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Naja tripudians

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XXVIII

Traversò la stanza da pranzo, fiocamente illuminata, e si trovò nella vasta sala d'entrata, illuminata anch'essa da varie luci velate di rosso. Tutto era silenzioso; un lungo corridoio sbadigliava nero davanti a lei, conducendo forse alle camere di servizio, ma nessuna voce, nessun passo si udiva; nulla se non il lento e ritmico battito della grande pendola nell'angolo accanto all'ingresso. Mentre Myosotis, incerta, si guardava intorno, la grande pendola suonò con rintocchi profondi di cattedrale, le undici.

Con un senso di smarrimento indicibile Myosotis si avviò verso la scalinata, passando tra i putti di marmo biancheggianti nella penombra, reggenti le loro lampade ormai spente.

Giunta al primo piano passò davanti al salone dove gli ospiti di Lady Randolph si erano radunati prima del pranzo; era buia e vuota; e bui e vuoti erano i corridoi che a destra e a sinistra si allungavano come braccia nere tese verso l'oscurità. Col fiato breve, col cuore in tumulto, Myosotis salì al piano superiore e spinse la porta della sua camera da letto. Questa era vivamente rischiarata; tutte le lampade color d'ambra erano accese e un gran fuoco ardeva nel caminetto, illuminando vivamente i turgidi cuscini di raso gettati sulla pelle d'orso davanti al focolare.

E Myosotis, ferma sulla soglia davanti a tutto quel chiarore, davanti a tutto quello sfarzo aspettante.... ebbe un nuovo sussulto d'infinita paura. Ebbe più paura che nei corridoi tetri, che nelle stanze buie e misteriose....

Paura!… Paura – di che cosa?

D'un tratto, portentosa e trasecolante, come un velo strappato da mano violenta, ella ebbe la rivelazione fulminea della propria ignoranza. Come un cieco-nato a cui una folgore istantanea dia la percezione della sua cecità, così un lampo di chiaroveggenza squarciò improvviso la tenebra in cui lo spirito della fanciulla era sommerso.

Fino a quest'istante ella aveva ignorato che ignorasse qualcosa: innocente di essere innocente, ignara della sua inconsapevolezza. Ma ecco che d'un tratto ella percepì di essere chiusa nel suo candore come in una prigione, avvolta dalla sua ingenuità come da una fitta nube, in cui disperatamente il suo spirito si dibatteva. L'istinto – folgore illuminatrice – aveva squarciato la sua notte, per rivelarle.... che cosa?

L'oscurità!

Colle mani strette alle tempia cercava di ragionare.

Aveva paura. Ma di che cosa?… L'oscura prescienza di un orrore ignoto le pareva più terribile di ogni altro terrore.

Aveva paura. Paura di questa gente. Ma perchè?

Non erano forse persone come tutte le altre? Persone ricche, persone vestite bene, persone affabili e sorridenti? Non erano già dei ladri che s'incontrano di notte per la strada, non già dei criminali feroci, o dei malati il cui contatto è letale.... Di che cosa, di che cosa dunque aveva essa questa paura insensata, frenetica?

Con tonante voce, l'Istinto, l'oscura guida, le rispose:

– Fuggi!

Fuggire! Sì, sì! fuggire! Prendere Leslie, chiuderla nelle sue braccia, trascinarla via!… Via? Dove? di notte, in questa immensa terribile città sconosciuta? Non importa! Via! via! nel buio, nella notte, nell'ignoto, ma via di qui.

Dabbasso qualcuno si era rimesso al pianoforte e suonava una gioconda barcarola di Schumann. Quella musica calmò per un attimo l'agitazione di Myosotis.

– Mio Dio! – pensò essa, – non è possibile che questa gente ci voglia trattenere contro la nostra volontà!… voglia obbligarci a restare per forza....

Pur mentre lo pensava cominciava a dubitarne.... e il terrore la riprese più forte.

– Fuggite! fuggite, – urlava il cieco Istinto, – ponetevi in salvo! Gettatevi entrambe dall'alto di quel ponte sopra le nere acque del Tamigi.... Questo è ancora salvarvi!

Ma come fuggire? Myosotis sentì che bisognava chiamar gente, invocare un aiuto dal di fuori.

Traversò precipitosa la stanza e andò a una delle grandi finestre davanti a cui pendevano, risplendenti e arabescate, le tende di broccato. Le scostò. E subito Myosotis si sentì riconfortata.

