accento dell’uomo di mezza età era inconfondibilmente francese e pronunciò il suo nome Vehr-oh-nee-ka. Lei si portò rapidamente la mano sul collo, dove il suo battito era ancora accelerato.

«Sì» annuì, leggermente senza fiato. «Mi dispiace tanto. Non l’ho sentita arrivare.»

L’uomo, che indossava un abito scuro e persino un berretto da autista, sorrise con comprensione. «La nebbia. Quando è così fitta, beh... è tutto più ovattato.»

«Certo, ha senso.» Lei si sentì sollevata da una spiegazione così semplice.

Lui le porse la mano. «Claude Hormet, al servizio di Monsieur Reynard da molti anni.»

Veronica tese la sua, e ricevette una solida stretta di mano. «Piacere di conoscerla, Monsieur Hormet.»

Il sorriso dell’uomo si allargò alla pronuncia del suo nome, e le sembrò di vedere una certa sorpresa balenare nei suoi occhi «È un vero piacere conoscerla, Mademoiselle. Ci era stato detto che parlava bene il francese e posso confermarlo, se non le dispiace che lo dica.»

«Grazie. È molto gentile da parte sua. Sarei felice di cambiare lingua, se lo desidera, così potrebbe davvero giudicare.»

Monsieur Hormet sorrise di nuovo. «Mi piacerebbe, magari più tardi. Per ora la accompagno allo château.»

Le prese la borsa e la condusse a una berlina Lincoln nera e lucida che sembrava in perfette condizioni nonostante dovesse avere almeno trent’anni. Le aprì la portiera posteriore, e quando lei si accomodò sul sedile, le fece un piccolo inchino prima di richiuderla. Non sentì nemmeno il baule chiudersi dopo che lui ci ebbe messo dentro la valigia, e quando cominciarono a muoversi, il viaggio fu così tranquillo che le sembrò di fluttuare.

Monsieur Hormet non parlò più, e intuendo che forse sarebbe stato considerato troppo informale per lei iniziare una conversazione, anche Veronica rimase in silenzio. Invece, tirò fuori la cartellina con una copia del suo curriculum e una lista di referenze. Riesaminò di nuovo i suoi appunti, ma erano piuttosto scarsi. Dalle poche informazioni che avevano accompagnato la descrizione dell’impiego, non sapeva molto di quell’offerta e nemmeno del suo futuro datore di lavoro, a parte il suo cognome, così provò di nuovo nella sua testa quello che avrebbe potuto dire in merito alle sue esperienze professionali.

Era così immersa nei suoi pensieri, a suo agio sulla sontuosa pelle dei sedili, che non alzò lo sguardo finché la macchina non iniziò a rallentare. E allora…Wow. La dimora che si profilò davanti a lei era davvero un castello, fatto di pietra con torri e torrioni. Se ci fosse stato un fossato e non si fosse trovata nel Maine, non si sarebbe sorpresa se qualcuno le avesse detto che era di epoca medievale.

Doveva essere trasalita per la sorpresa, perché Monsieur Hormet catturò il suo sguardo nello specchietto retrovisore.

«Ah, le château è bello, vero?»

Osservando le linee della massiccia struttura, Veronica notò che erano anche sorprendentemente delicate. Anche se grande, era anche un capolavoro architettonico, equilibrato ed elegante. Cercando ancora di abbracciare con lo sguardo ogni parte dello château, rispose con entusiasmo: «Oh sì, assolutamente stupendo!»

Si fermarono proprio davanti ai gradini, e Monsieur Hormet si avvicinò per aiutarla a scendere dalla macchina. L’aria che le accarezzò il viso era più fresca di quella umida e pesante della stazione, e trasportava l’inconfondibile sapore salmastro dell’oceano. Curvò le labbra in un piccolo sorriso quando percepì il lontano infrangersi delle onde sulle rocce. Katrin sarebbe stata felicissima di sapere che la sua ipotesi era stata, almeno in parte, corretta.

«Se vuole seguirmi, Mademoiselle, la accompagno nel salone.» Monsieur Hormet diede un’occhiata alle finestre anteriori e indicò un piccolo movimento all’interno. «Eveline farà sapere a Monsieur Reynard del suo arrivo.»

Piegando il collo nel modo più discreto possibile per guardarsi intorno, Veronica lo seguì su per un gran numero di gradini di pietra, ed entrò nello château. Riuscì solo a intravedere l’enorme atrio d’ingresso prima di percorrere un ampio corridoio che conduceva in una stanza che sembrava una specie di salotto formale. C’erano diversi posti a sedere intorno alla stanza, e lui le fece cenno di accomodarsi su una poltrona dallo schienale diritto, nel gruppo più vicino alle finestre. Anche con la nebbia, si poteva comunque capire che le finestre affacciavano sull’oceano, una distesa grigio-verde di acqua gelida dell’Atlantico; la vista sembrava più maestosa che invitante, e le piaceva molto.