Pensò: Adesso passerà gente; io chiamerò e quelli si fermeranno. – «Cosa c'è?» – Venite, venite!… Salvateci! – «Salvarvi? Da chi? Da che cosa?»

E come avrebb'ella risposto?

Non importa. Bisognava aprire e chiamar gente.

Ma ecco che, scostata la tenda, si avvide che la finestra era saldamente chiusa da un'imposta, un'imposta quale Myosotis non ne aveva mai vedute; tutta d'un pezzo e interamente ricoperta da una spesso strato di feltro. Ella non vedeva nè come era chiusa, nè dove ne era il serrame. Cercò di scuotere l'imposta.... vi battè col pugno con quanta forza aveva, ma la sua mano cadeva senza alcun suono sulla spessa superficie felpata.

Myosotis si sentì mancare. Ma dunque.... erano veramente prigioniere, lei e Leslie! Ma dunque in questa camera, anche se avessero gridato e strepitato, nessuno dal di fuori le avrebbe udite? Nessuno sarebbe venuto in loro soccorso?

Fremendo, gemendo, mordendosi i pugni Myosotis corse all'altra finestra: era chiusa nello stesso modo. Allora si slanciò nella camera attigua – la camera color di rosa, la camera di Leslie....

E anche qui, dietro le tende di raso bianco a fiorami rosa, vi era la grande imposta ricoperta di feltro ed ermeticamente chiusa.

Allora Myosotis alzò le mani al cielo.... e si sentì morire.

Udì un passo, lieve, smorzato dal tappeto. Si volse e vide sulla soglia la cameriera, la vecchia cameriera dagli occhi di cane e di volpe....

Calma, corretta, composta, col suo grembiule bianco ricamato e la cuffietta candida sui capelli inargentati, chiese con voce ossequiosa:

– Posso aiutarla a vestire, signorina?

Myosotis non rispose. La guardò; le fissò in viso i suoi occhi terrorizzati; e la donna rispose a quello sguardo collo sguardo tranquillo di serva ben disciplinata.

Myosotis si guardò intorno, indi si avvicinò alla donna, si chinò verso di lei col volto terreo, colle labbra bianche, e sussurrò:

– Ho paura!

La donna non si mosse e non rispose.

– Ho paura! – ripetè Myosotis senza respiro.

Allora anche la donna si guardò intorno cauta, e, visto ch'erano sole, tentennò il capo.

– Poverina! – disse. – Lo capisco.

XXIX

Lo capiva!… Quella donna lo capiva!…

A Myosotis parve di non avere che in quell'istante conosciuto il terrore. In fondo al suo cuore aveva sperato che quella non la comprendesse; si aspettava che dicesse:

«Paura? Ma di che cosa?».

Ma la donna.... aveva capito.

Allora con un grido sommesso Myosotis le afferrò le mani, le vesti, aggrappandosi a lei convulsa. Ma subito la serva si divincolò dalla sua stretta, e indietreggiando verso l'uscio, coll'indice sulle labbra, fece cenno a Myosotis di tacere; indi sparì, rapida come un'ombra, dietro le tende che drappeggiavano la porta d'uscita sul corridoio.

Perchè, perchè era fuggita così?

Myosotis si volse e sulla soglia della camera rossa vide Neversol che la guardava.

Lungamente egli contemplò quella figuretta atterrita, come un serpente fissa l'occhio ipnotizzante sull'uccelletto che sarà sua preda. Indi con un sorriso si avanzò, tendendole ambo le mani.

Ma in quell'istante un grido, un grido stridente, acutissimo risuonò per la casa.

Era la voce di Leslie. Il cuore di Myosotis si fermò.

Con un balzo fu fuori della stanza e nel corridoio e giù per la scala. Ma più di lei fu rapido Neversol; la raggiunse sul pianerottolo e con una ferrea stretta sul braccio la fermò.

– Lasciate stare.... – diss'egli, ansando un poco, – lasciate stare!… Ormai.... è inutile!

Myosotis lo fissò sbalordita, con gli occhi sbarrati, colla bocca aperta.... non poteva parlare....

– Andiamo! tornate su, – disse lui, spingendola davanti a sè e forzandola a risalire qualche gradino.

Myosotis parve ubbidire, indi con uno strappo subitaneo che sembrava doverle rompere il braccio, si svincolò da lui e balzò giù per la scalinata. Come una freccia traversò l'anticamera, la sala da pranzo, e spalancò l'uscio del salone. Vide subito Leslie, seduta sul divano accanto a Lady Randolph.

Era appoggiata indietro tra i cuscini e aveva gli occhi socchiusi. La piccola bocca rosea era semiaperta, e il suo viso non esprimeva nè terrore nè angoscia. Myosotis vide che intorno alle narici e sulle labbra aveva qualche traccia di polvere bianca.

Perchè aveva gridato? E che cosa le avevano fatto per calmarla così? Myosotis rimase un istante immobile accanto all'uscio; poi s'avviò trepida verso la sorella fissando in quel viso di bambina assonnata i suoi sguardi esterrefatti.

Dormiva, Leslie? Dormiva?…

No. Tra le palpebre semiabbassate, le pallide iridi celesti guardavano Myosotis; la guardavano, senza luce, senza espressione.

Misericordioso Iddio! che cosa avevano fatto a Leslie?

Myosotis la chiamò per nome; ma quelle iridi pallide, quelle pupille velate non ebbero un tremito.

Fu Lady Randolph che rispose. Sollevandosi dai cuscini disse con voce aspra a Myosotis: – Lasciatela stare. È stanca. – E col suo braccio nudo e profumato cinse il collo della fanciulletta. A Myosotis parve di vedere la sorellina chiusa nelle spire di una mostruosa serpe bianca.

Si guardò intorno, frenetica; sentiva d'impazzire. Incontrò lo sguardo dell'uomo grigio, seduto sul divano dall'altro lato di Leslie; vide Totò al pianoforte colla testa rovesciata all'indietro che suonava come un sonnambulo, con un vago sorriso sulle labbra; e, chino sopra di lui, l'uomo dai capelli rossi che canticchiava.

E laggiù, fermo sulla porta, stava Neversol.

Allora nacque in lei l'astuzia, l'astuzia femminile.

Fissando lo sguardo su Neversol, tornò rapida e tremante a lui e gli toccò la mano con una lieve carezza della sua piccola mano diaccia.

 

– Chiamate Lady Randolph! – sussurrò. – Allontanatela da mia sorella.... ch'io possa parlarle....

Neversol le affondò negli occhi le sue cupe pupille.

– E poi?… Sarete buona?…

Myosotis rispose a quello sguardo col vergine sguardo celeste.

– E poi.... sarò buona, – disse.

Neversol traversò a lunghi passi la sala e senza indugio prese pel braccio Lady Randolph.

– Venite via. Ho da parlarvi, – disse.

Milady lo guardò, stupita, quasi non comprendendo, ed egli ripetè in tono perentorio la sua richiesta.

Lady Randolph, sciogliendosi da Leslie – che rimase immobile nel suo atteggiamento di torpore tra i cuscini – si alzò e seguì il giovane nella sala da pranzo.

Allora Myosotis corse ad afferrare le mani inerti della sorella; e le sentì molli e sudate.

– Leslie!… Leslie!

A sua meraviglia, subito la fanciulletta si raddrizzò come desta da un sogno.

– Cos'hai? cos'hai?… dormivi? – ansò Myosotis. – Rispondimi! Parla!

Leslie si rizzò, tutta lunga e flessuosa, con una strana mossa di leggerezza ed elasticità; e si guardò intorno con gli occhi brillanti. Poi d'un tratto fissò in volto la sorella:

– Andiamo via – disse.

Lo disse con voce così piana e strana che Myosotis credette di aver mal compreso.

– Andiamo via, – ripetè Leslie sempre con quell'aria fra l'allucinato e il sonnambulesco.

In quel momento Totò e l'uomo rosso, dal pianoforte si volsero a guardarle.

– Biondine, biondine! Cosa complottate – gridò l'uomo rosso. E rise.

E subito rise anche Leslie, d'un riso strano, d'un riso di bambina e di baccante.

Myosotis impietrita di stupore la guardò, ma ella non cessò di ridere anche quando i due uomini ebbero ripreso a far musica.

– Ma Leslie! Leslie!.... Non hai gridato? – ansò Myosotis. – T'ho pur sentito gridare?… Perchè?

– Perchè?…

Leslie aggrottò le ciglia cercando di raccogliere i suoi pensieri.

– Aspetta.... sì. Ho gridato, – balbettò, tremula e incoerente. – Volevo seguirti, ma lui.... – additando Totò – non ha voluto. Mi ha chiuso la bocca con una mano, e coll'altra.... mi ha fatto fiutare di quella polvere.... non so, mi ha chiuso la bocca.... soffocavo.... ho respirato.... e la polvere m'è entrata nelle narici.... Allora ho gridato....