Combattendo l’impulso di premere il naso contro le vetrate, si sedette su una sedia in quello che sperava fosse un atteggiamento professionale e dignitoso. Prese di nuovo la cartellina e attese. C’era un orologio decorato e dorato, che sembrava un’antichità che sarebbe stata perfetta per il museo d’arte di Boston, e il suo ticchettio risuonava nella stanza altrimenti silenziosa. Al click della maniglia della porta che girava, balzò in piedi e si voltò per salutare la persona che le avrebbe fatto il colloquio. La figura che entrò era considerevolmente più bassa e più veloce di quanto si fosse aspettata, però.

Mentre si precipitava verso di lei a tutta velocità, Veronica vide un bambino con una massa di capelli biondo dorato, occhi azzurri e guance rosee indice di buona salute. Il suo viso felice era illuminato da un enorme sorriso. Veronica si preparò per un possibile impatto, ma il bimbo si fermò bruscamente proprio di fronte a lei e la squadrò con curiosità.

«Sei carina» disse in francese, «ma non mi piace il tuo cappotto. Mi hanno insegnato a non dire “mi fa schifo” o “brutto”.» La guardò in attesa.

Veronica soffocò una risata, lanciando uno sguardo al suo cappotto. Era un capo che aveva acquistato per i colloqui, e interiormente concordava che non fosse la cosa più attraente che possedeva, ma si trattava più di una questione di praticità che di moda. Ma comunque...

«Sembra che tu sia stato attento, allora» rispose in francese, aggirando la domanda. Posò sulla sedia la cartellina che teneva ancora in mano, e si accovacciò in modo da essere all’altezza degli occhi del bambino. «Come ti chiami? Io sono Veronica.»

«Jean Philippe. Yvette dice che sei qui per prenderti cura di me, ma solo se piacerai a papà. Maman non c’è più. È morta. Anche il nostro cane è morto. A volte sono triste e piango, ma papà dice che va bene.» Il cuore di Veronica si strinse a quelle parole ingenue, ma dovette sopprimere un’altra risata per quello che lui aggiunse dopo. «Mi hai portato un regalo? Papà mi porta sempre un regalo e lo nasconde in una delle tasche. Anche oncle Marius. È per questo che indossi quel cappotto, per nascondere i regali?» le chiese, osservando il suo abbigliamento con più entusiasmo.

«È un piacere conoscerti, Jean-Philippe» rispose Veronica, poi scosse la testa con rammarico. «Non ero al corrente di questa usanza, quindi oggi niente regali, ma prometto che, se rimango, ti porterò qualcosa la prossima volta che vado in città. Sei d’accordo?»

Lui dondolò la testolina mentre annuiva, i suoi bei capelli biondi luccicarono nonostante la luce fioca di quella giornata uggiosa. «Va bene» concordò. «Spero che tu vada presto in città.»

Quella volta Veronica non avrebbe potuto nascondere il suo sorriso nemmeno se ci avesse provato, quindi non se ne preoccupò. Un altro rumore le fece alzare di nuovo lo sguardo verso la porta, dove notò una giovane donna leggermente preoccupata. Il suo petto si alzava e si abbassava rapidamente, come se avesse corso. Indossava una specie di uniforme, non quella bianca e nera tipica del personale di servizio, ma qualcosa fece pensare a Veronica che potesse essere una domestica o una governante. Lo sguardo che quella donna rivolse a Jean-Philippe era un misto di esasperazione e affetto.

L’uomo entrato subito dietro di lei, però, fece scattare Veronica in piedi e la costrinse a raddrizzare la schiena. Era alto, probabilmente vicino ai due metri, e le spalle e il petto erano ampi e muscolosi. Indossava un abito che doveva essere stato fatto su misura per adattarsi così bene alla sua figura imponente, ed emanava un’aura di puro potere. Sicuro di sé. Avrebbe dovuto essere cieca o completamente incurante per non essere consapevole della prestanza di un uomo simile.

Nonostante la sua stazza e la sua stessa presenza sembrassero riempire la stanza, fu il suo viso ad affascinarla davvero. I capelli scuri e ondulati incorniciavano il volto più attraente che avesse mai visto. Non avrebbe potuto definirlo bello, il suo naso romano era un po’ troppo prominente, ma i suoi lineamenti erano virili, forti e assolutamente stupefacenti. Notò, anche da quella distanza, che i suoi occhi erano di un marrone intenso come il cioccolato fondente fuso, incorniciati da spesse ciglia scure, e sembravano scrutarla dentro dall’altra parte della stanza. Sentì la pelle d’oca salirle sulle braccia e sul collo, e non riuscì a distogliere lo sguardo.

Quando lui cominciò a muoversi, qualsiasi incantesimo l’avesse stregata si ruppe. Con stupore, notò che camminava appoggiandosi a un bastone con passi misurati e che sembravano celare un dolore nascosto.

«Oh, Monsieur, mi dispiace tanto. È scappato via, quando invece avrebbe dovuto seguirmi» si scusò la giovane donna con l’uomo che Veronica immaginò fosse Monsieur Reynard.