Sempre collo sguardo vacuo e scintillante, Leslie si toccava la faccia, la fronte, la bocca.

– È strano.... ho qui un senso strano.... Non sento più niente.... come fosse tutto tramortito… – Fece qualche passo avanti, dei passi lunghi e lievi: – E poi, quando cammino.... non so.... mi pare di camminare sull'ovatta.... già! mi pare di camminare su tante morbide nuvole d'ovatta....

E rise di nuovo, con quel riso stravagante che a Myosotis gelava il sangue nelle vene.

– Leslie! Leslie! – singhiozzò quella; e le lagrime le sgorgarono dagli occhi.

Leslie si scosse. La vista di quel pianto parve ricondurla in sè. Improvvisamente si piegò verso Myosotis.

– Chiama aiuto! – disse con voce ansante, – chiama aiuto. Fa presto!

– No! Ti porto via con me, – esclamò Myosotis, disperata, tentando di trarla verso l'uscio.

– È inutile! è inutile.... Non mi lasciano uscire di qui! – sussurrò Leslie, febbrile e rapida. – Se a te riesce di uscire, va! Chiama aiuto!

Myosotis ristette un attimo a guardarla, indi si slanciò verso la porta della sala da pranzo; ma si trattenne a tempo ricordandosi che ivi si trovavano Neversol e Lady Randolph. Rapida e silenziosa tornò indietro e corse verso l'altra stanza, la stanza quasi buia dove stava sdraiato Dafne Howard.

Sulla soglia si volse ancora un attimo a riguardare Leslie. La fanciulletta pareva dormire, riversa nelle sue chiome sciolte che l'ammantavano di luce fino ai ginocchi.

Aveva gli occhi chiusi. E sorrideva.

XXX

In un balzo Myosotis traversò quella stanza crepuscolare che l'oppio riempiva di un vapore denso e dolciastro, e, scansando la lunga figura supina, aprì l'uscio e si trovò in un corridoio che dava nella sala d'ingresso.

E là, nell'anticamera, seduta accanto al focolare, calma, corretta e composta, stava la vecchia cameriera, pronta ad aprire la porta agli illustri ospiti attesi.

Myosotis non pronunciò sillaba; cogli occhi stralunati, colle braccia tese come ad invocare da lei il silenzio, le passò dinanzi e strisciò, silenziosa come un'ombra, verso la porta d'ingresso. Con frenesia cercò la serratura....

La donna non si mosse; il suo sguardo acuto seguiva le movenze di quella figuretta brancolante intorno al chiavistello, poi i suoi occhi vagavano verso l'uscio socchiuso della sala da pranzo donde giungevano, in un sommesso mormorio, le voci di Lady Randolph e di Neversol.

Myosotis in preda a un terrore folle sentì che non poteva aprire la porta.

Allora ritraversò l'anticamera e cadde a ginocchi davanti a quella donna. Senza pronunciare una parola – per paura che la udissero! – la implorò, la scongiurò, afferrandole le mani, premendosele al cuore, agli occhi, alle labbra.... muta invocò Iddio e i Santi a commuoverla, a toccarle l'anima....

Ed ecco che alfine, rigida, sonnambulesca, quasi mossa da una forza superiore al suo volere, quella donna si alzò.

Andò alla porta. Colle mani esperte e silenziose premette, sospinse, girò....

La porta era aperta!

XXXI

Fuori, fuori.... libera, nel buio, nella nebbia.... Fuori a cercare aiuto e salvezza per Leslie!

Come una freccia, come un razzo, Myosotis si lanciò per le vie deserte e silenziose, tremando di essere inseguita, credendo ad ogni istante di sentirsi afferrata, fermata, trascinata indietro....

Giù per una via, su per un'altra, ansando, tremando, barcollando, coi denti che le battevano, col sangue che le rombava nelle orecchie.... via!.... via, a cercare soccorso, soccorso per Leslie.

Ma una strada dopo l'altra era buia e deserta, una piazza come l'altra era nebulosa e silente in quel quartiere remoto ed eccentrico di Londra. Grigio su grigio, ombra su ombra, tutto svaniva e si dissolveva in un fosco e opaco lividore.

Allora Myosotis gridò, chiamò, strillò. Il suo terrore la rendeva afona: la nebbia avviluppava e smorzava la sua voce come una coltre di flanella umida e densa.