Lui inclinò leggermente la testa e, sebbene il suo viso fosse rimasto impassibile, Veronica vi scorse una certa indulgenza.

«Capisco, Yvette. Puoi tornare al tuo lavoro.» Il suo tono era profondo e tenebroso, roco. Si diffuse attraverso la stanza silenziosa, riempiendo ogni angolo, anche se parlava a bassa voce.

La giovane donna fece un piccolo inchino e uscì in fretta dalla stanza con gratitudine, lasciando soli Veronica, Jean-Philippe e Monsieur Reynard.

«Papà!» esclamò il ragazzino, confermando l’ipotesi di Veronica sull’identità dell’uomo. Lo vide fare una smorfia quasi impercettibile quando il suo bambino gli andò a sbattere contro una gamba in una dimostrazione di affetto infantile.

«Vedo che hai incontrato la signorina Carson, figliolo» disse guardando Veronica, mentre arruffava la fine capigliatura del bimbo.

«Oh sì! Ti piace? Può rimanere?»

La domanda cadde pesantemente nella stanza silenziosa, e Veronica si voltò per prendere di nuovo la cartellina.

«Ho portato una copia del mio curriculum e un elenco di referenze...»

«Non ce n’è bisogno» la interruppe Monsieur Reynard, facendo un gesto con la mano come per scacciare le sue parole. «Ho visto abbastanza. Il lavoro è suo.»

La bocca di Veronica si spalancò. «Io, uh ... ci siamo appena conosciuti.»

Lui sollevò le sopracciglia scure. «È vero.»

Lei scosse la testa. Perché era così turbata? Santo cielo, di solito era più spigliata di così! «Voglio dire, non mi ha fatto il colloquio. Non vuole sapere... di più?»

L’uomo si strinse nelle spalle e inclinò la testa di lato. «Mademoiselle, sono conosciuto per essere un ottimo giudice del carattere delle persone, con pochissime eccezioni. È ciò che mi ha reso un uomo di successo. Jean-Philippe ha bisogno di qualcuno che sia bravo con i bambini, esperto e parli francese. Da quello che ho potuto sentire, lei possiede questi requisiti.»

 

Veronica avvertì un caldo rossore salirle dal collo, dritto alle guance e poi fino all’attaccatura dei capelli. Per qualche ragione l’idea di non conoscere nulla di quell’uomo, con la sua soverchiante personalità, la rendeva oltremodo agitata. «Stava ascoltando?» chiese con un tono di voce che, si congratulò con se stessa, apparve quasi normale.

Lui si strinse nelle spalle in uno stile meravigliosamente mediterraneo. «Non di proposito, ma la porta era socchiusa e le voci sono arrivate al corridoio.»

Ripensando alla sua conversazione con Jean-Philippe, Veronica non riuscì a capire cosa avesse potuto dire, per giustificare quella immediata accettazione. «E ho detto abbastanza per darle questa sicurezza?»

Se aveva pensato di aver superato lo shock iniziale riguardo alla bellezza di lui, come qualcuno che dopo essere saltato nell’acqua fredda inizia ad acclimatarsi, aveva torto. Quando rivolse su di lei tutta la forza dei suoi occhi scuri e profondi e alzò gli angoli della bocca in quello che avrebbe potuto essere l’inizio di un sorriso, lei dovette quasi riprendere fiato. Sentì la pelle d’oca sollevarsi di nuovo sulle braccia.

«Ha superato il controllo delle referenze a pieni voti e deve essere consapevole che il suo accento è perfetto. Ma, soprattutto, non ha perso un colpo, quando mio figlio ha insultato il suo ehm... ensemble.» Indicò con tatto il vestito e lei aprì la bocca per l’indignazione, solo per richiuderla di scatto alle parole che lui pronunciò di seguito. «Credo davvero che lei sia una giovane donna di buon senso, pazienza e gentilezza. Queste sono le qualità che apprezzo più di tutte le altre.»

Le sue lodi la riscaldarono, ed erano così vicine a descrivere il tipo di persona che lei sperava di essere, che Veronica sentì come se un altro pezzo si fosse incastrato in quella connessione che stava iniziando a sentire con lui.

«Grazie. In tal caso, accetto il lavoro.» Lui non ricambiò il suo sorriso, ma a lei sembrò che suoi occhi si fossero leggermente increspati agli angoli.

«Chiederò a Monsieur Hormet di portarle i documenti. Vieni, Jean-Philippe» disse lui, voltandosi e dirigendosi verso la porta con passi lenti e misurati, con un’andatura che lei sospettò dissimulasse un dolore molto ben nascosto. Jean-Philippe lo superò per correre fuori dalla porta prima di suo padre.

Tutto considerato, Veronica fu davvero soddisfatta e sollevata di aver evitato lo stress di un vero e proprio colloquio, poi udì le ultime parole di Monsieur Reynard prima che lasciasse la stanza.

«Che sollievo incontrare una giovane donna che non si preoccupa troppo del proprio abbigliamento.»