Come talvolta in sogno aveva voluto gridare senza poter emettere un suono, così ora non erano più che gemiti e rantoli, fievoli e fiochi, che le uscivano dalla gola.... E nessuno l'udiva, nessuno rispondeva. Una frenesia di terrore la assalì.

Eppure questa era una città, questi muri intorno a lei, chiusi e bui, erano case, case piene di gente....

Si volse e cercò una porta – la prima che trovò, e vi battè con deboli pugni, e poi coi piedi, e ancora coi pugni....

– Aiuto! aiuto! aiuto!

Un passo, lento, cadenzato e pesante; lo sprazzo abbagliante di una lampadina elettrica: era un policeman.

Myosotis si appoggiò al muro per non cadere in deliquio.

– Cosa c'è? Cosa fate? – fece lui in tono burbero, illuminando dalla testa ai piedi la figura scarmigliata.

– Venite! venite.... – balbettò lei, – per amor di Dio.... – e gli si aggrappò alla manica. – Venite!

– Dove? – chiese il policeman con grave imperturbabilità.

– Di qui!… di qui!… – E visto la impossibilità di trascinarselo seco, lo precedette, correndo, per la strada donde era venuta.

– Che cosa accade? – chiese lui, camminando lento, ma con passi così lunghi che teneva dietro a lei che correva.

– Mia sorella.... mio Dio!… mia sorella....

– Morta? – chiese il policeman.

– No.... no! – gridò Myosotis, ansimando e singhiozzando; – è chiusa in una casa.... non so.... non so cosa le facciano.... Non ha che quindici anni....

– Ho capito, – fece laconico il policeman.

Volsero l'angolo e si trovarono in un'altra piazza con un giardino nel centro.

Myosotis si fermò titubante. – Di qua!… No! no.... di qua!

E volse correndo a destra.

Il policeman la seguì col suo passo lento e lungo. Il suo occhio percorreva le facciate buie delle case che guardavano colle spente finestre la piazza.

– Granville Square, – disse. – È qui?

– No!… No!… – gridò Myosotis, – deve essere giù di là.... – E si lanciò a sinistra. – Ecco.... sì, sì! Sono passata di qui.... mi ricordo!

Giunta all'angolo si guardò intorno smarrita. – Ho sbagliato, – ansò; – dovevo voltare a destra!…

– Ma in che strada è? – chiese il policeman, fermandosi.

– Non vi fermate, non vi fermate! – pianse Myosotis. – Non so in che strada sia.... ma la troverò.... la troverò!

Giù per un altro svolto; ed ecco un'altra piazza, un altro giardino, un altro quadrato di case oscure e silenziose.

– Gledhow Place, – enunciò il policeman.

Ma non era qui; no! Era ancora più in là, molto più in là....

Il policeman la seguì di qua e di là, da una strada all'altra, da una piazza all'altra, tutte identiche, tutte deserte, tutte acquattate nella nebbia, oscure e silenziose.

E di nuovo l'uomo si fermò.

Intorno a loro si chiudeva più fosca, più densa, più tenebrosa la nebbia sulla enorme città silenziosa.

– Conoscete il nome della gente che sta in quella casa?

– Sì! sì! È una signora.... Lady Randolph Grey.

L'uomo ripetè titolo e nome, e sogghignò, incredulo.

– È bionda.... alta.... ha un automobile verde scuro....

Il policeman scosse le spalle. – Ma insomma, come ci siete andate in quella casa? Non avete l'indirizzo scritto?

Sì, sì! Myosotis l'aveva.... cioè, non l'aveva.... ma se lo ricordava. Argyle Square, numero 32.

– Ma quello è nel centro della City, – disse il policeman. – A dieci chilometri di qui.

E si tolse di tasca una piccola guida e la sfogliò alla luce della sua lanterna.

– Argyle Square.... Argyle Square.... numero 32. Eccolo. – Poi alzò gli occhi e guardò Myosotis. – È un ufficio postale.

– Mio Dio! Mio Dio! Mio Dio!… – gridò Myosotis. – Facciamo presto! facciamo presto!.... Bisogna trovare quella casa! trovare quella casa!…

Più nera, più fosca, più profonda scese la nebbia sull'enorme città, nefanda e misteriosa.

E avanti ancora, di piazza in piazza, di strada in strada.... poi in un posto di polizia.... e poi, con altri policemen, di piazza in piazza, di strada in strada....

·······

Albeggiava.

Quella casa non fu ritrovata.

FINE